venerdì 21 agosto 2015

Corriere 13.8.15
L’eredità culturale di Roma antica ha segnato la storia dell’Occidente
Il richiamo ai doveri dei governanti e l’idea universale della cittadinanza Ecco i motivi portanti di una concezione etico-politica sempre attuale
di Giovanni Brizzi


Il tema del retaggio lasciato dall’antica Roma all’Occidente è talmente vasto da poter riempire intere enciclopedie. Col volgere dei secoli infatti, dopo la conclusione della sua parabola storica, l’Urbe è divenuta grado a grado, nella memoria e nell’emozione delle età successive, un autentico luogo dello spirito, una sorta di categoria del pensiero; sicché i modelli politici e ideali che ha via via offerto ai posteri come exempla e come parametri di confronto cui ispirarsi, sono stati davvero infiniti e vanno dalla lingua (un latino che, affiancato nelle sue differenti versioni, dal greco e dall’infinita varietà dei dialetti locali, si è poi imposto a lungo, nell’Europa dei secoli seguenti, come strumento delle classi colte) al lessico militare e politico e all’intero pantheon dei rispettivi simboli; dagli sviluppi del diritto all’evoluzione di alcune forme letterarie o artistiche e al dibattito circa la struttura ideale, repubblica o impero, cui ispirarsi, sopravvissuto fino alle vicende delle grandi rivoluzioni al chiudersi del XVIII secolo.
Due almeno di questi motivi sembrano qui meritare un accenno. Una prima costante, lungo il solco tracciato dalla storia di Roma fino all’età di Costantino e all’avvento dell’impero cristiano, è la presenza, termine di confronto obbligato per chiunque detenesse il potere, della forma politica ideale fondata sul teorico «governo dei migliori». Questa poggia, a Roma, sul concetto di « virtus e su altre qualità e meriti concreti» che debbono esser prerogativa dei magistrati alla guida dello Stato (Emilio Gabba). In Honos et Virtus , in effetti, la coppia di valori divinizzati da alcuni Grandi della Repubblica per richiamarsi al merito, la Virtus coincide non con l’eccellenza nella funzione militare soltanto; ma con il complesso di valori proprio del buon cittadino e, in sostanza, con l’accettazione del munus serviano, del dovere verso lo Stato di cui il servizio in armi rappresenta solo l’espressione più alta; mentre l’ Honos richiama un consenso del popolo destinato a sfociare negli honores , le cariche cittadine che ne sono l’esito necessario.
La correlazione tra gli obblighi verso la «cosa di tutti» e i pubblici uffici è un principio teoricamente ineludibile, che condiziona molto a lungo i governanti di Roma. Pur ferito e inquinato da ambizione, corruzione e violenza, questo ideale sopravvive; e a porvi fine è solo il graduale imporsi di una funzione imperiale che ambisce a farsi assoluta e a sciogliersi dall’obbligo di giustificare il proprio potere. Più volte fallito, il tentativo riesce infine a partire da Costantino; che si appoggia alla più diffusa ed efficace tra le religioni orientali, un Cristianesimo il quale, da Paolo di Tarso in poi, fa derivare omnis potestas a Deo . Distruggendo il rapporto esistente tra responsabilità e potere, lo svincolarsi del sovrano dal munus verso lo Stato scioglie però dallo stesso obbligo anche i cittadini; che, trasformati in sudditi, saranno tenuti ormai solo ad un’obbedienza senza iniziative.
Il secondo motivo portante è la civitas , la cittadinanza, che si allarga ad abbracciare idealmente l’intera ecumene. Pur ridimensionato nelle sue ambizioni più concrete, l’universalismo dell’Urbe si rivela destinato a sopravvivere, come un principio fondamentale, ben oltre la fine dell’età romana; e ciò perché si tratta di un sogno che era stato il «frutto di una concezione... imperiale o brutale solo in apparenza» e perché davvero Roma aveva saputo, da ultimo, aprirsi a qualunque abitante dell’impero. Capace di chiamare a far parte di una realtà comune prima la popolazione della penisola, poi via via tutto il genere umano; capace di fare prima dell’Italia «un’unica città, che intratteneva» con il potere un tempo egemone «lo stesso tipo di rapporti paradossali e straordinari che, due secoli più tardi, Elio Aristide», nella sua orazione A Roma , «avrebbe sentito esistere tra l’Urbe e tutta la terra abitata», il genio politico romano aveva creato, «una concezione originale del diritto di cittadinanza».
La civitas seppe, oltretutto, mantenere in vita, rispettandolo, ogni singolo particolarismo giuridico, religioso o culturale presente nell’ambito dell’impero; e far germogliare ad un tempo i fermenti ideali necessari alla realizzazione «di quella cosmopoli con cui l’impero stesso, rivale della città di Dio, sarebbe giunto quasi a identificarsi».
Se il primo di questi grandi temi rappresenta una delle idealità politiche più alte e autenticamente fondanti per l’Occidente intero, il secondo vede Roma creare, «conciliandola sapientemente con l’autonomia locale delle leggi e dei costumi... una concezione originale del diritto di cittadinanza, non duplice… ma sdoppiata o, se si vuole, a due livelli» (Claude Nicolet), tale da render non solo l’Italia, ma l’intera orbe di allora patriam diversis gentibus unam , una patria per i popoli più diversi. Possa quell’Europa, che è di fatto alla radice stessa del grande Occidente moderno, raggiungere infine un analogo traguardo.