lunedì 6 luglio 2015

Repubblica 6.7.15
Quell’utopia di maneggiare tutto il sapere
Era il sogno dell’umanista Giulio Camillo,che nel ’500 immaginò un “Teatro della memoria” che contenesse l’intero scibile. Raccolti in un volume i suoi progetti.
Quell’utopia di maneggiare tutto il sapere
di Francesco Erbani


La questione che affascinava e forse tormentava Giulio Camillo, coltissimo umanista vissuto a cavallo fra Quattro e Cinquecento, era come sistemare in uno spazio, in un edificio, tutto il sapere di cui si disponeva allora. E non solo. Come renderlo fruibile, al pari di una gigantesca memoria dalla quale trarre materia per future creazioni. E, ancora, come mostrare gli intimi legami fra parole e parole, fra parole e immagini. Un compito pazzesco, che sfidava un potere divino e che non produsse nessun effetto durevole. Ma ci si può limitare a constatare che nulla è rimasto del fabbricato che contenesse tutte le conoscenze per dire che Giulio Camillo fosse un ciarlatano e che del suo progetto non valga la pena occuparsi? No, non basta. Non è bastato a Lina Bolzoni, filologa della Normale di Pisa,
Eccellente studiosa dei rapporti fra linguaggi letterari e linguaggi artistici nel Rinascimento, la quale, dopo anni di faticose e felici ricerche, è approdata all’edizione dell’opera di Giulio Camillo, L’idea del Theatro , che ne riprende una, sempre a sua cura, del 1991 (Sellerio), ma che ora è accompagnata da altri testi inediti dello stesso autore (Adelphi).
Per questa edizione Bolzoni ricostruisce in una ricchissima introduzione – oltre centoventi pagine – la storia di Giulio Camillo e la storia del suo teatro, lo spazio nel quale egli avrebbe voluto allestire una grande galleria di parole e immagini, un vero «thesaurus della memoria iconografica». È una ricerca condotta collazionando numerosi manoscritti e testi, uno conservato persino ad Austin, nel Texas, e ricostruendo la rete di rimandi letterari, pittorici e architettonici che avvolgono l’opera e il suo autore – da Pietro Bembo a Tiziano, da Pietro Aretino a Lorenzo Lotto e Sebastiano Serlio. Si restituisce così al lettore d’oggi uno spaccato di connessioni intellettuali, interpretative e creative così proprie del Cinquecento.
E sembra quasi che lei, Lina Bolzoni, abbia assorbito il metodo del suo Giulio Camillo. Così, per fare solo qualche esempio, troviamo una “citazione” di Giulio Camillo nell’ Allegoria della prudenza di Tiziano o un “prestito” in Giulio Camillo dalla fantasmagorica Hypnerotomachia Poliphili , e alcune traiettorie che ci conducono all’ Orlando Furioso .
In pieno Cinquecento, spiega Bolzoni, Giulio Camillo respira l’aria favorevole agli studi sulla memoria come sistema. Da un lato rifioriscono le lettere, le arti e le riflessioni sulla lingua. Dall’altro il neoplatonismo stimola gli interessi astrologici, ermetici, magici e cabalistici. La mente umana appare come una strabiliante macchina produttrice di immagini. Inoltre il clima culturale di quei decenni è propenso a che un lettore colto trasmigri dalla lettura di un testo alla percezione di una pittura e alla contemplazione di un edificio. Ancora: letteratura, arte, architettura. Si pone però il problema di come ordinare e classificare le conoscenze e di come disporle affinché da esse nascano nuove opere: c’è bisogno di una “chiave universale” che spiani la via a un sapere enciclopedico. Il teatro di Giulio Camillo è lì per questo.
Lo spazio che Giulio Camillo immagina debba ordinare il sapere è propriamente un teatro di squisite forme classiche, con il palcoscenico e le gradinate. Inversamente che nei teatri greci e romani, lo spettacolo è nelle gradinate, lo spettatore sul palcoscenico.
Sulle gradinate sono disposte le immagini. Queste, intrecciando l’asse verticale con quello orizzontale, un metodo assai caro alla retorica classica, producono delle associazioni «che indicano un percorso, invitano le “menti dei savi” ad andare al di là di essi». Associazioni, connessioni. Oggi diremmo link.
Sull’asse verticale sono disposti i sette pianeti, raffigurati sotto le sembianze delle antiche divinità (Saturno, Venere…).
Sull’asse orizzontale si dislocano le immagini che le tradizioni filosofiche, poetiche, mitologiche e religiose hanno messo in corrispondenza con i pianeti. In totale quarantanove caselle. Una griglia, una scacchiera. A disposizione di tutti coloro che dovessero accedere al palcoscenico, ognuno dei quali, però, recepirà e approfondirà per quanto gli è consentito dalla propria cultura.
Una grande memoria visiva, alla quale si associa la facoltà di trasformare le parole – facendo poesia –, la materia – grazie all’alchimia –, l’anima – accostandosi al divino. La memoria è dunque la condizione per generare, fra le altre cose, la nuova letteratura.
Umberto Eco ha definito Giulio Camillo «il più incontinente fra i mnemotecnici», che «quanto a criteri di correlazione sembra battere i più forsennati cacciatori di segnature». Chiosatore di Petrarca e Virgilio, studioso di retorica, Giulio Camillo non si sa con precisione quando e dove sia nato. Forse in Veneto, forse in Friuli. Forse nel 1480, forse no. È noto agli studi letterari per aver sostenuto una posizione molto rigorosa in materia di imitazione dei testi antichi. In linea con il suo amico Bembo e in contrasto con Erasmo da Rotterdam, Giulio Camillo (che in qualche occasione è definito Giulio Camillo Delminio, ipotizzando un’origine dal- mata) ritiene che non si debba scegliere fior da fiore, come fanno le api per il miele, ma che bisogna concentrarsi su un unico testo, un unico autore, il migliore di tutti. Cioè Cicerone. Oppure Petrarca. L’ipotesi gli serve per dimostrare che per la lingua letteraria un’epoca si è chiusa, quella del latino, e che un’altra, quella del volgare, è in piena rinascita.
La letteratura, però, non lo soddisfa integralmente. Giulio Camillo, spiega Bolzoni, nutre un sogno degno di Faust: «Vuole penetrare al di là della lingua e delle forme, fino a catturare i segreti della bellezza che si nascondono nei testi esemplari, e ancora oltre: vuole ricollocare i testi entro uno schema che permetta di andare dalle parole alle cose, di riprodurre l’ordine e la forza creativa del cosmo, fino a gareggiare con Dio».
L’idea del teatro (un edificio reale? Un palazzo, una villa? Un modellino in legno?) necessita di finanziatori. Giulio Camillo si sposta dal Veneto a Genova, a Roma, a Bologna. Nel 1530 è a Parigi, dove Francesco I pare disposto a sostenere l’impresa.
Ma evidentemente il progetto non decolla se nel 1543 si trasferisce presso il governatore spagnolo di Milano, Alfonso D’Avalos. Dove però un anno dopo muore, sembra per stravizi amorosi con due donne. È «la degna conclusione», annota Bolzoni, «di una vita che aveva conosciuto sia l’estasi mistica che i piaceri dei sensi».
Solo nel 1550 esce l’opera che sintetizza le sue idee. Erasmo lo disprezza. Ludovico Castelvetro mette in fila le tante contraddizioni. Ma la fama del suo teatro è grande e procede in sintonia con le aspirazioni enciclopediche e utopiche di quei decenni.
Cosa resta del teatro di Giulio Camillo? Restano aneliti a un metodo ordinatorio e di costanti connessioni che, a seconda del lievito culturale, si articolano in un modo o in un altro. Ma, aggiunge Bolzoni, nessuna epoca come la nostra può accostarsi meglio al progetto di Giulio Camillo. Bastino i nomi di Borges e di Warburg. Oppure il Palazzo enciclopedico disegnato negli anni Cinquanta del Novecento da Marino Auriti ed esposto alla Biennale del 2013.
IL LIBRO Giulio Camillo, L’idea del Theatro, a cura di Lina Bolzoni (Adelphi, pagg. 340, euro 70)