Corriere 7.7.15
Daniel Gros è il direttore del Centro per gli studi di Politica europea
«La Grexit? Costerebbe più dell’Argentina L’Eurogruppo va ripensato completamente»
intervista di Luigi Offeddu
«La crisi della Grecia sembra avviarsi verso il modello argentino. Ma “Grexit”, se ci sarà, sarà molto più caro, costerà molto più dell’Argentina».
Daniel Gros è il direttore del Centro per gli studi di Politica europea, uno dei più autorevoli think-tank di Bruxelles. Da molti anni analizza le virate, le speranze e le ansie della nave Europa: che oggi, dopo il No di Atene, sembra davvero entrata in mari sconosciuti.
Che cosa sta accadendo?
«Che in queste ore, in Grecia, assistiamo alla nascita di un nuovo peronismo. Pieno di tante promesse. Fatto di orgoglio nazionale, speranza, autodeterminazione: e che tiene insieme destra e sinistra. È una tentazione che può estendersi anche ad altri Paesi».
Domani (oggi per chi legge, ndr), sono in agenda l’Eurogruppo e il Consiglio europeo, il vertice dei leader Ue. Che cosa aspettarci?
«Personalmente sono molto scettico. Anche dopo la mossa delle dimissioni di Varoufakis, sarà molto difficile per il Consiglio fare importanti concessioni. Può darsi che i leader Ue e Tsipras dicano: va bene, mettiamo da parte le discussioni di questi giorni, e ricominciamo studiando un nuovo piano di crescita per il Paese, ad esempio nuove misure contro la disoccupazione giovanile. Ma il Consiglio dirà: non negozieremo sotto pressione. Può anche darsi che si punti a un accordo salva-faccia, ma poi sarà molto difficile spiegarlo alla Germania?».
Nessuno spiraglio di compromesso, allora?
«Ripeto: io sono scettico. Molto dipende dal conflitto in corso fra Angela Merkel e Wolfgang Schäuble».
Non è che se ne parli poi molto: da che cosa sarebbe originato il contrasto?
«Schäuble scrisse, già vent’anni fa, un documento in cui sosteneva e auspicava una più profonda integrazione dell’eurozona. Questa può esservi ancora, anche con Paesi come il Portogallo. Ma non con ciò che sta accadendo adesso in Grecia».
E dunque, sembra di intuire, per Schäuble l’ipotesi Grexit non sarebbe sconvolgente. Ma per la cancelliera Merkel?
«Le conseguenze incombenti sulla Grecia possono intaccare la sua carriera politica. Tsipras è ora più forte, e ha davanti due sbocchi possibili: il modello argentino, e il modello della crisi di Portorico (ndr: il governo portoricano ha annunciato che il suo debito alle stelle “non è pagabile”, e che si rifiuterà quindi di onorarlo per sottrarre il Paese a una “spirale di morte”). Tsipras ha fatto un passo molto deciso verso il modello argentino: e questo, nella Ue, è qualcosa di assai poco conveniente per la Merkel».
Il 14 luglio scadrà la carica di presidente Eurogruppo. Ce la farà Jeroen Dijsselbloem ad essere riconfermato?
«Sarà difficile fermarlo».
Ma non sarebbe venuto il momento di ripensare il modo in cui funzionano i vertici delle istituzioni Ue?
«Certo, sull’Eurogruppo c’è molta insoddisfazione. Quanto al Consiglio europeo, ora lo guida Donald Tusk, polacco, che pensa di più alla Russia e ai problemi dell’Est, e non è molto in sintonia sulla Grecia. Se Merkel e Hollande vogliono davvero guidare l’Europa, non devono solo preoccuparsi della politica interna tedesca ma anche delle preoccupazioni dell’Est Europa».
Corriere 7.7.15
Perché Angela Merkel dovrebbe accettare di tagliare il debito
Lo sfacelo della linea finora adottata si manifesta in modo duplice: come perdita economica e sconfitta politica. L’unica via d’uscita è trattare
di Wolfgang Munchau
Le carriere politiche si decidono in momenti come questo. I ripetuti avvertimenti di una possibile Grexit da parte di Sigmar Gabriel rendono ora impossibile per la Spd prendere le distanze dalla catastrofica politica europea di Angela Merkel. Sul piano della politica economica i socialdemocratici si sono declassati da soli a terzo elemento dell’Unione, una sorta di traballante appendice di Cdu e Csu.
Le reali alternative ora si trovano solo alle ali estreme, destra o sinistra. L’unica piccola chance di tornare a una posizione razionale è proprio nelle mani della Merkel stessa, che può evitare la débâcle dando il suo assenso a una conferenza sul debito per la Grecia. Potrebbe mettere sul piatto una cancellazione del debito a fronte di riforme rigorose: nessuna misura di risparmio, ma vere e proprie riforme strutturali. Politicamente una proposta di questo genere metterebbe Alexis Tsipras in difficoltà; tuttavia per lui opporsi sarebbe assai complicato. Sul piano economico la cancellazione del debito non ha alternative. È raro per me usare questa espressione perché la politica — e soprattutto la politica economica — consiste nello scegliere tra diverse alternative. Eppure in questo caso è un’espressione appropriata. Il taglio del debito, frutto di trattative o unilaterale, è una matematica conseguenza dei parametri economici stabiliti per la Grecia. Il Paese potrà restare nell’euro solo se saranno soddisfatte esattamente quattro condizioni: il condono dei debiti, un rifinanziamento del sistema bancario, reali riforme strutturali e la fine della politica di austerità. Se la Germania e gli altri finanziatori danno la propria disponibilità, allora la temuta Grexit si potrà scongiurare. Altrimenti no. È un dato di fatto.
La domanda è: la Merkel può e vuole farlo? Tra le sue fila c’è inquietudine e lei sa anche che Wolfgang Schäuble considera ormai la Grexit la strada giusta. Dovrebbe superare resistenze e ammettere indirettamente che la sua politica di rifinanziare i vecchi con nuovi debiti è fallita.
Uno studio della storia economica avrebbe reso superflua questa tardiva ammissione. Le lezioni che si possono trarre dall’economia sono raramente inequivocabili, ma la storia ci insegna senza dubbio che la crisi del debito va risolta rapidamente. Chi arriva tardi viene punito dalle circostanze. Penalmente i programmi di sostegno alla Grecia deliberati nel 2010 e 2012 avrebbero senza dubbio configurato un ritardo nella presentazione dell’istanza di insolvenza, se si fosse trattato del settore privato. Ciò che è successo qui è, di per sé, un illecito anche se formalmente non soddisfa i requisiti giuridici per essere considerato un reato. Si tratta dell’occultamento di fatti economici per futili motivi, cioè il tornaconto politico della Cancelliera a pesante discapito dei contribuenti. Il fatto che in Germania, di fronte a questa catastrofe, nessuno chieda le dimissioni di Angela Merkel è segno di una cultura politica malata.
Lo sfacelo della politica adottata dalla Merkel nei confronti della Grecia si manifesta ora in modo duplice. Nel caso di una Grexit la Grecia non rimborserà un solo centesimo dei propri debiti ufficiali, con il rischio per la Germania di una perdita assoluta di 90 miliardi di euro, cui si aggiunge una cifra incalcolabile in termini di danni collaterali. Se la Merkel accetta di prendere parte a una conferenza sul debito, la perdita materiale diminuisce notevolmente, ma l’onta aumenta. Nel primo caso si può attribuire la colpa ai Greci e definirsi vittima innocente. Nel secondo caso si riconosce indirettamente il proprio ruolo nella crisi. Il taglio del debito sarebbe razionale sul piano economico, ma non necessariamente su quello politico. Personalmente non sono ottimista poiché finora l’istinto della Merkel l’ha sempre indotta a scegliere l’opzione che presentava la minore resistenza.
Per un tedesco come me che vive da tanti anni all’estero, è sempre sorprendente vedere come un Paese di grandi scienziati e ingegneri, che affonda le radici nell’umanesimo e nel razionalismo, si faccia travolgere dall’emotività ogni qualvolta debba affrontare un dibattito importante. Così come nel 1914 i nostri nonni si rallegravano di fronte alla prospettiva di una guerra di breve durata, oggi i conservatori tedeschi pretendono la Grexit. Alcuni di loro sanno benissimo che un’uscita della Grecia destabilizzerebbe l’euro per lungo tempo, ancora non si sa esattamente in quale misura. Il pericolo di contagio diretto è limitato. Io ravviso invece il pericolo maggiore in un successo di quella stessa decisione. Se due anni dopo una eventuale Grexit l’economia greca riprende a crescere, il dibattito prenderà un’altra piega, soprattutto in Italia. Da quello che una volta era un rischio scaturirà una liberazione che lascerà dietro di sé un moncone di euro nordeuropeo, con un cambio sopravvalutato. Gli effetti di questa politica economica si potranno confrontare allora con la catena di decisioni drammatiche prese cento anni fa: una guerra sottovalutata, seguita da un Trattato di Versailles che nel suo dogmatismo non si discosta sostanzialmente dai principi della politica economica tedesca.
La decisione razionale per la Germania sarebbe accettare un taglio del debito. Alexis Tsipras dà segnali di voler trattare. Anche la Merkel lo dovrebbe fare.
(Traduzione di Franca Elegante)
Il Sole 7.7.15
Un’astuzia della storia per riavviare l’Europa
di Carlo Bastasin
Il referendum greco può essere interpretato come il germe di un contagio politico nazionalista che distruggerà il sogno europeo, oppure come un’astuzia della storia per ravvivare il progetto comune. È responsabilità dei leader europei riuniti oggi nell’Eurosummit valorizzarne il potenziale positivo.
Il no dei greci è arrivato solo due settimane dopo che i presidenti delle istituzioni europee avevano pubblicato un esangue rapporto sul futuro dell’unione monetaria. Ora che siamo piombati in “terra incognita”, quel documento sembra l’anacronistico testimone della paura di ogni ambizione per l’Europa. Il rapporto prevede che nei prossimi anni ben poco cambi nell’euro area e si utilizzino i soli strumenti di politica economica già esistenti.
In questa corta visione, il rilancio della crescita, dell’occupazione e degli investimenti sono solo la conseguenza sperata di riforme strutturali che ogni Paese deve condurre da sé. Sette anni di crisi dimostrano che non è affatto sufficiente per governare un’economia complessa ed eterogenea.
Ognuno di noi può giudicare a modo proprio l’azzardo di Tsipras. Ma tutti probabilmente capiscono che l’opinione di un popolo espressa così duramente non è irrilevante. È una risposta a un interrogativo mai posto, ma che circola ovunque, non solo in Grecia: la gestione dell’euro-area, così com’è, è coerente con il consenso dei cittadini?
La vittoria del sì al referendum greco avrebbe giustificato il nulla di nuovo descritto nel documento dei presidenti europei (in uno studio dello Iai, Fabrizio Saccomanni lo definisce irritante). Il no reclama una risposta molto più ambiziosa, prima che la tentazione nazionalista si allarghi a tutti i Paesi facendo torto agli stessi greci che non vogliono affatto abbandonare l’euro. Pur nel caos che sta provocando, l’Europa deve coglierne il senso di opportunità per se stessa. Il primo passo è aprire subito un nuovo dialogo con Atene. Questo non significa rinunciare a negoziare sui principi.
Ma, al contrario, significa mostrare rispetto per il coinvolgimento dei cittadini ed essere credibili quando si prefigura l’unione politica come punto di arrivo della riforma dell’euro area. Sedersi al tavolo, inoltre, darà una giustificazione alla Bce per tenere in vita il sistema bancario greco finché una trattativa è possibile, ed evitare conseguenze umanitarie sui cittadini. Chi teme l’azzardo morale di Tsipras, non conosce la grave situazione in cui la Grecia è stata ridotta da una prova di forza temeraria. Il Paese resterà dipendente dall’aiuto dei partner ancora per molti anni. Sacrificando Ifigenia-Varoufakis, Tsipras apre la porta a un linguaggio finalmente pragmatico. La retorica ostile – che ha partorito la logica dell’ognuno per sé – deve essere abbandonata anche da parte europea, perché la vittoria politica ottenuta da Tsipras lo impegna più di prima a rispettare la sua parte del contratto. Tsipras non ha più scuse, può e deve cambiare il Paese, avvicinandone le istituzioni a un livello europeo, ispirando la politica a pratiche finalmente eque ed efficienti a cui finora si è sottratto.
Il secondo passo dei capi di governo è riconoscere che quella europea è fin dal suo inizio una crisi delle politiche nazionali che non hanno saputo capire la sfida dell’euro e hanno frenato l’integrazione europea. Solo un anno fa il Pil greco cresceva quasi al 2% e per il 2015 era prevista una crescita del 3%. Il governo Samaras, approfittando della ripresa, sospese le riforme alle quali si era impegnato e di fronte a un’opinione pubblica fremente, lasciò crescere il disavanzo con l’idea di anticipare le elezioni. Vinse invece Syriza, la cui dialettica ostile alla cooperazione con le istituzioni europee ha reso così incerto il futuro del Paese da precipitare l’economia in una recessione che la crisi di liquidità sta aggravando di ora in ora. Prima dell’euro, comportamenti politici opportunistici od ostili come quelli di Samaras e Tsipras, venivano nascosti da una svalutazione dopo l’altra. Ora diventano incompatibili con l’euro. Il senso della moneta unica era di rendere coerenti le scelte dei governi con economie in grado di prosperare nel difficile ambiente globale. Una stima pubblicata sul nostro sito e basata sui dati Compnet della Bce mostra che i Paesi che dal 2000 hanno trascurato la sfida globale e perso posizioni nelle catene del valore sono gli stessi che hanno poi avuto bisogno di assistenza finanziaria.
Ma il terzo passo è ammettere che la politica non è solo competitività. Non a caso domenica scorsa Roberto Napoletano ha descritto il disperato bisogno di coesione europeo. Ognuno di noi si pone di fronte alla scelta politica valutando soprattutto ciò che riteniamo giusto e ciò che non lo è. I greci hanno votato reagendo alle ingiustizie che la crisi ha provocato nel loro Paese. Gli europei guardano ai governi greci come a compagini inaffidabili che mentono nei negoziati, tollerano clientelismo, oligarchia e inefficienza. Sono due diversi modi di chiedere una politica più giusta, ma non sono affatto incompatibili. I problemi greci sono di debolezza istituzionale – come in Italia – e l’ingerenza europea è utile a risolverli. Tsipras dimostri di condividere i fondamenti della civilizzazione europea coinvolgendo le istituzioni europee nella responsabilità comune di cambiare il Paese e non solo di trasferire aiuti finanziari senza controllo.
Da parte dei leader europei è necessaria una dose equivalente di umiltà. L’uscita della Grecia dall’euro sarebbe un colpo durissimo per il progetto comune. Una volta possibile, l’opzione di uscita dall’euro fisserebbe una gerarchia finanziaria ancora più squilibrata tra Paesi forti e deboli, precipitando questi ultimi di nuovo nella spirale tra debiti sovrani e bancari. La gerarchia, già vistosa negli anni dello “spread”, diventerebbe un rapporto di forza politica permanente. Uno dopo l’altro, dentro ai Paesi in difficoltà crescerebbe l’opposizione nazionalista alla “subordinazione” europea.
C’è dunque un ultimo passo cruciale: riconoscere una debolezza istituzionale europea che deve essere risolta di pari passo con quella greca. L’euro-area non è un’arena in cui i Paesi si combattono l’un l’altro per la prevalenza del più forte, ma uno spazio economico complementare in cui economie diverse possono beneficiare della loro interdipendenza. Si apra il dibattito sull’unione politica dell’euro-area, non nel segreto della Cancelleria federale o dell’Eliseo, non con documenti fatti per guadagnare tempo, ma con il coinvolgimento dei cittadini in un progetto che li riguarda, prima che dicano di no.
Questo articolo è tratto da un policybrief che è uscito ieri per Brookings e per LUISS
(School of european political economy)
http://sep.luiss.it/sites/sep.luiss.it/files/Bastasin_Greece1_SEPFinal.pdf
Sul sito la versione integrale
Il Sole 7.7.15
La nuova Europa. Se è solidale diventa più forte
di Alberto Quadrio Curzio
Da quando è iniziata la crisi (ed anche prima) Il Sole 24 Ore ha spesso adottato, a proposito della Eurozona e dell’euro, una linea «alla Ciampi». Perciò è molto confortante che ieri Carlo Azeglio Ciampi abbia rilasciato un’intervista a questo quotidiano confermando implicitamente la consonanza che emerge anche dall’editoriale di domenica del Sole 24 Ore dove si sottolinea l’urgenza di politiche europee di investimenti per la crescita.
Infine prima e dopo l’esito della vicenda greca sia il presidente del Consiglio Renzi che il ministro dell’Economia Padoan hanno ripetuto che le regole vanno rispettate ma anche interpretate e che la questione degli investimenti e della crescita è adesso prioritaria.
Da tre differenti punti di vista si arriva alla stessa conclusione che è ben diversa da quelle di chi vuole rinazionalizzare la Uem,ritornare alla lira,introdurre barriere protezionistiche,consolidare il debito pubblico. Ed altro ancora.
Tre tesi più due. Partiamo in sintesi da due delle tesi del Presidente Ciampi che egli colloca in una più ampia visione politica che lo spinge ad auspicare uno «sforzo costituente» dell'Europa nello spirito dei padri fondatori. La prima è l’irreversibilità dell'euro che è stato lo scudo protettivo,con la BCE, nella crisi. Tutto ciò – continua Ciampi - non basta e non si può gravare solo sulla BCE , unica istituzione federale della eurozona, la responsabilità di preservare l’unità della Uem adesso intaccata dagli egoismi nazionali, dagli euroscetticismi, dai populismi. La seconda tesi, conseguente alla prima, è l’urgenza di politiche economiche europee per gli investimenti, l'occupazione,la crescita. La sostenibilità dei bilanci pubblici è importante ma deve essere coniugata con riforme economiche ed istituzionali digli stati membri e con politiche di sviluppo nazionali ed europee. Roberto Napoletano nella sua analisi politica ed economica formula,tra le altre,due proposte precise. La prima riguarda la creazione di un Fondo europeo che raccolga la parte dei debiti pubblici nazionali eccedente il 60%(definito un parametro sbagliato) del PIL mettendo i Paesi in condizione di esprimere le loro «virtù» economiche rispettando vincoli ragionevoli di bilancio pubblico e di bilancia dei pagamenti
La seconda riguarda una «cura da cavallo di eurobond innovativi» e di project bond per investimenti di lungo termine e per infrastrutture materiali ed immateriali che favoriscano la convergenza delle economie reali nazionali. Muovendo da queste tesi che condividiamo approfondiamo due punti: la mutualizzazione di parte dei debiti pubblici della Uem; le politiche nazionali e della Uem per rilanciare gli investimenti. Sappiamo che i due temi sono osteggiati dalla Germania anche se noi speriamo sempre che questo grande Paese stia adesso facendo una analisi di costi e benefici della assenza di politiche della eurozona per stabilizzare i debiti pubblici e per la crescita.
La mutualizzazione del debito. Ci sono molte proposte al proposito e tra queste ne menzioniamo due. Quella molto autorevole del Consiglio degli esperti economici della Germania e quella, molto personale, elaborata da noi. Il Consiglio tedesco nel febbraio 2012 ha proposto (con i soliti caveat che non impegnano l’istituzione) un European Redemption Pact (ERP) come strategia di uscita dalla crisi dei debiti sovrani della eurozona mediante il conferimento in un Fondo a responsabilità solidale di tutta l’eccedenza dei debiti sopra il 60% e con l’impegno dei singoli stati di stati di scendere a quella soglia entro 20-25 anni.
La nostra proposta consiste nel trasformare lo ESM in un Fondo che compera alla emissione l’eccesso dei titoli di stato di ogni paese rispetto alla media del debito su pil della Eurozona dei quattro anni precedenti (nel caso che si partisse nel 2015 si tratterebbe dell’eccesso rispetto al 90% circa) emettendo sue obbligazioni. Le scadenze sia dei titoli sovrani che di quelli del nuovo Esm dovrebbero essere mediamente allungate e correlate tra loro. Poi con dei target quadriennali o quinquennali di riduzione del debito ogni stato, che pagherebbe interessi minori di quelli di mercato in quanto il nuovo Esm è solidale verso il mercato stesso, potrebbe gradualmente convergere verso un rapporto medio di debito su pil.
Su questa base sono possibili molte varianti che possono far evolvere il nuovo ESM verso un “tesoro federale”.
Più investimenti:bond e flessibilità. La vicenda degli eurobond per finanziare gli investimenti inizia con la proposta di Delors nel 1993 a arriva fino all'importante dibattito sugli stability bond tra Commissione e Parlamento europeo del 2013. Noi stessi abbiamo contribuito con proposte dal 2004 e una di queste (elaborata con Romano Prodi e pubblicata su qesto giornale) nel 2011 e 2012 ha avuto anche una certa risonanza. Ciò significa che l'analisi è stata fatta ma è la politica che manca. Per cercare di cogliere due occasioni che si presentano ora facciamo due ulteriori proposte.La prima è che la BCE ,che con il Qe può già comperare obbligazioni della Bei, aumenti questi acquisti (a fronte di maggiori emissioni che dovrebbero crescere anche per l'attivazione del Fondo per gli investimenti strategici) in modo da convogliare rapidamente molte più risorse al Piano Juncker e agli investimenti infrastrutturali progettati dalla Commissione da qui al 2030 ma carenti di finanziamenti. La seconda proposta è quella ben nota di applicare la “golden rule” che esclude dal calcolo del deficit sul pil, per il rispetto del fiscal compact, le spese finanziate dai singoli stati in partenariato con istituzioni europee, alle quali andrebbero aggiunte le banche di sviluppo nazionali ed investitori privati accreditati. Il tutto sotto il vigile controllo delle istituzioni europee.
Una conclusione. Sappiamo che le proposte precedenti dovrebbero entrare in un disegno organico ed essere compatibili con i Trattati europei. Queste non ci sembrano però difficoltà insormontabili sia perché le Istituzioni europee sono attrezzate per elaborare progetti organici sia perché quando c’è stata l’urgenza si è varato il Trattato internazionale per lo ESM poi reso compatibile con quelli europei con una modifica degli stessi. L'Eurozona è nata sulle cooperazioni rafforzate e può farne altre. Il vero problema è quindi di volontà politica ed è qui che si vedrà se l’Eurozona vorrà diventare più forte o più debole. Perchè ferma non può stare.
Il Sole 7.7.15
Va «riletto» il Patto di stabilità
di Dino Pesole
Una rilettura intelligente del Patto di stabilità e di crescita è possibile, per cominciare ad affrontare la vera questione che la crisi greca ripropone in tutta la sua forza e drammaticità: come ridefinire la governance sostanziale europea all’interno di un processo che in prospettiva potrà condurre alla revisione dei Trattati ma che potrebbe già nell’immediato invertire il senso di marcia nel tornante più critico da quando si è messo in moto il convoglio della moneta unica. È possibile con la precondizione fondamentale che i governi marcino compatti verso il superamento di quella “zoppìa” più volte evocata da Carlo Azeglio Ciampi: una casa comune costruita sulla sola gamba della moneta, senza un vero governo dell’economia e un efficace coordinamento delle politiche fiscali.
Eurobond e project bond, in primis, ma anche un’interpretazione più flessibile della disciplina di bilancio che contempli – come proposto nell’editoriale di domenica scorsa del Sole24Ore – un fondo unico che raccolga le eccedenze nazionali di debito rispetto al tetto massimo del 60% del Pil.
Si può fare? Il totem del 3% nel rapporto deficit/pil è stato infranto nel 2003 da due calibri da novanta come Francia e Germania. Quanto al tetto del 60% fissato anch’esso nel 1992 dal Trattato di Maascricht, si è adottata implicitamente dal 2005 una lettura decisamente più “estensiva”, lasciando aperto lo spazio tra la “misura sufficiente” e il “ritmo adeguato di avvicinamento all’obiettivo”, senza modificare l’impianto di partenza.
Anche la più recente “invenzione”, la regola del debito prevista dal Fiscal Compact (la riduzione si considera sufficiente se il differenziale rispetto al 60% sia diminuito negli ultimi tre anni a un ritmo medio di un ventesimo l’anno) non pare turbare i sonni dei governanti europei. Si possono invocare le circostanze attenuanti, in caso di grave recessione, o mettere in campo i fattori rilevanti, tra cui la consistenza del risparmio privato, le riforme strutturali che rendono sostenibile il debito nel medio periodo (la previdenza in primis), la solidità del sistema bancario.
Ma la vera questione è come si fa a rilanciare la crescita. La leva degli investimenti, con il loro possibile effetto moltiplicatore, è decisiva, al pari di dosi più coraggiose in direzione della flessibilità di bilancio. Tra gli indicatori di finanza pubblica cui accordare maggiore valore compare senza dubbio l’avanzo primario, mentre ora Bruxelles guarda con più attenzione al disavanzo strutturale e all’obiettivo del pareggio di bilancio. Se la stabilità, pur necessaria per la sostenibilità dei conti pubblici, degenera in austerità a senso unico si perde l’altro fondamentale pilastro, la crescita.
Si attende il decollo del “piano Juncker” che dovrebbe attivare 315 miliardi di nuovi investimenti produttivi, ma è un veicolo dal cammino quanto meno incerto. Si prevede lo scorporo dal calcolo del deficit delle quote nazionali conferite nel Fondo, si apre la strada a un diverso e più flessibile criterio di calcolo dei progetti europei cofinanziati dall’Unione europea, quando il vero tema è provare a gettare il cuore oltre l’ostacolo e prevedere che buona parte delle spese dirette a investimenti produttivi siano fuori dal calcolo del deficit (la golden rule mai decollata).
Occorre provare a vincere l’altro tabù che per la Germania pare invalicabile, quello della parziale mutualizzazione del debito, come proposto quattro anni fa da Romano Prodi e Alberto Quadro Curzio attraverso lo strumento degli “EuroUnionBond”. Se dopo la crisi frontale che ha investito l’eurozona, con la crisi greca si trascina irrisolta da cinque anni, l’Europa non volta in fretta pagina, sarà difficile contenere la marea montante dell’euroscetticismo e offrire una reale prospettiva di sviluppo e occupazione ai giovani europei.
Il Sole 7.7.15
Tornare al negoziato. Italia meno debole di altri Paesi
Squinzi: «Non si può far saltare l’Europa per un’impuntatura»
Confindustria. «Prevalga il buon senso, ci si rimetta a negoziare e si trovi una via d’uscita»
di Nicoletta Picchio
«Non si può far saltare l’Europa per la Grecia e per un’impuntatura, ora si torni al negoziato». Così il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ha aggiunto: mi auguro che prevalga il buon senso e si trovi una soluzione. Per Squinzi l’Italia è meno debole di altri Paesi.
Il risultato del referendum? «Mi pare fosse ampiamente atteso». L’auspicio è che «prevalga il buon senso, ci si rimetta a negoziare e si trovi una via d’uscita, un modo costruttivo per venirne fuori, senza arrivare alle rotture». Giorgio Squinzi è all’assemblea degli industriali di Asti e inevitabilmente le prime domande sono sulla questione greca. «Sarebbe assurdo far saltare l’Europa per la Grecia e per un’impuntatura, perché il referendum è un’impuntatura di tipo politico tra greci e autorità della Ue». Certo, a chi gli chiede se l’Europa oggi è più debole il presidente di Confindustria ammette che «non è un bel segnale», anche se continua a pensare che bisogna credere al progetto europeo, individuare soluzioni «di compromesso» per andare avanti e che «si trovi una spinta politica vera nella direzione di un’Europa unita». E comunque, sul rischio contagio, secondo Squinzi l’Italia è «meno debole di altri paesi».
La riflessione è più ampia: «La crisi ellenica dimostra i difetti e i limiti della costruzione europea, incapace di risolvere il conflitto di sovranità tra stati nazionali e istituzioni comuni.I nodi di questa mediocrità politica vengono drammaticamente al pettine». Il presidente di Confindustria continua a sognare gli Stati Uniti d’Europa, ma è consapevole che «la gestione europea della crisi greca ci ha fatti allontanare e di molto da questo sogno». La politica di austerità «ad ogni costo» va rettificata da scelte orientate alla crescita e allo sviluppo. Un cambio di rotta che Squinzi chiede da tempo, ma che stenta ad arrivare: timido il piano Juncker, nelle quantità e nelle modalità di scelta degli investimenti; le proposte dell’ultimo vertice europeo di una politica fiscale unica «vanno nella giusta direzione ma sono insufficienti nella tempistica e alla luce della grave difficoltà economica» in cui si dibatte gran parte dell’Europa. «L’Europa è fondamentale e sembrano essere gli europei stessi a non crederci», dice Squinzi, sottolineando la fiducia espressa da Usa e Cina. Agli elementi di «fragilità e di rischio» internazionali si aggiungono quelli interni: il governo deve andare avanti sulle riforme «con determinazione. Non basta annunciarle, bisogna attuarle», ha incalzato il presidente di Confindustria, «per semplificare il paese», creare un contesto dove sia possibile per le imprese crescere. «Abbiamo tanti segnali che si fa un passo avanti e uno indietro», ha detto Squinzi riferendosi alla «manina anti-impresa» che ogni settimana riserva qualche sorpresa, come dimostra il recente caso Fincantieri. Squinzi ha annunciato che oggi sarà a Monfalcone, alla riapertura dei cancelli dopo il dissequestro. Altro esempio, la legge sui reati ambientali, la tassazione dei macchinari imbullonati, il disegno di legge sul suolo: l’approccio «è basato prevalentemente su divieti e sanzioni», cosa che rischia di compromettere la crescita mentre servono, come Confindustria ha fatto presente, strumenti che incentivino la riqualificazione urbana e gli investimenti. È grazie all’impresa che l’Italia ha retto alla crisi e continua ad essere il secondo paese manifatturiero d’Europa. Qualche segnale di cresciuta si comincia a vedere, «ma la strada per risalire è ancora lunga». Bisogna essere «realisti» ha detto Squinzi: non basta una crescita da zero virgola, ma occorre almeno del 2% per creare occupazione. Invece la percezione è che «il mercato interno non sia ripartito e il minimo di ripartenza sia dovuto a cause esterne. Non abbiamo ancora cominciato a fare i lavori di pulizia a casa nostra».
Repubblica 7.7.15
La tragedia europea in scena ad Atene
La moneta comune non basta non garantisce unità, coesione nemmeno sovranità
Bruxelles è stata incapace di dare una speranza alla Grecia Non ha fatto intravvedere un approdo
di Ezio Mauro
BISOGNAVA davvero arrivare fin qui, sulla soglia greca del inis terrae geografico e politico d’Europa, per vedere la crisi del nostro continente e della costruzione che si è dato nei sessant’anni del dopoguerra — istituzioni, diritti, democrazia — per proteggersi dalle tentazioni che sono nate qui e da qui hanno insanguinato il Novecento.
Quel modello di Unione non funziona più. Lo stesso vertice di emergenza tra Merkel e Hollande, deciso subito dopo il plebiscito greco per il “no”, è una prova d’impotenza europea. Quale legittimità sovrana rappresentano i due leader? Un’auto-investitura. Due Paesi che provano a riempire il vuoto d’autorità delle istituzioni della Ue senza nessun mandato, fuori da ogni regola, forti soltanto della suggestione antica dell’intesa franco-tedesca come motore dell’Europa, un motore ormai spento.
È difficile per tutti riacchiappare l’Europa dopo questo salto nel vuoto. L’unica cosa chiara è il risultato del referendum, che era anche l’unico prevedibile vista la scarsità dell’offerta politica che i greci avevano davanti. Da un lato, un nuovo ciclo di austerity; dall’altro, la possibilità di negoziare ancora il grado di quell’austerity, in un Paese stremato e tuttavia incapace di riformarsi.
APPARENTEMENTE, la scelta era semplice. Così basica che si è facilmente caricata di sovrastrutture simboliche: Davide contro Golia, il povero che si ribella al diktat del ricco, la democrazia diretta e popolare contro la regola europea burocratica e ottusa. Questo sovraccarico di significati impropri ha fatto convergere su Atene una zattera della Medusa di vecchie e nuove destre, vere e false sinistre, portando in piazza fianco a fianco nazionalismi e anticapitalismi, lepenismi e radicalismi, uniti dalla leggenda nera dei poteri forti europei distruttori delle sovranità nazionali. In questo, il racconto della crisi che Tsipras fa oggi alla Grecia è identico a quello che Berlusconi fece all’Italia per spiegare la sua caduta: le colpe sono comunque altrui, c’è sempre un nemico in agguato con una gigantesca congiura esterna pronta a spiegare in modo elementare situazioni complesse, restituendo il populismo intatto alla fine della crisi, magari vittima ma comunque innocente.
In questo scenario le colpe di Bruxelles sono evidenti. Prima di tutto nel metodo: si è lasciato marcire il problema greco in vertici inconcludenti, Eurogruppo inutili, democrazie telefoniche improduttive. Nessuna azienda, nessun Paese avrebbe trasformato un caso così ridotto nelle sue dimensioni in un disastro per il continente intero. Poi, il merito, ed è ancora peggio: l’austerity funziona dove c’è un sistema produttivo, uno Stato, una regola economica da ripristinare, la prospettiva di una ripresa dopo il risanamento dei conti. Ma in Grecia tutto questo non c’è. L’austerity ha rimandato ad altra austerity, il Paese è soffocato sotto un calo del Pil del 25 per cento, la disoccupazione è la più alta d’Europa (26,5), i ragazzi senza lavoro sono il 50 per cento, le pensioni si portano via il 14,4 per cento del Pil, l’indice delle nascite è sceso dal 10,6 per mille del 2008 all’8,6.
L’Europa è stata incapace di dare una speranza alla Grecia, oltre le regole di cui Atene aveva bisogno. Non ha fatto intravvedere un approdo. L’ha stretta nell’egemonia della necessità, che non è una politica ma quasi una superstizione, come tale tecnicamente irresponsabile. Così nel suo piccolo — il 2 per cento del Pil dell’Unione, il 3 per cento del debito — il caso greco ha finito per gonfiarsi spropositatamente, imprigionando in sé tutto l’impasse della fase, per tutti noi: perché dell’Europa avvertiamo il vincolo, ma non siamo più in grado di riconoscere la legittimità di quel vincolo.
Posto in questi termini, il problema non è più soltanto economico, ma di democrazia. E dunque vale per tutti. Tsipras se n’è accorto fin dall’inizio e ha contrapposto la nuova sovranità nazionale del suo governo, conquistata col voto popolare, alla sovranità regolatoria di Bruxelles. Quando ha capito che non poteva modificare la politica della Ue, ha pensato di modificare la regola. Avrebbe potuto — e io credo che avrebbe dovuto — seguire la strada maestra, negoziare fino in fondo con la Troika (qualunque nome avesse), raggiungere un accordo scomodo ma utile, assumersene la responsabilità: e poiché quell’accordo si sarebbe discostato dalle promesse e dal mandato elettorale, avrebbe potuto a quel punto chiedere un referendum di conferma al suo popolo, ma sull’impegno raggiunto e sulle sue conseguenze.
Ha preferito non firmare, rimanere “innocente” dal punto di vista del mandato elettorale, e scaricare la scelta sugli elettori. È stato abile nell’ultima settimana a spostare il voto da dove voleva collocarlo la destra — euro o dracma — perché avrebbe vinto l’euro, cioè il sì. Ha chiesto invece più forza per tornare al tavolo di Bruxelles, con prospettive molto incerte, di cui non ha parlato agli elettori, assicurando che in caso di vittoria i greci avrebbero avuto più forza e la forza avrebbe piegato la politica.
Ci siamo così trovati davanti all’inedito di uno Stato contro l’Unione, il referendum contro i parametri, la democrazia contro la necessità, il popolo contro la Commissione. Un cortocircuito europeo, costruito a perfezione per un trionfo del sì in Grecia e per un contorno internazionale di simpatia per il ribelle democratico, Telemaco che resiste ai Proci in attesa del ritorno di Ulisse.
Ma anche se la Grecia produce più simboli di quanti ne possa consumare (come diceva Churchill a proposito dei Balcani e della storia), la vicenda europea è un poco più vasta. C’è voluto un padre dell’Europa come Jacques Delors ( Repubblica di domenica scorsa) per ricordare a Tsipras una verità controcorrente ma elementare, e cioè che “la sua legittimazione democratica non è superiore alla legittimazione democratica delle istituzioni della Ue”. Ci sono volute le immagini del pensionato che piange seduto a terra davanti a un bancomat vuoto per rappresentare la materialità della perdita di potere reale del cittadino, scoprendo che è più di sinistra negoziare un accordo gravoso e magari impopolare che chiudere le banche. E c’è soprattutto una nuova domanda, dopo il plebiscito per il “no”: che Europa ci resta, adesso?
Più che la sua posizione negoziale a Bruxelles, Tsipras ha rafforzato la sua posizione politica in patria. La trattativa si presenta complicata perché l’Europa vede messo in gioco il carattere vincolante delle sue regole, l’obbligazione politica che deriva dall’essere liberamente parte della Ue. È come se dopo il referendum l’Unione scoprisse di essere un’entità non sovrana, dove ogni ribellione è possibile e un referendum periferico cambia le carte in tavola della negoziazione tra il centro e gli Stati.
Per una preoccupazione politica comprensibile e per un istinto burocratico di conservazione, Bruxelles potrebbe reagire a questa vera e propria crisi di statualità europea facendo pagare il conto interamente ad Atene, con un default controllato come esempio negativo oggi per domare possibili ribellioni domani, magari di Podemos in Spagna, di Le Pen in Francia, di Grillo o Salvini in Italia. Sarebbe miope mutilare l’euro di una sua parte diventata così politicamente simbolica, così storicamente evocativa. Sarebbe colpevole dal punto di vista geopolitico, restituendo la Grecia ai Balcani e consegnandola agli appetiti di Putin. Sarebbe ipocrita dal punto di vista morale affrontare la crisi con gli “aiuti umanitari” trasformando la Grecia in un moderno Biafra nel cuore dell’Europa, come se il problema fosse caritatevole e non politico, grande come una casa.
Sarebbe soprattutto sbagliato cercare ad Atene i rimedi che possono venire solo da Bruxelles. Bisogna prendere atto che col voto di domenica si è chiusa la prima fase dell’Europa come costruzione politica e istituzionale, una fase non ingloriosa se ha garantito pace, inclusione democratica di Paesi che venivano da dittature prolungate oltre la guerra, e addirittura una moneta comune. Oggi si scopre che quella moneta non basta, non garantisce unità, coesione, nemmeno sovranità, perché fortunatamente una moneta non produce politica. Ci vuole un sovrano democratico in grado di batterla, di rappresentarla, di difenderla e di spenderla politicamente nelle grandi crisi del mondo, facendo sentire la voce dell’Europa. Ci vuole quel salto in avanti verso gli Stati Uniti d’Europa che Scalfari chiedeva ancora nel suo editoriale di domenica.
Qui la sinistra può ritrovare una sua voce di tradizione, quella voce oggi assente, come denuncia Marc Lazar. E persino l’Italia può avere qualcosa di legittimo da dire, se ricorda l’eredità di Altiero Spinelli. Questo è l’antidoto ai nazionalismi risorgenti, rosso-neri. E questa è la vera prova delle ambizioni della Germania, l’autentico test di leadership per la generazione Merkel. Che altro? Più Europa e più democrazia: è l’unica risposta alla crisi greca dettata dalla visione e non dalla paura, da un sentimento della politica e non dai risentimenti dell’antipolitica, o dalle fredde vendette burocratiche di Bruxelles.
Repubblica 7.7.15
Ma il rigore tedesco e le nostre debolezze rischiano di liquidare anche l’idea di Europa
Questa crisi è causata soprattutto dalle scelte di Berlino e dall’atteggiamento succube degli altri partner dell’Ue
Ecco perché il Vecchio Continente non potrà ripartire grazie alle acrobazie geopolitiche della Merkel, ma solo se verrà salvata Atene. Con il contributo di tutti
di Lucio Caracciolo
L’EUROPA tedesca è altrettanto realistica dell’acqua secca o del legno ferroso. Lo conferma la tragedia greca, di cui stiamo sperimentando solo le prime battute. Pur di preservare la sua stabilità la Germania ha esportato instabilità nel resto d’Europa, a cominciare dalla periferia mediterranea. Sotto il profilo economico e monetario, propugnando una ricetta unica — la propria — per contesti radicalmente diversi, sicché senza le pressioni americane e il pragmatismo di Mario Draghi l’eurozona sarebbe già saltata da tempo sotto i colpi dell’austerità. Sotto il profilo geopolitico, rifiutandosi di assumere ogni responsabilità nelle crisi del Mediterraneo e lasciando che lo scontro sull’Ucraina fosse appaltato ai baltici, per i quali la distruzione della Russia è obiettivo appetibile. E adesso lasciando andare Atene alla deriva.
Smottamento economico, sociale e geopolitico che infragilisce l’euro e completa la destabilizzazione delle nostre frontiere mediterranee dopo la disintegrazione della Jugoslavia (incentivata dalla coppia austro-tedesca) e della Libia (follia franco-britannica), per tacere del Levante in fiamme e del solipsismo turco.
Certo, il cuore tedesco del Vecchio Continente tiene. Ma al prezzo della liquidazione dell’idea stessa di Europa. Perché questo è il verdetto della crisi greca, qualunque sia il suo esito. Ci siamo scoperti tutti avvinghiati al presunto interesse particolare. Con la massima potenza economica continentale incapace di dirimere la più acuta crisi mai vissuta dalla scoppiatissima famiglia comunitaria. E nemmeno tanto desiderosa di farlo, nell’illusione che la Grexit sia faccenda greca, destinata a risolversi da sola incentivando l’autoesclusione di Atene dall’eurozona. Dopo di che la vita continuerà come prima, meglio di prima.
Ma poi, fino a quando Berlino potrà considerarsi immune dalle crisi che ha contribuito a suscitare, non fosse che per neghittosità? Molti in Germania ambiscono a trasformarsi in Grande Svizzera, con i ponti levatoi alzati. Fisicamente e mentalmente. Si sentono protetti dalle alte mura della propria invidiabile fortezza, che esporta deflazione e importa liquidità grazie alla potenza commerciale, surrogando gli stagnanti mercati europei con la Cina. Già la Svizzera non è più un’isola felice, figuriamoci se può diventarlo la Germania.
La galoppante deriva europea nasce da un equivoco. Caduto il Muro, francesi, italiani ed altri soci comunitari si convinsero che l’ora dell’Europa americana (e sovietica) fosse finita: toccava finalmente all’Europa europea. Per questo convincemmo i più che riluttanti tedeschi a scambiare il marco con l’euro e a diluire la Bundesbank nella Banca centrale europea, in cambio della nostra altrettanto insincera benedizione all’unificazione delle due Germanie.
Nel giro di pochi anni, la forza economica della Germania e la somma delle debolezze altrui finirono per germanizzare l’euro. Ma l’egemonia tedesca si è fermata alla politica economica e monetaria. Anche qui mostrando la corda delle sue fissazioni ordoliberiste. Nella tempesta scatenata sette anni fa dalle dissennatezze della finanza privata americana, Berlino ha reagito infliggendo ai partner lezioni di ortodossia rigoristica dal forte retrosapore ideologico. L’austerità come bene in sé, sempre e dovunque. Come scrive Hans Kundani, direttore delle ricerche all’European Council on Foreign Relations, nel suo The Paradox of German Power di prossima pubblicazione presso Mondadori, l’instabilità diffusa dalla Germania in Europa è figlia di «una nuova forma di nazionalismo tedesco, basato sulle esportazioni, sull’idea di ‘pace’ e sul rinnovato sentimento della ‘missione’ germanica». Testimoniato dalle acrobazie geopolitiche di Angela Merkel, che l’hanno vista talvolta allinearsi con Pechino, Mosca, Brasilia e Pretoria, oltre che dal montante antiamericanismo nella società tedesca. Con ciò mettendo in discussione la stessa appartenenza della Bundesrepublik a ciò che resta dell’Occidente.
Qui emergono anche le nostre responsabilità. Dalla paura della strapotenza tedesca che obnubilava François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio Andreotti, siamo scivolati verso una sterile corrività verso il presunto egemone. Sterile perché abbiamo pensato che ai tedeschi bastasse qualche scappellamento retorico per considerare le “cicale” mediterranee degne di appartenere all’Euronucleo — la moneta delle “formiche” evocata da Wolfgang Schaeuble nel 1994, cui l’attuale superministro delle Finanze non ha mai cessato di pensare. Insieme, restiamo sufficientemente corrivi da rinunciare a ridisegnare l’unione monetaria in nome di un’idea politica di Europa, così condannandoci alla marginalità nel farraginoso processo decisionale comunitario. Francia compresa, perché fin troppo consapevole della sua vulnerabilità sui mercati finanziari, nel momento in cui osasse smarcarsi dall’ombra lunga della Germania.
Sui funesti errori che hanno portato la Grecia nel burrone dal quale difficilmente potrà riemergere nei prossimi anni, inutile diffonderci. Troppi, troppo evidenti, troppo ripetuti. Purché questo non diventi un alibi per accomodarci alla deriva greca (e cipriota) verso lidi mediorientali o russo-ortodossi. L’impresa sarà improbabile, ma vale la pena tentarla. Aiutare Atene a non affogare, dismettere i panni del moralismo e della facile censura, per sporcarsi le mani con quel solidale pragmatismo che può almeno alleviare la vita quotidiana di un popolo alla disperazione. La risalita dell’Europa passa per la salvezza della Grecia. Con il contributo di tutti, italiani in testa, in quanto prima grande nazione europea esposta alla risacca ellenica. Non per peloso “umanitarismo”, come stizzosamente suggerito da qualche politico nordico. Per puro senso di responsabilità nazionale ed europea.
Corriere 7.7.15
Al bar con l’ex ministro e la moglie «Un’intesa ci sarà. E non lascio Atene»
di Lorenzo Salvia
ATENE La moglie Danae gli tiene la mano sulla spalla. Uno degli amici seduti al tavolo ha appena finito di raccontare una barzelletta. Risate, maniche di camicia, atmosfera decisamente cool.
Yanis Varoufakis si è dimesso da poche ore, il suo faccione è comparso anche stamattina sulle tv di mezzo mondo. Ed ora eccolo qui al «Twin Peaks all day bar», locale un po’ fighetto con comodo porticato all’ombra. Qui dietro c’è Piazza Syntagma, dove i greci hanno ballato tutta la notte per festeggiare un No con dedica speciale alla Germania. E la birra che Varoufakis ha in mano è proprio tedesca, una Warsteiner.
La vendetta va servita fredda, anzi gelata. Ma le guardie del corpo non hanno per niente voglia di scherzare: «E’ un momento privato, cerca di capire. Lui non rilascia dichiarazioni, tanto meno alla stampa straniera». «Yannis, perché ci hai abbandonato?», gli dice ad alta voce un amico che parla bene il greco. Lui si volta, sorride, fa un gesto con la manona per dire «venite qua». E si becca la prima occhiataccia della moglie, bella come nel servizio di Paris Match , quello nell’attico con vista Acropoli, ma con lo sguardo ancora più cattivo.
«Ah, giornalista — fa lui — nessuno è perfetto. Però dai, oramai sei qui». Dicono che adesso andrà a insegnare negli Stati Uniti, che guadagnerà un sacco di soldi e magari scriverà pure un altro libro. E’ per questo che si è dimesso? «E chi l’ha detto che me ne vado dalla Grecia? Sono un parlamentare di questo Paese e continuerò a fare qui il mio dovere».
Gli amici hanno smesso di scherzare, lo ascoltano in silenzio. La moglie è già arrivata alla seconda occhiataccia. Lui adesso alterna greco e inglese: « I am here to stay . Questa è la mia patria e chi dice che non ho avuto il coraggio di continuare è soltanto invidioso». Almeno un libro lo scriverà, però? «Ma no, io non sono uomo da libri».
Varoufakis aveva detto che si sarebbe dimesso in caso di vittoria del Sì. Perché ha lasciato se a stravincere è stato il No? «Non potevo fare diversamente. Mi dispiace, ma non c’erano più le condizioni per lavorare e credo che la mia sia una scelta responsabile».
Ieri mattina sul blog ha scritto che a chiedere la sua testa è stato l’Eurogruppo. Lui il passo indietro lo ha accettato, con amarezza, per rendere meno difficile la strada verso un accordo. Un sorso di birra, la terza occhiataccia della moglie che adesso fa anche un cenno alle guardie del corpo.
Ma lui riprende, sta cominciando a carburare. «Spero comunque che il governo trovi un’intesa con l’Europa. E sono convinto che andrà così». Sorride, e si sistema la camiciona blu con puntini bianchi che in effetti fa un po’ Checco Zalone. La sera prima in tv aveva una maglietta grigia, da uomo del popolo, come se avesse già deciso di lasciare.«Lo sapete, mi vesto sempre come mi pare».
Ma aveva già deciso di lasciare oppure no? «Ho deciso stamattina presto. Mi sono svegliato e ho sentito che non era più possibile andare avanti». Prima di arrivare qui, davanti al plotone di telecamere che ogni giorno lo aspetta sotto il ministero, Varoufakis si era augurato che il suo successore fosse Euclid Tsakalotos, capo negoziatore di Atene a Bruxelles. Nel frattempo è arrivata la conferma, il nuovo ministro sarà proprio lui: «E’ una persona molto preparata. Ma vi assicuro che non c’era alcun piano preordinato, come qualcuno sta facendo credere qui in Grecia. La scelta è stata mia».
Ormai le occhiatacce della moglie non si contano più. Adesso si avvicinano anche le guardie del corpo, ricordano che pochi mesi fa Varoufakis e signora hanno subito un’aggressione degli anarchici proprio mentre erano seduti all’aperto in un ristorante. Meglio non dare nell’occhio. I body guard avevano consigliato di andare a casa di amici. Ma è stato lui a insistere per venire qui, per sedersi all’aperto. Sembra la sua prima ora d’aria. «Invece di perdere tempo con me andate a fare un giro all’Acropoli» dice per dare il segnale del game over : «Nonostante tutto questo è un Paese meraviglioso».
La Stampa 7.7.15
Il narciso Varoufakis fallisce ma lascia la scena da eroe
Mal tollerato in Europa. I greci però gli hanno perdonato tutto
di Tonia Mastrobuoni
Alcuni suoi predecessori rischiano la lapidazione ogni volta che provano a mettere il naso fuori casa.
Lui lascia il suo incarico di ministro delle Finanze come un eroe. Getta la spugna dopo aver trascinato la Grecia in una convinta campagna per il «no», sconfessando la promessa di riprendere subito il negoziato con i creditori per raggiungere un’intesa a stretto giro. I greci gli hanno sempre perdonato tutto; nei giorni scorsi lo hanno continuato ad applaudire per strada. Domenica notte Yanis Varoufakis se n’è andato in maglietta, a cavalcioni della sua Yamaha, lasciandosi alle spalle le banche al collasso e le finanze pubbliche alla deriva, dopo cinque mesi in cui documenti interni del ministero attestano che il 60% delle sue firme sono finite sotto a permessi per le missioni all’estero dei dipendenti. Ma a ben vedere, il ministro della paralisi è stato condannato al fallimento anzitutto da chi lo ha scelto, Alexis Tsipras. Nella sua breve esistenza di scamiciato sex symbol - in Italia i soprannomi spaziavano dai Varouficos delle groupie a Fuffakis degli invidiosi - ha regalato molti titoli scandalistici, altrettanti provocatori, ma pochi fatti. Un libro, quello sì, da brava rockstar dei giornali.
Tensioni interne
Anche ieri, nel breve intervento sul suo blog che di buon mattino annunciava le dimissioni, sono evidenti le tracce di un conflitto che era scoppiato sin dal primo istante. Stretto nella morsa di una parte di Syriza e di un’ampia fetta dell’Eurogruppo che lo detesta senza freni, Varoufakis ha ammesso che è stato il premier a chiedere il suo passo indietro, per favorire la ripresa del negoziato in Europa. Calato a gennaio come un marziano in un partito lacerato da lotte di potere, scelto per il suo curriculum internazionale da «esterno», da tecnico, il primo sgambetto lo ha fatto a Yanis Dragasakis. Esponente dell’ala moderata di Syriza, studiava da anni per diventare ministro: come premio di consolazione, Tsipras gli ha dato il posto da vicepremier e, successivamente, da supervisore, quando Varoufakis è stato commissariato.
Il disagio di Bruxelles
La verità è che le umiliazioni e le occasioni per lasciare si sono sprecate, in questi mesi. Ma, da vero narciso, il ministro dal collo taurino che ama le camicie lucide e le moto non le ha mai capite o volute capire. I molteplici segnali di disagio provocati dall’economista cresciuto accademicamente tra il Regno Unito, l’Australia e il Texas, si ritrovano nella ricca aneddotica dei cinque mesi vissuti sul filo del rasoio. Nel primo faccia a faccia con Wolfgang Schaeuble, a Berlino, l’austero ministro delle Finanze scoppiò in una (rara) risata dopo cinque minuti. «A chi devo dare retta?», chiese un po’ sorpreso, dopo che Varoufakis era stato interrotto per la terza volta da un funzionario di Syriza che tentava di riportarlo sulla linea ufficiale del partito. Dopo la risata iniziale, il rapporto tra i due si è trasformato in un pianto. E man mano anche quello con gli altri omologhi. Il culmine si è raggiunto a maggio, all’Eurogruppo di Riga, quando le astratte prediche dell’economista, in risposta alla semplice domanda della Troika «avete due settimane di liquidità, cosa farete?», hanno fatto perdere le staffe a un dozzina di colleghi.
Il vero supplizio, la vera fatica di Sisifo, per il superministro, è stato proprio l’Eurogruppo, il consesso di tecnici che dovrebbe decidere il destino della Grecia attraverso gli aridi numeri.
Sconfessato da Tsipras
Pochi ricordano che Varoufakis fu sconfessato quasi subito dal suo premier dopo un Eurogruppo degli inizi, a febbraio. Si era raggiunta una prima, miracolosa intesa, il ministro uscì soddisfatto, i ministri tornarono a casa cautamente sollevati, quando Tsipras gli disse al telefono di respingere quei tre paragrafi. La leggenda narra che Schaeuble lo venne a sapere mentre una macchina lo stava accompagnando fuori dal garage. Una sconfessione, quella del premier greco, che avrebbe indotto qualcun altro a una riflessione sull’opportunità di restare - immaginate Merkel che chiama Schaeuble e gli dice di stracciare un accordo appena firmato - ma Varoufakis andò avanti sereno. Anche quando la sconfessione, qualche settimana dopo, si trasformò in sfiducia esplicita e il ministro fu affiancato da Dragasakis e da quello che è diventato ieri il suo successore, Efklìdis Tsakalòtos. Neanche la bufera scatenata dall’imbarazzante servizio fotografico con moglie e panoramica terrazza con vista sul Partenone gli ha fatto perdere il sorriso da simpatico buttafuori. Ora tutti si chiedono cosa farà, se il conferenziere a peso d’oro o il professore. Ma la vera domanda cui soltanto gli storici potranno mai rispondere è: in cinque mesi, Varoufakis fu Sisifo o la pietra?
La Stampa 7.7.15
Tsakalòtos, il comunista che sa accordarsi col nemico
Studi a Oxford, vuol restare nell'euro e cambiare regole
di Stefano Lepri
Il padre, dirigente di una società armatoriale, gli pagò un costoso liceo privato a Londra e poi lo mandò a Oxford.
Il famoso e potente cugino del nonno, uno dei capi dell’esercito monarchico nella guerra civile del 1946-49, temeva che quel ragazzo ribelle diventasse di sinistra. Lo diventò infatti, e non poco: si iscrisse alla gioventù comunista.
La formazione inglese
Efklìdis (ovvero Euclide) Tsakalòtos, 55 anni, moglie scozzese, parla il greco con un leggero accento inglese e l’inglese con l’accento della buona società britannica. Nelle riunioni Ecofin a Bruxelles si troverà accanto un altro ex allievo della St.Paul’s School, cinquecento anni di storia: l’attuale Cancelliere dello Scacchiere del Regno Unito George Osborne, famiglia nobile e conservatrice.
Le sue principali differenze dal predecessore Yanis Varoufakis sono che sa fare politica e che non ostenta. Porta le giacche di velluto stazzonate e i jeans tipici della sinistra, invece di esibire un suo stile personale. È in Sýriza dalla fondazione, membro del comitato centrale, eletto deputato già nella precedente legislatura. Quanto a idee, vuole restare nell’euro cambiandolo, a differenza dell’ala sinistra del partito non crede in una «via nazionale» fuori.
La visione del Paese
Come economista, è meno fantasioso ed «erratico», più ideologico di Varoufakis; negli studi si è dedicato a una critica serrata dell’economia neoclassica. Sostiene che la Grecia non è affatto eccezionale, diversa dagli altri Paesi europei, è anzi il banco di prova dove si ritrovano sia tutti i mali del neoliberismo sia i limiti delle soluzioni socialdemocratiche e keynesiane.
Il passato della Grecia con le sue discriminazioni anticomuniste, dice, ha contato nelle sue scelte, benché sia nato e abbia studiato fuori; lo ha spinto verso amici maggiori di qualche anno che avevano lottato contro la dittatura dei colonnelli (1967-1974). Non gli bastava che il generale suo parente, Thrasývoulos (Trasibulo) Tsakalotos, nei suoi ultimi anni facesse appello alla riconciliazione, stringesse la mano al rivale Markos Vafiàdis, capo dei guerriglieri comunisti, dichiarasse di votare per il Partito socialista. L’esperienza politica davvero formativa, però, sostiene di averla trovata nei movimenti no-global della fine degli Anni 90.
Corriere 7.7.15
L’economia del baratto
Vivere senza denaro. Ognuno prende quello che gli serve, e lascia quello che non gli serve più
di Aldo Cazzullo
Antonis Prapas, ex imprenditore, senzatetto, ieri ha fatto colazione, letto i giornali, è passato in farmacia, ha girato per Atene, fatto la spesa, pranzato, preso un libro per il nipote, bevuto il caffè, fatto un ecocardiogramma, visitato una mostra, cenato, e non ha speso un euro.
Il signor Prapas non ha contribuito al Pil, che infatti è crollato; ma ha sfangato, come milioni di altri greci senza soldi, una giornata che poteva essere di panico ed è stata di orgoglio forse irresponsabile, ma di dignità certo ammirevole. Vivere senza denaro. Non in periferia o in un villaggio; in un quartiere borghese, a 3 euro di taxi da piazza Syntagma. Il quartiere si chiama Virona, che è poi la traslitterazione di Byron, un grande europeo che amava la Grecia.
Il signor Prapas è tra i volontari del centro di scambio. Qui ognuno prende quello che gli serve, e lascia quello che non gli serve più. Un papà ha portato il seggiolino per auto del figlio, ormai cresciuto, e ha preso un puzzle. E’ possibile avere una maglietta in cambio di un cappotto, che ora non vuole nessuno ma tra sei mesi verrà utilissimo. Passano di mano ciabatte, giochi di società, bollitori, carta igienica, pelouches, scacchiere, quaderni, lenzuola e «Le avventure dei pirati della ciminiera» che Antonis regalerà al nipotino.
Nella stanza accanto la signora Galia Karakatsani sta pesando polvere bianca su una bilancia. E’ farina, e ognuna delle 650 famiglie che si servono qui ne ha diritto a un chilo, oltre a un litro di latte, mezzo litro d’olio, cento grammi di zucchero, e inoltre patate, cipolle, cetrioli, pasta, sugo di pomodoro e un’anguria. Sono frutto della solidarietà del quartiere e doni di aziende europee. Galia ha sposato un greco ma è ucraina, e dice che la Merkel dopo aver fronteggiato Putin non può lasciar passare Atene dal campo europeo a quello russo. Il signor Prapas è l’addetto all’approvvigionamento: nella vita precedente aveva sette ristoranti, cinque nella capitale, gli altri a Samo e Zacinto. Per tenerli aperti ha ipotecato la casa, le banche gli hanno preso tutto, e ora vive nel centro per senzatetto di Karea, sulla montagna di fronte.
I suoi vicini di stanza sono bengalesi. Il papà raccoglieva le fragole in Peloponneso, ma ora qui nessuno mangia più fragole, e lui ha perso il lavoro. La mamma è in ospedale per un’infezione post parto. La bambina, Nadia, è meravigliosamente bella, anche quando piange. Ha una sorella e un fratello, che stanno disegnando. I posti sono 80: quando qualcuno trova una casa da dividere con altri, entrano nuovi ospiti. Ci sono tre lavandini, tre docce, tre water, tre lavatrici e tre frigo: ognuno ha scritto il proprio nome sulla borsa di plastica, così può tenere frutta e verdura in fresco. La colazione è offerta: marmellata di fragole e biscotti. Lo Stato passa pure il pranzo, ma il signor Prapas dice che si mangia meglio alla mensa di via Sofocle. Tanto i bus e la metro sono gratis.
Oggi fanno pollo con patate, e la coda è più lunga del solito: in giardino c’è posto per 600. Accanto hanno aperto il supermercato sociale, dove si fa la spesa a credito; talvolta a fine giornata passa una misteriosa signora vestita di nero e paga tutti i conti in sospeso; dicono sia la moglie di un miliardario. Il centro città mostra ancora le tracce della notte di festa. Ragazze fiere passano inalberando la bandiera greca. Passa un burlone innalzando un gigantesco cetriolo, il cui significato non sfugge. Molte caricature di Schäuble, odiatissimo. Un gruppo canta l’inno nazionale. Un altro ascolta la radio: Tspiras ha interrotto la riunione con i leader dei partiti per telefonare a Putin e alla Merkel; si vedrà chi è disposto ad aiutare la Grecia. La situazione è più grave di prima, ma l’umore va meglio; come se l’orgoglio avesse colmato il vuoto aperto dalla disperazione. Solite code ai bancomat, per chi ancora qualche soldo ce l’ha. Antonis si ferma a leggere i giornali appesi all’edicola, a un rispettoso passo di distanza. Non li compra perché non può, e perché quasi tutti si sono schierati per il Sì, tranne Avgi (Alba) e Efimerida ton Sintakton , Il giornale dei redattori, cooperativa risorta dalle ceneri di una testata chiusa. Le sigarette di contrabbando costano poco, ma Antonis non fuma.
A Exarchia, il quartiere degli anarchici, stanno dipingendo nuovi murales. Alcuni sono segnati dall’ideologia, altri sono bellissimi, come i Bambini sognanti. E’ un’esposizione di arte contemporanea a cielo aperto. Il signor Prapas indica il volto di Alexis Grigoropoulos, un ragazzino di 15 anni ucciso qui dalla polizia, che da allora non si fa vedere. In venti hanno cacciato pure Varoufakis dal suo ristorante preferito, Yandes, accusandolo di essersi venduto al potere. Un altro murale commemora Lukakinos, Salciccia, il cane soffocato dai lacrimogeni. La sede nazionale del Pasok, il partito socialista passato dal 46 al 4,6%, ha le vetrate rotte. Spiega il portiere che hanno smesso di sostituirle perché tanto le rompevano di nuovo. Serrande tutte abbassate: nessuno spende, nessuno incassa.
Nel pomeriggio Antonis ha una visita medica. L’ex base americana di Elliniko è diventata una clinica sociale, dove visitano gratis specialisti di neurologia, ortopedia, urologia, pneumologia, psichiatria. L’ha fondata Yorgos Vichas, primario di cardiologia all’ospedale San Demetrio, che con cento colleghi viene qui ogni giorno a fine turno. I tre ecografi sono dono dei tedeschi, il latte in polvere degli italiani: il dottor Vichas ha imparato la nostra lingua perché, spiega, ha mantenuto la musicalità del greco antico, che il greco moderno non ha più. Quando la visita rivela qualcosa di brutto, c’è da litigare per trovare un posto in sala operatoria: Yorgos ha cominciato a mettere on line il nome dei funzionari che rifiutano il ricovero. Tre milioni di greci sono senza copertura sanitaria, molti hanno debiti con gli ospedali e siccome se ne vergognano qualcuno si è lasciato morire.
L’ecocardiogramma è andato bene, ma Antonis ha bisogno di una medicina per il cuore, il Ranexa. La può trovare nella farmacia sociale del suo quartiere, una delle 12 ad Atene che passano farmaci a disoccupati e pensionati. Alcune scatole sono già aperte, ma nessuna è scaduta. Il luogo non è triste, anche perché i pittori della zona hanno regalato i loro quadri. Il fondatore è un ex marinaio, Dimitris Souliotis, marconista che in gioventù navigò sino a Vladivostok, a Calcutta, a Seattle e pure a Piombino. Ora procura antibiotici e litiga pure lui con gli ospedali: l’altro giorno una donna albanese si è sentita chiedere 1.500 per partorire; a un’altra non volevano dare il neonato finché non pagava. Alla radio il segretario della Nato Rasmussen definisce la Grecia un anello fondamentale dell’Alleanza atlantica; l’interpretazione è che gli euro stanno per arrivare.
Agli accorgimenti della società low cost, come i baratti via web, si aggiungono i comportamenti dettati dall’emergenza. Ristoranti che ieri accettavano la carta di credito oggi la rifiutano: sono soldi che finiscono in banca, e le banche restano chiuse; o contanti o niente. I quartieri più poveri verso il mare, come Perama, hanno rinunciato alla luce elettrica, e la notte diventano macchie buie tra le luci degli yacht e dei cargo cinesi.
I tagli si sono rivelati, come e più che altrove, il moltiplicatore della crisi: ci si è illusi di salvare il bilancio familiare, aziendale, pubblico; invece si è ridotta la massa monetaria circolante sino a zero. Incassa solo chi lavora con gli stranieri, e subito porta tutto all’estero. La crisi condanna intere categorie alla povertà: nessuno si fa più fare un vestito o una libreria su misura, nessuno va al cinema o in vacanza, nessuno prende lezioni di inglese o di ballo; o magari fa tutto questo, ma non a pagamento.
Nel giardino di Virona c’era un caffè di proprietà del Comune, che l’ha chiuso. L’hanno riaperto i ragazzi del quartiere. Acqua e caffè sono gratis. Ogni pomeriggio vengono professori universitari a tenere un corso: oggi si parla di astrofisica. Si organizzano concerti, corsi di tai-chi, spettacoli teatrali e cicli di cinema muto; ma presto anche qui ci sarà una rivolta, e si passerà a Giovannona coscialunga e all’Esorciccio. Due sere alla settimana si cena gratis. Il signor Prapas è soddisfatto perché è di turno il cuoco egiziano, il migliore. In cuore gli ateniesi portano una tristezza infinita, e anche risentimento; ma hanno sofferto troppo per dare agli stranieri la soddisfazione di farsi vedere in preda al panico.
Corriere 7.7.15
Il grande errore dell’europeismo:sottovalutare gli Stati nazionali
una unione mediocre risveglia le nazioni
di Ernesto Galli della Loggia
Per l’europeismo ufficiale — quello che da anni domina la retorica politico- burocratico-giornalistica — la sconfitta del voto greco non potrebbe essere più bruciante. Convinto in virtù dei suoi chilometrici trattati e delle sue brillanti politiche di poterla fare finita una volta per tutte con i nazionalismi europei, esso assiste oggi alla più violenta esplosione di sentimenti nazional / nazionalistici che il Continente abbia conosciuto dal 1945 in poi. Un’esplosione conseguenza diretta di quei trattati e di quelle politiche, e che quasi sempre, ahimé, si trascina dietro demagogie isolazionistiche, pulsioni xenofobe, fremiti di vario autoritarismo. Un bel risultato, non c’è che dire.Un risultato non casuale. Esso infatti è la conseguenza del duplice fraintendimento che ha accompagnato tutta la vita della costruzione europea, e che costituisce il motivo conduttore di quel Manifesto di Ventotene che l’Unione continua inspiegabilmente a considerare come una sua pietra di fondazione. Il duplice fraintendimento è consistito e consiste: a) nel considerare ormai esaurita ogni funzione storica positiva dello Stato nazionale, e b) nel credere dunque che la semplice esistenza del suddetto Stato sia destinata a produrre inevitabilmente la patologia del nazionalismo. Partendo da questo erroneo giudizio, l’Europa non è mai riuscita a ragionare intorno a un dato decisivo: e cioè che nella concreta esperienza del continente lo Stato nazionale che essa intendeva «superare» era tuttavia, né più né meno, che il contenitore storico della sovranità popolare e della democrazia rappresentativa. E che dunque ogni colpo portato alla sua esistenza, ai suoi poteri, alla sua sovranità, ogni ampliamento dell’ambito di competenze comunitarie (figuriamoci poi nel caso della moneta!), rischiava di suscitare prima o poi una reazione tra i cittadini europei, per l’appunto in nome del sentimento democratico. Come infatti è puntualmente avvenuto e sta avvenendo dappertutto; come sempre più sicuramente avverrà. Questo è il segnale che giunge da Atene. Al limite l’oggetto del voto (l’austerità richiesta da Bruxelles) è un dato secondario. Ciò che conta è il carattere dirompente della contrapposizione: da una parte degli organi burocratici, dei conciliaboli riservati di ministri e primi ministri (senza pubblicità di dibattiti, senza composizioni formali: perché oggi, ad esempio, un incontro Hollande-Merkel da soli? Chi l’ha deciso?) e dall’altra la volontà popolare e la sua sovranità.
A questo siamo arrivati per colpa della pochezza delle classi dirigenti politiche europee che da vent’anni gestiscono l’Unione. Una pochezza che tra l’altro — almeno nel caso dei politici italiani — subito, appena questi siedono in qualche consesso europeo, si ammanta di una supponenza sussiegosa che poi dispiegano anche quando discettano di Europa una volta tornati a casa. E così, pur essendo essi, e solo essi, gli autori di trattati ritenuti in seguito unanimemente sbagliati, di politiche che hanno mancato l’obiettivo, di mostruosi progetti di costituzione mai andati in porto, sono qui ancora oggi che mentre tutto va in pezzi, invece di osservare almeno un cauto silenzio, si ergono a critici pensosi e sapienti dei loro stessi sbagli e delle loro stesse opinioni di ieri. L’Europa ha perso paurosamente di credibilità agli occhi dei suoi cittadini anche per questa diffusa irresponsabilità politica, contraria a ogni regola democratica: chi sbaglia non paga mai, e anzi continua a farla da maestro.
Ma è una pochezza che a ben vedere ha riguardato e riguarda, prima che gli uomini, entrambe le culture politiche finora egemoni nell’Europa occidentale del dopoguerra e quindi anche a Bruxelles: quella cristiano-democratica e quella socialdemocratica (nella quale sono poi confluiti gli ex comunisti). Nell’ambito europeo, sottratte a ogni vera competizione e avvolte nella morbida atmosfera del compromesso continuo, esse hanno trovato la sede elettiva per acquisire, insieme a una loro compiaciuta e definitiva ufficialità una completa spoliticizzazione. È come se frequentando l’Ue cristiano-democratici e socialdemocratici avessero smarrito ogni senso vivo della storia europea e della drammaticità dei suoi nodi peculiari (lo Stato nazionale, i vincoli di consenso posti dalla democrazia, ma anche il problema del confine orientale, il rapporto con la sponda sud del Mediterraneo, eccetera). Ogni senso vivo della storia innanzitutto politica dell’Europa. E del loro rapporto con essa.
Adagiatesi nel conformismo comunitario dell’ortodossia economico-sociale, le due principali culture politiche del Continente appaiono da anni incapaci di pensare nient’altro che la routine, di avere uno scatto d’immaginazione, un sussulto d’indignazione, di abbandonare le strade rivelatesi sbagliate: in fin dei conti di ricordarsi le ragioni per cui sono nate e degli elettorati che esse rappresentano.
Di fronte al precipitare della crisi greca, e poi al voto di domenica, è stato impressionante lo spettacolo offerto in particolare dalla sinistra europea: ascoltare le incertezze di Hollande e di Renzi, vedere la socialdemocrazia tedesca immediatamente pronta a proclamare la propria fedeltà alla cancelliera Merkel. Ma intendiamoci, un maggiore bagaglio di idee e di visione non hanno certo mostrato i loro avversari interni. Per restare in Italia, i vari Fassina, Vendola, D’Attorre, che cosa hanno saputo proporre se non vuoti slogan a base di «Una politica di sviluppo», «No all’Europa delle banche», «Sì a un’Europa democratica»? Già: ma come? Con quali regole? Con quali istituzioni? Nessuno lo sa.
Corriere 7.7.15
Il timore che il populismo approfitti della crisi greca
di Massimo Franco
L’europopulismo adesso ha un campione, una vittoria da sventolare davanti all’opinione pubblica, e un patrimonio di consensi antisistema da offrire agli imitatori continentali. Ma per l’Italia sono presagi di un futuro precario. Non solo per la spinta indiretta che movimenti come quello di Beppe Grillo e la Lega di Matteo Salvini possono ricavare dal «trionfo» di Alexei Tsipras. Il rischio, palpabile, è che la Grecia del «No» nel referendum sia l’avanguardia di un’Europa meridionale in bilico: tanto da risucchiare il nostro Paese verso il fondo della classifica; e che quanto accade sottolinei la leggerezza geopolitica italiana.
L’emergenza potrebbe acuire le diffidenze e l’arroganza delle nazioni nordeuropee verso quelle mediterranee: una guerra culturale giocata sul piano delle regole finanziarie. In questo conflitto l’Italia, con il suo debito pubblico troppo alto, può diventare il prossimo obiettivo. Anche perché sul piano interno cresce il timore che si appesantisca l’ipoteca populista su un governo costretto a ridimensionare i suoi obiettivi di crescita. Il lungo incontro di ieri tra Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è stato nel segno di un giusto allarme. La crisi di Atene non è destinata a favorire Matteo Renzi.
L’asse con la cancelliera Angela Merkel è stato inevitabile e pragmatico. E l’euforia greca per il «no» ai vincoli di Bruxelles sa di liberazione ma anche di disperata emotività. Però, colpisce la scarsa rilevanza dell’Italia nel contesto dell’Ue. L’idea che Renzi possa essere un mediatore tra Grecia e Ue sa di illusione. Il vertice a due Merkel-Francois Hollande di ieri a Parigi conferma la volontà, per quanto irritante o miope, che le strategie si decidano tra quei due Paesi. Palazzo Chigi ha ricordato che qualche giorno fa, in realtà, dalla Merkel c’era Renzi: precisazione corretta.
Ma la sensazione è che Roma partecipi alle trattative da comprimaria. Forse sarebbe bene ricalibrare la presenza in Europa con una presa d’atto che il rilievo del governo di Roma è cambiato. Renzi ieri ha assicurato che «l’Italia farà la sua parte per ricostruire l’Ue». Ma per la piega drammatica che hanno preso le cose, non è chiaro quale sarà «la sua parte»; se riuscirà a imporla o se finirà per esserle assegnata da altri. L’altra incognita è quanto l’offensiva del M5S e della Lega influirà sulle prossime mosse di Palazzo Chigi.
L’atteggiamento della filiera antigovernativa è di chi ritiene di avere vinto una battaglia. E ora asseconda il vento antisistema, convinta che soffi comunque a suo favore. Renzi ribadisce che se non cambia, l’Europa è finita. Il tentativo è di recuperare una posizione mediana tra i rigoristi guidati dalla Germania, e l’antieuropeismo delle forze populiste. Si tratta di una «terza via» ragionevole ma nebulosa. Sembra di trovarne un’eco nella posizione vaticana, critica verso «i palazzi di Bruxelles. L’Europa delle élites, dei non eletti, dei club riservati...». Parole testuali dell’ Osservatore romano , organo della Santa Sede.
Corriere 7.7.15
Duri, puri e di successo Il miracolo di Angela: resuscitare i «compagni»
di Pierluigi Battista
Il ciclone Tsipras ha anche dissolto il comodo schema delle due sinistre che ha occupato la scena per decenni. Un fattore K rovesciato, con la sinistra massimalista, radicale, estremista, «comunista» che aveva il monopolio della purezza e, insieme e indissolubilmente, della sconfitta. E la sinistra riformista, moderata, attenta alle «compatibilità di sistema» che accettava un po’ di compromessi con se stessa ma alla fine conquistava l’elettorato e poi il governo. Il referendum scompiglia le categorie. Massimo D’Alema, un tempo bersaglio della sinistra dura e pura solo per aver vagheggiato l’idea di incarnare il Blair italiano, oggi spopola in un video in cui difende la Grecia vessata dall’avidità delle banche e dalla miopia del governo Merkel sostenuto anche dai socialdemocratici tedeschi. Vince il compagno Tsipras nei simboli, nelle urne, e nell’immaginario. Perfino Renato Brunetta applaude i comunisti greci. Qualcosa è cambiato davvero.
I socialisti spagnoli arrancano a fatica, con il rischio di essere spodestati dall’estremismo anti euro di Podemos. Il socialismo spagnolo ha una sua storia gloriosa. La sinistra era il Psoe, nell’era post franchista in cui i comunisti di Santiago Carrillo vennero praticamente spazzati via nella democrazia finalmente tornata a Madrid dopo decenni di dittatura. Oggi il terremoto dell’euro, accompagnato dal trionfo referendario di Tsipras, rischia di mettere i socialisti riformisti spagnoli, malgrado la ripresa e la crescita della Spagna, in un angolo. Un po’ diverso il caso francese, dove il socialismo di Hollande e di Valls rischia di essere spazzato via non dalla sua sinistra estrema, ma dalla tenaglia del populismo di Marine Le Pen e della nuova aggressività tutt’altro che eurodogmatica della destra su Sarkozy.
In Italia non sono certo i seguaci di Tsipras a convogliare gli umori che potrebbero mettere in crisi il modello del democratico Renzi, che ha fatto entrare il Pd nella famiglia oggi in crisi dei socialisti europei. C’è Beppe Grillo, che però ha drenato un’area di protesta non lontano dagli umori della sinistra radicale, anche se ideologicamente molto dissimile dai modelli della sinistra classica, anche di matrice «comunista». Ma il Grillo che sventola la bandiera greca all’ombra del Partenone può esercitare un richiamo fortissimo per un elettorato di sinistra che il referendum di Atene sospinge all’indietro. Duri e puri, e anche vincenti. Questa è la grande, sconvolgente novità.
I socialdemocratici tedeschi, che stanno in condominio governativo con la Merkel, come prenderanno questa secessione nella sinistra europea di cui la stella Tsipras è solo la manifestazione più clamorosa? L’Europa di sinistra è in subbuglio. Il richiamo del passato, il «comunismo», si salda con un fortissimo appeal presso i giovani che sentono l’euro come una prigione, la Merkel come una tiranna, e non conoscono l’incubo storico dell’Europa tragica e cruenta finalmente pacificata. Non sanno quanto sia costata la pace in Europa. E ad oltre 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino non immaginano neanche il significato simbolico di una Grecia che, ripudiata dall’Europa liberaldemocratica e ancorata ai valori dell’Occidente, si avvicina alla Russia di Putin: Russia post sovietica, ma sempre autoritaria, imperialista, illiberale.
È la rivincita del massimalismo, prima condannato nel recinto minoritario e oggi in grado di trascinare nel suo linguaggio persino un esponente del realismo politico come Massimo D’Alema. Il panorama politico europeo esce sconvolto dal referendum greco, non è solo una questione di moneta e di finanza. L’eurosinistra smentisce decenni di stereotipi e di certezze. Blair non c’è più e Tsipras è il nuovo modello vincente. L’Italia e la Spagna, la Francia e la Germania quale sinistra avranno nei prossimi anni, anche per competere con una destra aggressiva come quella di Le Pen e Salvini? C’è chi scommette con Tsipras nel ribaltamento degli schemi della sinistra europea. E non è detto che la scommessa debba essere pagata in euro.
Corriere 7.7.15
Gotor critica i socialdemocratici tedeschi: un errore allinearsi
ROMA (d. g.) «Allineandosi alla Merkel i partiti socialisti europei non hanno svolto il ruolo che sarebbe loro spettato. Ma l’esito del referendum greco ha sancito due cose: il No a un’Europa a esclusiva trazione tedesca e lo stop all’austerità». E quando parla di socialisti, Miguel Gotor (minoranza pd) intende proprio tutti, dai socialdemocratici tedeschi al Pd. «Il nostro semestre di presidenza europea è stato un’occasione sprecata, siamo partiti dal mito di Telemaco e siamo finiti a pranzo con i Proci a contrattare uno sconticino di flessibilità sul deficit…»
Perciò per «i progressisti» è tempo di cambiare strada, confrontarsi con la cancelliera, «che ora è in difficoltà», e rilanciare il progetto europeo su basi diverse: «Serve un’Europa federale, non più confederale, e se necessario a due velocità; poi occorre affrontare il tema della ristrutturazione del debito pubblico. L’austerità va contrastata perché ha prodotto più debito pubblico, più disoccupazione e più consenso agli antieuropeisti». Conclude Gotor: «C’era tra i socialisti chi annunciava che in Grecia i cittadini sarebbero stati più saggi del loro governo. Adesso che il popolo greco ha parlato, i socialisti siano vicini alle forze popolari, come è doveroso che sia».
Repubblica 7.7.15
D’Attore, minoranza dem
“In piazza coi greci per dire al mio Pd basta con la Merkel”
intervista di Concetto Vecchio
ROMA . «Quando il Parlamento greco ha approvato la proposta di celebrare il referendum in me è scattata una molla emotiva: lunedì d’istinto ho prenotato il biglietto aereo per Atene». Alfredo D’Attorre, il democratico meno renziano di tutti, ha scommesso sin da subito sul successo del No. Sabato sera si è imbarcato con Fassina. E’ stato l’unico fra i 419 parlamentari del Pd a ritrovarsi in piazza Syntagma a intonare “Bella ciao”.
D’Attorre, il senatore Marcucci aveva ironizzato sui comici voli charter a sostegno di Tsipras. Sente di essersi preso una rivincita?
«Mah, di battute sarcastiche ne ho sentite tante, Renzi addirittura ha sostenuto che fosse una consultazione per tornare alla dracma. Denotano un’impreparazione molto profonda della partita in corso».
Cosa le resterà di questi due giorni ad Atene?
«La dignità composta dei greci, i volti di intere famiglie, e poi il coraggio di Tsipras, capace di mettere in gioco la propria permanenza al potere pur di non tradire il mandato popolare ricevuto».
Cosa pensa di Renzi, che ora invoca “politica, non solo parametri”?
«La Merkel difende il suo Paese,il proprio elettorato, Renzi non si capisce cosa difenda. Porta avanti una linea miope, contraria agli interessi dell’Italia».
Perché mai schierarsi per il Sì sarebbe una linea antinazionale?
«Renzi doveva porsi dalla parte del cambiamento, e invece ancora una volta, dopo Jobs Act e scuola, ha collocato il Pd dalla parte sbagliata. Spero che smentisca Serracchiani, secondo la quale i soldi per il referendum sono buttati via. Una posizione imbarazzante per la concezione della democrazia che esprime».
Lo schieramento pro Grecia va da Vendola a Grillo, da Salvini a Meloni. Dove sono le ragioni della sinistra?
«Non sono andato ad Atene per costruire un’altra maggioranza di governo, ma per affermare l’idea che c’è un Pd non d’accordo su questo appiattimento totale sulla Merkel».
Perché non lascia il Pd?
«Finché vedo uno spiraglio rimango per battermi contro lo snaturamento definitivo del Pd».
La Stampa 7.7.15
Stefano Fassina
“Ora l’Europa riveda le sue ricette fallite”
intervista di P. Bar.
1. «Dopo il no al referendum greco finalmente l’Europa dovrebbe farsi carico del problema sistemico che abbiamo nell’Eurozona. La Grecia aveva problemi seri sia prima di entrare nell’euro sia prima della crisi del 2008-2009 e la cura che è stata somministrata al Paese, che è poi la cura che viene somministrata a tutti, non fa altro che aggravare la malattia. La ricetta mercantilista fondata sulla svalutazione del lavoro, alternativa alla svalutazione della moneta, porta solo alla deflazione, alla insostenibilità dei debiti pubblici e al naufragio dell’Eurozona. Questo ora dovrebbe essere il tema sul tavolo, che poi dovrebbe trovare una applicazione specifica al caso greco. Che vuol dire innanzitutto riconoscere che il loro debito pubblico è insostenibile».
2. «Ricordo che è dal 26 gennaio, ovvero dal giorno dopo che Tsipras si è insediato, che il governo greco segnala che il debito è insostenibile. Una questione che è stata negata sino a due giorni prima il referendum, quando su pressione degli Usa il Fondo monetario ha pubblicato il suo rapporto. Se si fosse fatta prima l’operazione verità, invece di tentare di imporre un memorandum insostenibile, probabilmente avremmo già risolto tutto».
3. «Si. È più forte perché si dimostra che la posizione della Grecia non è quella di un governo capriccioso ed irresponsabile come è stato descritto da più parti, ma dell’intero popolo greco. Ed è più forte perché il voto di domenica non è il voto di chi non vuole bere l’“amaro calice”, ma è un voto di chi la catastrofe l’ha già subita a causa dei primi due memorandum che sono stati loro imposti. Cosa che, tra l’altro, ha reso nulle tutte le previsioni di una nuova catastrofe in caso di vittoria dei no».
4. «Certamente no. Bastava vedere la gente che l’altra sera stava in piazza: nonostante la netta affermazione del no c’era un clima molto sobrio. Sono tutti consapevoli del fatto che non basta questo voto a risolvere i loro problemi. Il punto, però, che non si è ancora compreso è legato al contenuto dell’ultimo memorandum. Per capirci meglio: se lo rapportiamo al nostro Pil è come se a noi avessero chiesto di effettuare una manovra da 70 miliardi in 12 mesi e di tagliarne 9 alle pensioni in 6 mesi. Roba da far sprofondare ancora di più il Paese. Era oggettivamente insostenibile: l’unico obiettivo era quello di affondare Tsipras».
5. «Spero che il governo tedesco non sia così irresponsabile da arrivare a tanto, e che i governi italiano e francese smettano di essere così subalterni. E da parlamentare italiano vorrei che il nostro governo si impegnasse di più per sostenere l’interesse dell’Italia che in questa fase vuol dire dare una soluzione sostenibile alla Grecia».
6. «Continuare come ha fatto in questi mesi ed ignorare i dati di realtà: il mercantilismo fondato sulla svalutazione del lavoro è insostenibile. Non possiamo crescere solo attraverso le esportazioni».
7. «Deve evitare di invogliare soluzioni di aggravamento dell’economia: arretrare significherebbe solamente compromettere ulteriormente le condizioni della Grecia».
Repubblica 7.7.15
Se il premier trova una strada tra Tsipras e la Merkel
Le conseguenze del “no” greco interessano da vicino l’Italia e la collocano al centro del vortice
di Stefano Folli
È SEMPRE più evidente che le conseguenze del “no” greco interessano da vicino l’Italia e la collocano al centro del vortice. Non solo per le ragioni messe in luce ieri dalle borse (-4 per cento l’indice italiano contro il -1,2 del Dax tedesco) o per la legge inesorabile dello spread (162 punti, quasi il 9 per cento perso in un giorno rispetto al “Bund” decennale). Questi dati finanziari, tali da segnalare una relativa fragilità del Paese, erano prevedibili e comunque il governo di Roma fida giustamente nella rete protettiva della Bce. La questione è che la crisi apre una serie di incognite che toccano la politica economica, l’assetto istituzionale dell’Unione di domani, la credibilità delle riforme. E poi si allargano ad aspetti geostrategici che rischiano di accrescere la rilevanza dell’area mediterranea. L’ipotesi - segnalata anche da Romano Prodi - di una Grecia che viene “stabilizzata” dalla Russia o dalla Cina, o da entrambe queste potenze extra- europee, introduce una variabile che nessuno può sottovalutare. L’Italia meno di altri perché l’epicentro della crisi è proprio nel Mediterraneo. Una Grecia sconvolta dal collasso finanziario, e affiancata nel ruolo di salvatori da Mosca o da Pechino, introduce in uno scenario inedito che coinvolge l’intera Europa, certo, ma anche gli Stati Uniti, dato che Atene è tuttora membro della Nato.
Le coste italiane distano poche decine di miglia da quelle greche ed è chiaro che un inasprirsi della crisi restituisce alla nostra penisola una centralità geopolitica che negli ultimi anni si era perduta. A quel punto anche il problema dei migranti, su cui l’Europa ha dato ben poco ascolto alle richieste di Roma, acquisterebbe altro e più stringente significato. Ne deriva che il ruolo italiano, tuttora poco definito, merita di essere messo a fuoco con attenzione. La “terza via” di Roma come espediente mediatico ha poco senso. Ma una riflessione ad ampio raggio in grado di abbracciare tutti i risvolti di un problema che non è più solo economico-finanziario, bensì politico-strategico, sarebbe un passo importante sia per il governo sia per le forze parlamentari che volessero prestare attenzione. Dalla Grecia al Mediterraneo. Dall’Europa dei parametri a un’Europa consapevole che gli equilibri internazionali si decidono oggi a Sud non meno che nell’Est ucraino.
Tsipras si è coperto le spalle in Grecia e ha chiesto ai partiti d’opposizione, dai socialisti ai conservatori, di sostenerlo nel nuovo negoziato con l’Europa. Forse al presidente del Consiglio Renzi tornerebbe utile avviare quanto prima un dibattito parlamentare sugli scenari aperti dalla crisi greca. Un dibattito da cui potrebbe scaturire un documento in grado di raccogliere, almeno in parte, il sostegno di un arco di forze più largo dei partiti che votano la fiducia al governo. Sarebbe un modo per dimostrare senso di responsabilità - raccogliendo l’invito del presidente della Repubblica- e avrebbe l’effetto di isolare le posizioni del dissenso più radicale, quel fronte del “no” rientrato da Atene convinto di voler fare “come in Grecia”. E infatti i Cinque Stelle ripropongono il tema del referendum sull’euro, pur sapendo che la Costituzione vieta questo genere di consultazioni in materia di trattati internazionali.
VEDREMO cosa deciderà Renzi. Per ora il premier rilancia la sua visione di un’Europa meno egoista, più dialogante e solidale. Non è una novità, anche se oggi il proposito di Palazzo Chigi consiste nel favorire un massiccio piano di sostegni ad Atene convogliando tutti gli aiuti europei che è possibile individuare senza ricorrere a interventi straordinari. Ma è difficile che l’Italia possa inserirsi con un ruolo di protagonista nell’odissea greca. Allo stato delle cose Angela Merkel non ha bisogno di mediatori per discutere con Tsipras. Può darsi tuttavia che fra qualche settimana abbia bisogno anche dell’Italia per affrontare, si spera, il complesso tema di come ridisegnare l’Europa e le sue priorità.
La Stampa 7.7.15
Il referendum di Grillo e quello di Renzi
di Marcello Sorgi
Annoverato forse un po’ troppo frettolosamente nel fronte degli sconfitti dal «No» greco, Matteo Renzi ha trascorso la giornata di ieri, come tutti i leader europei, a valutare le prime conseguenze del risultato del referendum. Le dimissioni del ministro delle finanze di Atene Varoufakis e la decisione di Merkel e Hollande di riservare a Tsipras la prima mossa lo hanno convinto che, sì, un tentativo di mediazione è in corso, per scongiurare il pericolo ancora concreto di una «Grexit» dal sistema dell’euro, ma certamente il trionfo del «No» nelle urne non agevolerà molto la trattativa.
A dire la verità, Renzi, all’incontro bilaterale della scorsa settimana con la Cancelliera, era arrivato sperando di trovare uno spunto di negoziazione in ambito europeo per depotenziare il referendum. Ma a chi gli aveva parlato al ritorno, dopo le sue dichiarazioni perfettamente coincidenti con quelle della Merkel, il premier aveva spiegato che non aveva trovato nemmeno un centimetro di spazio di manovra, e solo dopo i risultati del voto se ne sarebbe potuto riparlare. Così, al di là delle esortazioni (e in questo senso, già domenica, è sceso in campo autorevolmente il Presidente Mattarella), fino a che non saranno chiare le intenzioni del governo greco, la Germania non si sposta. L’accenno alla «responsabilità», fatto ieri sera da Hollande e rivolto direttamente a Tsipras, è chiarissimo.
Renzi, dopo un incontro con il ministro dell’Economia Padoan, ha rassicurato sul fatto che l’Italia non è a rischio contagio. E ha valutato con i capigruppo Pd al Senato e alla Camera Zanda e Rosato l’andamento dei lavori parlamentari nel mese a venire. L’intenzione resta quella di portare al voto sia la riforma del Senato (su cui la maggioranza resta ballerina e con la minoranza Pd non è ancora maturata un’intesa), sia quella della Rai. Per evitare di mescolarle con l’offensiva che le opposizioni preparano per l’autunno sulle scadenze economiche e sulla legge di stabilità. Una manovra da almeno venti miliardi, come quella che si prepara, può diventare l’occasione per gli avversari del governo di rilanciare la battaglia contro l’Europa del rigore. E l’accoglienza benevola, fatta da quasi tutte le opposizioni, alla proposta di Grillo di un referendum «alla greca» sull’euro conferma i timori di un autunno caldo dentro e fuori le aule parlamentari. Resta il fatto che un referendum come quello proposto dal leader 5 stelle in Italia non è previsto dalla Costituzione. Mentre Renzi punta a fare quello sulla riforma costituzionale in accoppiata con le amministrative del 2016.
Corriere 7.7.15
Senato, rebus numeri: si slitta a settembre
Il capo del governo è pronto a mediare con le minoranze
Il capogruppo Rosato: ma senza diritti di veto
Oggi il via in commissione, con la maggioranza in difficoltà
di Monica Guerzoni
ROMA Pur di portare a casa la riforma del Senato il premier è pronto a convocare un tavolo con le minoranze, «gufi» compresi, per cercare la sintesi e chiudere un accordo solido. Ma senza fretta e senza «diritti di veto» spiega Ettore Rosato, che era al vertice con Renzi, Boschi e Zanda.
Oggi la riforma della Costituzione comincia il suo viaggio in commissione, ma c’è il rischio che si impantani subito. Non tanto per il pressing dei dissidenti del Pd, che vogliono introdurre l’elettività dei senatori. E nemmeno perché la macchina di Palazzo Madama, dietro le quinte, oppone resistenza allo smantellamento del vecchio Senato. Il vero rompicapo per il governo sono i numeri. In Aula la maggioranza balla sul filo di otto, nove senatori. E la situazione è ancora più a rischio in commissione, dove la maggioranza potrebbe andare sotto già sul calendario. E così la riforma è destinata a slittare: le votazioni in commissione inizieranno tra la fine di agosto e i primi di settembre. Una frenata che la sinistra del Pd interpreta come il tentativo, da parte di Renzi, di «rifare il Nazareno» per assicurarsi i voti di Berlusconi o di Verdini.
Nella Affari costituzionali presieduta da Anna Finocchiaro, che oggi terrà la sua relazione tecnica, maggioranza e opposizione sono 14 a 14. Parità sulla carta, perché la situazione è fluida. Tre dem (Gotor, Migliavacca, Lo Moro) risultano infatti tra i firmatari del «Documento dei 25», con cui i dissidenti chiedono di rivedere i punti cardine della riforma. Poi ci sono i tre di Ncd, che sulla scuola mandarono sotto il governo. Visto il garbuglio, il Pd lavora ai fianchi il presidente Pietro Grasso, sperando di convincerlo a togliere dalla prima commissione almeno uno dei cosiddetti «eccedentari»: ovvero i senatori dispari che rimangono dopo averne distribuiti in numero uguale per ciascuna delle 13 commissioni. Perché la riforma possa procedere, il fronte renziano deve prima vincere questa partita a scacchi. Ma se il Pd si appella al precedente del «lodo Schifani» del 2011 — in un caso analogo un senatore di opposizione andò via autonomamente — a Palazzo Madama si dice che Grasso non abbia alcuno strumento per modificare la composizione delle commissioni. Come se ne esce? Un senatore di opposizione dovrebbe fare il bel gesto. Un imbuto regolamentare, che ha convinto Grasso a stoppare il pressing nei suoi confronti: «Conosco e rispetto alla lettera il regolamento del Senato, non ho nessuno strumento per intervenire. Togliere un senatore a mia scelta dalla prima commissione sarebbe, stavolta davvero, una vistosa e intollerabile violazione del regolamento». Difficile prevedere come si sbloccherà l’impasse, creato dai cambi di casacca, dalle scissioni a catena e dalla nascita di nuovi gruppi.
Forza Italia potrebbe sacrificare uno dei suoi. Ma se venisse sostituito Riccardo Mazzoni, vicino a Verdini, ogni possibilità di andare avanti sarebbe preclusa. In questo rebus si fa anche il nome di Patrizia Bisinella, che ha lasciato la Lega per seguire il compagno Flavio Tosi e si è sistemata nel Misto. Ma se la capogruppo Loredana De Petris le chiedesse un passo indietro toglierebbe di mezzo una senatrice ben disposta verso le riforme... C’è sempre la giunta per il Regolamento, ma anche qui la maggioranza non ha i numeri.
La Stampa 7.7.15
Depositato in Cassazione l referendum sull’Italicum
di Marco Bresolin
Non sarà il quesito del secolo a cui domenica hanno risposto cinque milioni di greci. Ma tra un anno anche gli italiani potrebbero riassaporare il gusto del referendum: non sull’austerità e nemmeno sull’euro, ma sull’Italicum, la nuova legge elettorale. Il «potrebbero» è d’obbligo, perché tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di firme da raccogliere. Mezzo milione in tre mesi, mica semplice. Però la macchina è stata avviata, il quesito è apparso sulla Gazzetta Ufficiale e da oggi scatterà una campagna sul web.
Subito dopo l’approvazione della legge, tutta l’opposizione aveva annunciato il ricorso alla consultazione elettorale per bloccare quello che molti definiscono un Porcellum bis. Dalla Lega ai Cinque Stelle, passando per Forza Italia (che – va detto – ha votato a favore in Senato e contro alla Camera) fino ai dissidenti Pd. Annunci, intenzioni, promesse. Ma nessun atto ufficiale. E allora martedì scorso una quindicina di cittadini, guidati da un professore universitario, si sono presentati alla Cancelleria della Corte di Cassazione e hanno depositato il quesito che chiede di abolire un punto chiave della nuova legge elettorale: il capolista bloccato. Non tutto l’Italicum, perché la richiesta di abrogazione totale di una legge elettorale non passerebbe il vaglio di costituzionalità.
Quello del comitato referendario è dunque un primo, piccolo, ma necessario passo per raggiungere l’obiettivo. Via il capolista, spazio solo alle preferenze per dare agli elettori il pieno potere di scelta. «L’introduzione del capolista nei cento collegi – spiega il promotore Marco Galdi, docente di Diritto Pubblico all’Università di Salerno ed ex sindaco di Cava de’ Tirreni con una coalizione di centrodestra – è un modo surrettizio per reintrodurre le liste bloccate, che sono già state bocciate dalla Corte Costituzionale».
I moduli per la raccolta firme sono pronti, il sito web pure. C’è tempo fino al 30 settembre, pochissimo tempo. Bisognerà fare i salti mortali. Servirà per esempio l’appoggio di qualche struttura di partito. «Stiamo cercando convergenze politiche, sono già in contatto con diversi parlamentari di opposti schieramenti». Tra i più attivi c’è il deputato Guglielmo Vaccaro, molto vicino a Enrico Letta, da poco uscito dal Pd per le divergenze sul caso De Luca. Ma Galdi punta a fare squadra anche con Pippo Civati, che ha già annunciato di voler mettere a disposizione la rete della sua associazione «Possibile» per «creare un’infrastruttura nazionale della campagna referendaria», in cui inserire anche i quesiti su Jobs Act, Sblocca Italia e scuola. L’obiettivo è un referendum day da tenersi tra l’aprile e il giugno del 2016. Firme permettendo.
Il Sole 7.7.15
Italia penultima per spesa in istruzione
Ocse. Il nostro Paese destina all’Education l’8% delle sue risorse, peggio solo la Grecia
di Eu. B.
Roma Non c’è solo l’alto debito pubblico ad avvicinare la posizione dell’Italia a quella della Grecia. Ma c’è anche la bassa spesa per istruzione. A dirlo è il rapporto Government at a Glance 2015 dell’Ocse che è stato presentato ieri. E che fissa all’8% la quota di budget pubblico destinata dal nostro paese alla scuola. Peggio di noi fa - appunto - solo il governo ellenico che dedica, alla medesima causa, appena il 7,6% delle sue risorse.
Il paper dell’organizzazione parigina prende in considerazione la spesa per funzioni di 29 paesi. Da cui emerge che l’Italia ne ha indirizzato maggior parte all’assistenza sociale-welfare (41,3%), ai servizi pubblici generali (17,5%) e al sistema sanitario (14,1%). Seguono affari economici (8,2%), educazione (8%), ordine pubblico (3,8%), difesa (2,3%), protezione ambientale (1,8%), politiche sull’alloggio e finanziamento a cultura e religione (1,4% ciascuna).
In realtà, il dato sulla scuola non stupisce più di tanto chi ha a che fare tutti i giorni con l’istruzione e con i suoi numeri. Primo perché i dati non sono aggiornatissimi, visto che si riferiscono al 2013. E, secondo, perché scontiamo il trend discendente (e soprattutto i tagli) degli anni scorsi. Nel periodo 2007-2013 infatti il nostro investimento in Education si è ridotto dell’1,6 per cento. Il doppio dell’intera media Ocse pari allo 0,8 per cento.
Simile agli altri paesi esaminati è invece la causa di questa contrazione. A drenare risorse, come è accaduto nelle altre economie alle prese con la disoccupazione galoppante post-crisi (ad esempio Spagna, Irlanda e Portogallo) è stata la protezione sociale (pensioni innanzitutto ma non solo). Tant’è che tra il 2007 e il 2013 le uscite per questa voce sono salite del 3,9 per cento.
C’è un altro dato che è stato diffuso ieri dall’organizzazione parigina e che deve far riflettere perché collegato al tema dell’istruzione. Si tratta del poco invidiabile primato dell’Italia per il più alto squilibrio tra la domanda e l’offerta di competenze. Un fenomeno che interessa il 35% della nostra forza lavoro e che- se corretto- consentirebbe un recupero di produttività nell’ordine del 10 per cento.
Il Sole 7.7.15
Pensioni più leggere dal 2016
L’adeguamento alla speranza di vita riduce l’importo dell’assegno
di Fabio Venanzi
Assegni previdenziali più bassi dal 1° gennaio 2016 per effetto della revisione dei coefficienti per il calcolo delle pensioni con quote contributive. È questo l’effetto del decreto del ministero del Lavoro del 22 giugno e pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale.
La riforma Dini (legge 335/1995) ha modificato in parte il sistema di calcolo dei trattamenti pensionistici prevedendo la quota contributiva, cioè quella parte di pensione legata ai contributi versati da parte del datore di lavoro e del lavoratore. Questi contributi, rivalutati annualmente per l’indice Pil, diventano quota di pensione tramite l’applicazione di coefficienti di trasformazione legati all’età posseduta dal lavoratore al momento del pensionamento. Maggiore è l’età e più alta sarà la quota di pensione. Per coloro che avevano almeno 18 anni di contributi entro il 1995, la quota contributiva decorre dal 2012 per effetto della riforma Monti-Fornero mentre per gli altri la quota contributiva decorre dal 1996 in poi.
Con la riforma Damiano (legge 247/2007) i coefficienti, già previsti dalla riforma del 1995, hanno subito una diminuzione a causa dell’aumento legato alla speranza di vita. Successivamente, con il decreto legge 78/2010, è stato previsto che a ogni aumento della speranza di vita corrisponda una revisione dei coefficienti di trasformazione, al fine di garantire l’equilibrio finanziario del sistema, poiché un pensionato medio, vivendo di più rispetto al passato, non può “costare” di più rispetto a quello che ha versato e quindi la rata di pensione diminuisce in proporzione.
Quello di ieri rappresenta l’ultimo aggiornamento triennale poiché dalla prossima revisione (2019) gli adeguamenti saranno biennali, secondo quanto ha previsto il decreto Salva Italia (Dl 201/2011). E così un lavoratore medio, con meno di 18 anni di contributi al 1995, che accede quest’anno alla pensione di vecchiaia a 66 anni 3 mesi, a fronte di un montante contributivo di 200mila euro, avrà una rendita maggiore di 18 euro lordi mensili rispetto a chi andrà in pensione con gli stessi requisiti il prossimo anno. Tuttavia, dal 2016, la pensione di vecchiaia si conseguirà con 66 anni 7 mesi e pertanto, fermo restando l’importo del montante contributivo, la pensione scenderà soltanto di 8 euro al mese.
I lavoratori che hanno già maturato un diritto a pensione (o che lo matureranno entro l’anno), e che quindi possono scegliere quando uscire dal mondo del lavoro, hanno tutta la convenienza a farlo entro il prossimo mese di novembre (o entro il 30 dicembre per il settore pubblico) affinché possano beneficiare di coefficienti più generosi e dal prossimo 1° gennaio possano altresì vedersi applicare la perequazione in funzione della fascia di importo del trattamento pensionistico. A parità di condizioni, per i lavoratori ex retributivi l’impatto è notevolmente inferiore, considerato il poco lasso di tempo che intercorre dal 2012.
Corriere 7.7.15
Francesco in Ecuador «Sostenere la famiglia è un dovere sociale»
«Ciò che oggi pare impuro, Dio lo trasforma in miracolo»
di Gian Guido Vecchi
GUAYAQUIL (Ecuador) Viali di palmizi, alberi da frutto, c’è caldo ma Francesco si riossigena per qualche ora a livello del mare prima di tornare ai 2.850 metri di Quito e salire, domani sera, ai quattromila dell’aeroporto boliviano di El Alto. Decine di migliaia di persone lungo le strade, un milione nel parco in riva al fiume verso il Pacifico, il Papa che passa in auto scoperta per avvicinare la gente. Francesco ha spiegato più volte che la Chiesa «ha come modello» la Madonna. Così è significativo che sosti anzitutto al santuario della Divina Misericordia («vi benedico, ma non a pagamento!») e poi scandisca, nell’omelia: «Maria non è una madre che “pretende”, non è una suocera che vigila per divertirsi delle nostre inesperienze, di errori o disattenzioni». Ai fedeli fa ripetere: «Maria è madre! È presente, attenta e premurosa».
Le famiglie in difficoltà o spezzate, le donne sole, gli anziani scartati, gli esclusi, l’atteggiamento della Chiesa anche verso ciò che sembra «impuro». Il Papa parte dal racconto evangelico delle nozze di Cana, la madre che «supplica» Gesù perché gli sposi «non hanno più vino», cosa che oggi «può essere conseguenza della mancanza di lavoro, delle malattie, delle situazioni problematiche che le nostre famiglie attraversano». Maria non critica ma «resta» per aiutarli e ottiene il miracolo. La famiglia «è l’ospedale più vicino», una «scuola» di amore al prossimo, e da essa «nessuno è escluso». Per questo Francesco cita San Paolo («dove abbondò il peccato, ha sovrabbondato la grazia») e ricorda che prima del Giubileo della Misericordia si riunirà in Vaticano un Sinodo «per maturare un vero discernimento spirituale e trovare soluzioni concrete alle molte difficoltà e importanti sfide che la famiglia deve affrontare nel nostro tempo». Fino a sillabare la frase più importante: «Vi invito a intensificare le vostre preghiere, perché persino quello che a noi sembra impuro, ci scandalizza o ci spaventa, Dio lo possa trasformare in miracolo».
Il riferimento alle «soluzioni concrete» riguarda anche le situazioni più difficili, come i divorziati o le coppie cosiddette irregolari: «Una parola che a me non piace», spiegava il Papa il mese scorso, quando osservava che «la separazione a volte è inevitabile» e si domandava «come aiutarle e accompagnarle».
La famiglia va sostenuta per ciò che offre al bene comune: i servizi «non sono una forma di elemosina ma un autentico debito sociale». Ma nella famiglia «i miracoli si fanno con quello che c’è, con quello che siamo o che uno ha a disposizione», anche se molte volte «non è l’ideale» né «ciò che sogniamo o “dovrebbe essere”». Perché «Dio si avvicina sempre alle periferie di coloro che sono rimasti senza vino e hanno da bere solo lo scoraggiamento; Gesù ha una preferenza per versare il migliore dei vini a quelli che per una ragione o per l’altra ormai sentono di avere rotto tutte le anfore», conclude Francesco: «Il vino migliore sta per venire per ogni persona che ha il coraggio di amare».
Padre Lombardi faceva notare che tra Ecuador, Bolivia e Paraguay, Francesco ha scelto di visitare popoli ai margini «del potere umano» prima del viaggio che in settembre, dopo Cuba, lo porterà a parlare all’Assemblea dell’Onu a New York: «Si farà portatore della voce dei poveri». Di ritorno a Quito, nella notte italiana, il Papa si preparava a salutare i fedeli nella cinquecentesca «Plaza Grande», richiamando l’esempio dei santi: «Hanno amato molto e lo hanno dimostrato fino a toccare la carne sofferente di Cristo nel popolo».
Il Sole 7.7.15
Il testo consegnato dalla commissione prefettizia a Gabrielli
«Il Comune di Roma è stato infiltrato da Mafia capitale»
di Marco Ludovico
ROMA Mafia capitale ha permeato il Comune di Roma e si è introdotta con stile bipartisan nei gangli decisionali politici e burocratici. «L’organizzazione capeggiata da Carminati - si legge nella relazione della commissione di accesso presieduta dal prefetto Marilisa Magno - ha realizzato una sistematica infiltrazione del tessuto imprenditoriale, attraverso l’elargizione dei favori, e delle istituzioni locali, attraverso un diffuso sistema corruttivo».
Il rapporto, circa 900 pagine con dicitura «riservato», è nelle mani del prefetto di Roma, Franco Gabrielli. Oggi Gabrielli presiederà il comitato provinciale per l’ordine pubblico e la sicurezza: oltre ai vertici delle forze dell’ordine ci sarà anche il procuratore capo, Giuseppe Pignatone. Il comitato è sentito, per legge, proprio per il parere che il prefetto di Roma deve inviare al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, dopo aver valutato la relazione di accesso agli atti del Comune. Alla fine si dovrà ipotizzare una misura: scioglimento degli organi comunali per infiltrazione mafiosa, o per violazione di legge, o ancora, in alternativa, avvicendamento dei dirigenti collusi con l’organizzazione criminale: l’ipotesi meno traumatica ma ritenuta, al momento, la più probabile. Fatto sta che nel giro di pochi giorni Gabrielli darà il suo responso ad Alfano. Poi il responsabile del Viminale, dopo aver fatto una propria istruttoria, dovrà condividere le sue decisioni finali con il premier Matteo Renzi in Consiglio dei ministri.
Certo è che la documentazione di partenza è impressionante. Perché la commissione prefettizia, dopo aver spulciato in sei mesi di attività migliaia di atti e documenti del Campidoglio, aderisce convinta alla tesi di Pignatone: quella di Carminati & soci è mafia, senza dubbi. Infiltratasi «con un progressivo e subdolo radicamento» tra economia e istituzioni pubbliche. Certo, è una mafia «del tutto peculiare» visto che «opera su due fronti»: quello «prettamente criminale» e quello «imprenditoriale» dove «l’associazione privilegia lo strumento della corruzione rispetto a quello dell’intimidazione al quale comunque ricorre in caso di necessità». La relazione sottolinea peraltro lo spirito d’impresa dell’associazione mafiosa: «L’obiettivo principale - si legge - è realizzare la infiltrazione nei settori economici e degli appalti pubblici». La commissione prefettizia non esprime un’indicazione sull’ipotesi di scioglimento del Comune di Roma per infiltrazione mafiosa, evento che resta, comunque, improbabile. Non nasconde però nulla ma anzi rilegge e amplifica, con argomentazioni dettate dalla visuale amministrativa, l’ordinanza del gip Flavia Costantini del 28 novembre 2014. «Mafia capitale, in questo differenziandosi e in parte affrancandosi dalle precedenti espressioni organizzate capitoline come la banda della Magliana, ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma, creando una struttura organizzativa di tipo reticolare o a raggiera». Molto pesante è un passaggio esplicito proprio sul Campidoglio: «L’organizzazione di Carminati ha potuto condizionare pesantemente il contesto politico e amministrativo romano, determinando la nomina di personaggi “graditi” in posizioni strategiche quali quelle di presidente e di capo segreteria dell’assemblea capitolina, di presidente della commissione per la trasparenza del consiglio capitolino, di direttore generale, consigliere di amministrazione, dirigente dell’azienda municipalizzata Ama; ottenendo l’allontanamento e la sostituzione del direttore del dipartimento per i servizi sociali del Comune di Roma in quanto non sensibile alle esigenze del sodalizio; intervenendo nelle elezioni comunali di Sacrofano». Fatti che riguardano sia la consiliatura con la giunta di Gianni Alemanno sia quella guidata dal sindaco Ignazio Marino. Il documento prefettizio poi fa proprio il concetto sostenuto dalla procura di Roma del “capitale istituzionale”: «Un articolato sistema di relazioni arrivato a coinvolgere i vertici delle istituzioni locali» visto che «grazie a tale capitale istituzionale, costantemente alimentato da un imponente circuito corruttivo» Carminati & soci sono riusciti a ottenere «solo per quanto fin qui accertato, affidamenti particolarmente redditizi dal Comune di Roma e dall’Ama». La relazione mette in evidenza anche un altro passaggio dell’ordinanza del gip: «I protagonisti interni ed esterni alla struttura, rigorosamente bipartisan, appartenenti per storia e per scelte politiche ad aree diverse, spesso anche opposte, nelle quali al radicalismo delle posizioni ideali professate fa da contrappunto l’assenza totale di remore a comporre, con soddisfazione e apprezzamento reciproci, affari illeciti».
Corriere 7.7.15
«Sciogliere il Comune di Roma» Ma pesano i dubbi di Gabrielli
Mafia Capitale, oggi vertice sulla relazione degli ispettori. Anche Pignatone frena
di Giovanni Bianconi
ROMA Il sindaco ne fa parte di diritto, ma oggi non ci sarà: Ignazio Marino ha fatto sapere che per comprensibili motivi di opportunità preferisce non partecipare al comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica nel quale si giocherà il destino della sua giunta e del consiglio comunale che la sostiene. La riunione è stata convocata a norma dell’articolo 143 del Testo unico sugli Enti locali, quello che regola lo scioglimento per mafia: il prefetto, «sentito il comitato provinciale integrato con la partecipazione del procuratore della Repubblica, invia al ministro dell’Interno una relazione nella quale si dà conto della eventuale sussistenza degli elementi» per far decadere l’assemblea elettiva.
Il documento del prefetto di Roma Franco Gabrielli sulle conseguenze politico-amministrative dell’indagine su Mafia Capitale è pronto, e il vertice convocato per oggi è il passaggio formale che ne precede la trasmissione al Viminale. Il prefetto illustrerà il lavoro della commissione d’accesso insediata dal suo predecessore, Giuseppe Pecoraro, e forse un’anticipazione della sua proposta al ministro. Dopodiché toccherà ai presenti esprimere le proprie valutazioni; in particolare al procuratore Giuseppe Pignatone, che con le indagini condotte dal suo ufficio — l’individuazione della presunta associazione mafiosa che avrebbe condizionato il governo di Roma — ha provocato l’avvio della procedura che tiene in bilico il sindaco Marino. Anche se gran parte delle attività contestate agli indagati riguarda l’amministrazione guidata dall’ex sindaco Alemanno, come ha ricordato Pignatone alla commissione Antimafia. E c’è da ritenere che le considerazioni del magistrato avranno un peso sulle determinazioni che Gabrielli comunicherà, entro la settimana, al ministro Alfano.
Sul tavolo del prefetto (e oggi del comitato provinciale) c’è dunque la relazione della commissione d’accesso che, di fatto, suggerisce lo scioglimento del Comune di Roma. Perché il gruppo guidato da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi (considerati i capi dell’associazione mafiosa), avrebbe determinato «un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi e amministrativi» tale da «compromettere il buon andamento o l’imparzialità» dell’amministrazione, secondo quanto previsto dalla legge per giustificare l’intervento del governo. Gli elementi messi in luce dall’indagine giudiziaria e dal lavoro dei commissari prefettizi sarebbero quindi «concreti, univoci e rilevanti», come richiesto dalla norma.
Ciò anche per via di alcune considerazioni della Cassazione che ha confermato l’accusa di associazione mafiosa. Per esempio quella in cui si sottolinea «il condizionamento derivante da una posizione sostanzialmente monopolistica nell’acquisizione degli appalti dei servizi del Comune di Roma da parte delle cooperative del Buzzi, attraverso la imposizione di un controllo dell’associazione su buona parte dell’amministrazione capitolina»; o il passaggio in cui si descrive «la progressiva evoluzione di un gruppo di potere criminale che si è insediato nei gangli dell’amministrazione della capitale d’Italia... sostituendosi agli organi istituzionali nella preparazione e nell’assunzione delle scelte proprie dell’azione amministrativa».
Tuttavia le conclusioni del prefetto potrebbero essere diverse; perché diverse potrebbero rivelarsi le valutazioni sulle cause del condizionamento e sugli interventi per impedire che continui. Così potrebbe essere sufficiente proporre la rimozione di singoli funzionari, anche di alto livello, o lo scioglimento di uno o più Municipi maggiormente interessati dalle indagini antimafia. Pure il parere del procuratore potrebbe andare in una direzione diversa dallo scioglimento, in virtù di quanto già comunicato all’Antimafia. Lì Pignatone ha spiegato che «l’associazione si rapporta in modo completamente diverso con le due giunte (Alemanno e Marino, ndr )»; con la prima c’era «un dialogo diretto, e in posizione sovraordinata, tra Carminati e il più stretto collaboratore del sindaco», mentre con la seconda quei contatti «non ci sono più», nonostante «rimanga la presenza estremamente pesante di Buzzi e del mondo delle cooperative che ruota attorno a lui, che continuano ad avere un trattamento privilegiato da parte dell’amministrazione e della burocrazia comunale».
Repubblica 7.7.15
Roma sotto giudizio “Illegalità gravissime”
Ipotesi legge speciale
Imminente la relazione Gabrielli. La normativa ad hoc darebbe poteri per risanare la burocrazia corrotta
di Carlo Bonini
ROMA . Cominciano oggi i giorni decisivi per il destino della Giunta Marino. Perché è oggi che comincerà a prendere forma la risposta alla domanda se il Comune Capitale d’Italia debba o meno essere sciolto per mafia. Il prefetto Franco Gabrielli riunirà il Comitato provinciale per l’Ordine e la sicurezza pubblica (cui parteciperanno il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, il questore e i comandanti provinciali di Carabinieri, Finanza e Forestale) durante il quale verranno discusse le conclusioni delle mille pagine di lavoro consegnate lo scorso 16 giugno dalla commissione di accesso agli atti del Comune insediata dal precedente prefetto Pecoraro e, con loro, l’orientamento maturato in queste tre settimane dallo stesso Gabrielli con la sua bozza di relazione finale. Se la discussione dovesse registrare un orientamento comune, la consegna della relazione di Gabrielli al ministro dell’Interno Alfano e alla Commissione parlamentare Antimafia (che ne ha fatto richiesta nei giorni scorsi), prevista per il prossimo venerdì, potrebbe anche essere anticipata di un giorno.
Per dire cosa? Al netto di un «segreto» sul lavoro della commissione prefettizia che, come ha sottolineato ironicamente lo stesso Gabrielli, «ha incredibilmente resistito », il quadro di questa “stretta finale” è definito. Per quanto infatti non se ne conosca il dettaglio, la Commissione insediata da Pecoraro, nel delineare un quadro di sistematica e capillare distorsione delle prassi amministrative della macchina comunale, di una spesa fuori controllo per dolo e negligenza nei controlli, di regole sugli appalti regolarmente aggirate in nome della “somma urgenza”, sarebbe giunta a conclusioni severe che, di fatto, raccomanderebbero lo scioglimento del Comune. Conclusione su cui, al contrario, il Prefetto Gabrielli nutrirebbe dubbi sostanziali. Alimentati da almeno due ordini di considerazioni. La prima: l’analisi che lo stesso Procuratore Pignatone ha reso pubblica la scorsa settimana durante la sua audizione alla Commissione Antimafia, secondo cui esiste un’oggettiva «discontinuità amministrativa» tra quella che è stata la giunta Alemanno (organica a Buzzi e Carminati, al punto da vedere l’ex sindaco indagato per associazione mafiosa) e quella che è oggi ed è stata a partire dal 2013 la giunta Marino. La seconda: che lo scioglimento per mafia prevede un inquinamento in atto della vita politica e amministrativa della città da parte di organizzazioni mafiose. Una circostanza, questa, che, con lo smantellamento dell’intera banda Buzzi-Carminati e le dimissioni e gli arresti delle figure politiche macchiate anche durante la prima parte della stagione Marino, non fotografa l’attuale situazione della Giunta.
Il sentiero di fronte a Gabrielli, del resto, è assai stretto. Perché, al contrario di quanto pure si è sostenuto, sarà solo sull’ipotesi di inquinamento mafioso che il Prefetto sarà chiamato a pronunciarsi (articolo 143 del Testo Unico di legge sugli Enti Locali) e non sulle “persistenti e gravi violazioni di legge” (articolo 141), che pure prevede la legge ma che sono estranee a questa procedura e che dunque, in questo caso, non poranno essere invocate per il commissariamento.
Un fatto è certo. Se Gabrielli dovesse alla fine concludere per la mancanza dei requisiti necessari allo scioglimento per mafia, non per questo il quadro della sua relazione suonerà confortante per la Giunta Marino o una cambiale in bianco alla sua longevità politica. Anzi, le difficoltà politiche potrebbero moltiplicarsi. Il quadro definito dall’indagine prefettizia – a quanto se ne sa – è infatti devastante . La corruzione che si è mangiata pezzi interi della burocrazia comunale è ormai allo stadio della metastasi. E dunque la relazione, pur non raccomandando lo scioglimento (decisione che comunque dovrà assumere Alfano sottoponendola , entro tre mesi, al Consiglio dei Ministri) potrebbe aprire uno scenario di iniziativa politica inedito. Su cui, non a caso, si è pronunciata anche Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia. Una legge speciale per Roma che immagini poteri (e magari anche fondi) straordinari e che consenta di incidere immediatamente sul tessuto necrotizzato dell’amministrazione pubblica (sono 50 mila i dipendenti del comune, comprendendo le municipalizzate e le controllate) e sulla spesa. Da affidare a una struttura di governo della città «allargata ». Non insomma una “giunta bis dei Migliori”, ma una giunta Marino sostenuta da una struttura amministrativa o prefettizia “speciale” immaginata appunto per legge.
La Stampa 7.7.15
La Cina punta sulle banche italiane
Pechino al 2% in Unicredit e Mps
Gli investimenti in Piazza Affari a quota 4 miliardi
di Gianluca Paolucci
Non è stato il momento migliore, visti i ripetuti cali in Borsa delle banche italiane sulla scia delle tensioni per la crisi greca. Ma probabilmente l’ingresso della Banca centrale cinese nel capitale di Monte dei Paschi di Siena e Unicredit - reso noto ieri dalla Consob e risalente alle fine di giugno - ha logiche diverse. Le quote acquistate sono, anche in questo caso, di poco superiori al 2%. Così come era stato per le altre partecipazioni acquisite dalla People’s Bank of China: Terna e Saipem, dal gennaio scorso. E prima ancora, sempre con quote di poco superiori al 2% Generali, Eni, Enel, Prysmian, Telecom e Fiat prima della nascita di Fca.
Ai prezzi di ieri, malgrado il tonfo di Borsa Italiana, il pacchetto d’investimenti italiani della banca centrale cinese è pari a circa 4 miliardi di euro. L’investimento nelle due banche, da solo, valeva fino a venerdì scorso circa 770 milioni di euro. Da ieri un po' in meno, dato che a causa della crisi greca Unicrediti ha perso il 6,12% chiudendo a 5,68 euro e Monte Paschi ha ceduto ben 11,5% a 1,53 euro.
Ad aggiungere a questa faccenda un interesse che va ben oltre le logiche dei mercati finanziari c’è anche la circostanza che il mercato cinese è da giorni sotto pressione per lo scoppio di una bolla speculativa sul mercato azionario locale, con la Borsa di Shanghai che ha perso in termini di capitalizzazione l’equivalente di 2400 miliardi di dollari.
A scommettere sull’Italia non è solo la Banca centrale. Lo scorso anno c’è stata la maxi-acquisizione da due miliardi di euro realizzata da State grid corporation of China, colosso statale delle utility, del 35% di Cdp reti, a cui fanno capo proprio le due reti per la distribuzione di energia e gas, Terna e Snam. E l’ingresso non molto tempo prima della Shangai electric nel capitale di Ansaldo Energia col 35%.Contando anche gli investimenti dei privati - come l’accordo che ha portato ChemChina nel capitale di Pirelli -, l’Italia è il secondo paese europeo per l’approdo dei capitali cinesi: oltre tre miliardi di euro nel 2014 secondo le stime di Bloomberg. Poca roba, tutto sommato, considerando che sempre nel 2014 il totale degli investimenti cinesi all’estero ha superato i 100 miliardi di dollari.
L’operazione apre però un capitolo bancario negli affari del governo cinese in Italia che finora mancava. Tanto attivismo viene letto in due modi, diametralmente opposti. Per gli ottimisti, indica la forte fiducia dei cinesi nell’economia italiana, nella sua capacità di ripresa e nelle aziende e gruppi industriali italiani. Per i pessimisti un modo per «segnalare» la propria presenza - la soglia del 2% è quella oltre la quale scatta l’obbligo di comunicare gli acquisti nelle società quotate - in una fase nella quale la nostra asfittica economia è facile preda di capitali esteri.
Di certo c’è che a tanta apertura del mercato italiano - ben lieto di riceve capitali da Pechino anche in settori strategici come le reti energetiche, le tlc e da ieri anche le banche - rispetto ad altri paesi del vecchio continenti non corrisponde nessuna forma di reciprocità. Come sanno bene gli investigatori fiorentini che, in una lunga quanto colossale indagine sul riciclaggio della criminalità cinese in Italia, si sono imbattuti nella sede milanese della Bank of China, dalla quale sono transitati miliardi di euro di capitali frutto di attività illegali e diretti alla madrepatria. Senza nessun controllo da parte dell’istituto, una delle principali banche cinesi. Secondo i magistrati fiorentini, dalla Cina non è stato possibile ricevere nessun informazione sui destinatari di tali somme e anche Bank of China figura tra tra i 297 soggetti per i quali è stato richiesto il rinvio a giudizio.
Corriere Liberation 7.7.15
Il blocco di Gaza aprirà le porte allo Stato Islamico?
Il blocco imposto da Israele alla Striscia di Gaza aprirà le porte, dal Sinai, allo Stato Islamico? Il rischio c’è, scrive su Libération Alexandra Schwartzbrod . Per adesso, Hamas dà la caccia agli jihadisti salafiti, «ma più verrà alimentata la disperazione in questo territorio in cui il 60% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, più crescerà il rischio di una “jihadizzazione” dei giovani». Dai tunnel scavati per far arrivare nella Striscia prodotti di contrabbando, potrebbe, insomma, arrivare anche il letale contagio dei tagliagole dell’Isis.
Il Sole 7.7.15
Iran, stretta finale sull’accordo
Trattative a oltranza a Vienna per arrivare nei prossimi giorni al compromesso sul nucleare
Necessità reciproche: la prima ha bisogno di un allleato anti-Isis, la seconda vuole uscire dall’isolamento
di Alberto Negri
Il mondo, nel bene o nel male, può cambiare in questa torrida estate, dalla Grecia all’Iran. Se Bruxelles aspetta che Atene faccia la prima mossa per capire se vuole restare ancora agganciata all’Unione, al Palais Coburg di Vienna ieri si trattava a oltranza per raggiungere l’accordo sul nucleare tra il Cinque più Uno e l’Iran. Perché ormai anche il pubblico meno addentro alla geopolitica ha capito che un’intesa con l’Iran va ben oltre questo negoziato e modifica il quadro del Medio Oriente, con il ritorno a pieno titolo sulla scena internazionale di una potenza non araba, portabandiera dell’Islam sciita, rivale dell’Arabia Saudita, il bastione del sunnismo, e considerata da Israele una sorta di nemico esistenziale.
Come per la Grecia anche per l’Iran niente è sicuro ma il compromesso è possibile perché i dati della questione non sono cambiati: Teheran ha bisogno della cancellazione delle sanzioni che soffocano la sua economia mentre gli Stati Uniti e l’Occidente hanno bisogno dell’Iran per affrontare le guerre mediorientali ed evitare di mandare i loro soldati di nuovo sul fronte. Il negoziato ieri è stato impostato non sulle singole questioni ma su un pacchetto di nodi da risolvere: dalle sanzioni alle ispezioni nei siti militari di Teheran, al dossier del riarmo iraniano e dei missili balistici. «Chi cede su un punto deve avere la sensazione di guadagnare da un altro», ha dichiarato una fonte della diplomazia europea che qui a Vienna sembra funzionare meglio che con Atene.
Razionalità e ottimismo fanno pensare che questa doppia necessità politica, iraniana e americana, dovrebbe facilitare un accordo. Oltre a una scadenza ineludibile: i diplomatici americani vogliono un’intesa entro domani al massimo, consapevoli che va presentata al Congresso prima di giovedì in modo da evitare lo stop di due mesi delle attività parlamentari che lascerebbe troppo margine ai falchi, contrari all’accordo, per disfarla. Se gli Stati Uniti dovessero riuscire a concluderlo, l’attenzione si sposterebbe subito sul Congresso, che ha la facoltà di bocciare l’intesa entro 30 giorni a patto che l’accordo sia firmato entro giovedì 9 luglio. Se è vero che Obama può mettere il veto e aggirare un’eventuale opposizione del Congresso, anche solo il tentativo di bloccarlo potrebbe indurre l'Iran e le altre nazioni del Cinque più Uno a mettere in dubbio l’impegno degli Stati Uniti a rispettarlo. Per questo il tempo stringe e i negoziatori ieri si erano chiusi in conclave.
Nonostante la matrice religiosa del regime degli ayatollah, la repubblica islamica nei momenti decisivi ha sempre mostrato di preferire il pragmatismo all’ideologia. E questa volta la posta in gioco è fondamentale: la trattativa, in ogni caso, avrà conseguenze rilevanti per la stabilità del Medio Oriente, nella lotta al Califfato e negli equilibri di potenza regionali tra Teheran, l’Arabia Saudita, Israele e la Turchia. In un momento drammatico in cui nel Levante arabo si disgregano stati come Siria, Iraq, Yemen, e nel Nordafrica si moltiplicano gli attentati ispirati dall’Isis, l’Iran sciita e i suoi alleati, dagli Hezbollah a Bashar Assad, al governo di Baghdad, sono insieme ai curdi i maggiori nemici sul campo dei jihadisti sunniti: è da un’eventuale intesa a Vienna che l’Occidente può cominciare a sciogliere il rebus mediorientale.
La firma di un accordo significa per Teheran, negli ultimi decenni bastione anti-occidentale e anti-americano, il ritorno come protagonista ineludibile della scena internazionale; così come la possibile fine dell’embargo e delle sanzioni comporta effetti economici rilevanti sia per l’economia di Teheran che per i partner occidentali. Se la crisi ellenica deprime i mercati, l’Iran potrebbe rilanciare in grande stile le esportazioni energetiche di un Paese al quarto posto mondiale per le riserve di oro nero e al secondo per il gas.
Un’intesa a Vienna potrebbe portare nell’arco di un anno nelle casse di Teheran una cifra tra i 100 e i 150 miliardi di dollari. Aspettative importanti per gli investimenti delle major internazionali corse a Teheran a riaprire la competizione per i contratti su un mercato lasciato ai colossi asiatici come la Cina o l’India che non hanno mai osservato le sanzioni occidentali, americane ed europee, e forse neppure quelle delle Nazioni Unite. Anche per i motivi economici e di sopravvivenza al potere, oltre che strategici, l’ala dura del regime iraniano - i militari e i Pasdaran - potrebbe dare il via libera a un accordo. A Vienna, nel Gotha di Palais Coburg, si è diffusa la netta sensazione tra gli europei, depressi e preoccupati dalla crisi ellenica, che l’Iran da una minaccia può trasformarsi in un’opportunità, politica e d’affari. Anche così cambia il modo di vedere il mondo.
Corriere 7.7.15
L’anticristo prima di Gesù
La figura che incarna il male assoluto compare nelle tradizioni più remote
di Paolo Mieli
Attorno alla metà del XIII secolo a Francoforte sull’Oder, tra Berlino e la frontiera della Germania con la Polonia, fu costruita la chiesa di Santa Maria che, dal 1370, ebbe una particolarità: i fedeli che alzavano gli occhi verso destra alle spalle dell’altare potevano ammirare dipinta su vetro la storia dell’Anticristo. «Probabilmente non lo sapevano, ma stavano godendo di un privilegio unico», scrive Marco Rizzi nell’avvincente A nticristo. L’inizio della fine del mondo , di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino. Perché unico? Vetrate di quel genere certo non mancavano nelle chiese dell’epoca. Anzi, sottolinea Rizzi, rappresentavano uno dei tratti distintivi dello stile gotico che si era diffuso in tutta l’Europa a partire dal XII secolo. Fedeli alle indicazioni di Papa Gregorio Magno, gli architetti e gli artisti avevano sostituito con vetri colorati gli affreschi e i mosaici fino ad allora utilizzati per dar vita ad una «Bibbia dei poveri», vale a dire le immagini che illustravano episodi salienti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Immagini che, da sinistra verso destra, raccontavano ai più, che non sapevano leggere e scrivere, la storia dei capitoli della fede: creazione, redenzione, giudizio. Ma dell’Anticristo non si parlava mai. O quasi. E invece nella chiesa di Francoforte ben 35 raffigurazioni furono riservate all’Anticristo, così come era stato raccontato dall’abate Adsone del monastero di Montier-en-Der (967) alla regina Gerberga, sorella di Ottone I e moglie di Luigi IV d’Oltremare, nel celeberrimo Libellus de Antichristo .
Si trattava dei «falsi miracoli del figlio della perdizione», che «trasforma le pietre in pane per sfamare i suoi seguaci», fa «scendere il fuoco dal cielo e risorgere i morti», regala «ingenti quantità di oro» (alla «distribuzione fraudolenta della ricchezza» vengono dedicati nella chiesa ben quattro riquadri). Nelle vetrate, l’Anticristo predica due volte. La prima nel tempio, la seconda di fronte a una croce rovesciata. In entrambe le situazioni, nota Rizzi, tra gli ascoltatori che portano sulla fronte il segno della perdizione compare anche un ebreo, riconoscibile dal caratteristico cappello a punta; in un altro riquadro, un gruppo di ebrei attende qualcuno o qualcosa sulle rive di un fiume; un ebreo infine è presente nella scena in cui alcuni fedeli pregano dinanzi al crocefisso, «forse per indicare la conversione del popolo ebraico che deve precedere il ritorno di Cristo». In ogni caso, ove mai ci fossero, «gli accenti polemici non sembrano particolarmente evidenti, dato che gli ebrei non compaiono nelle scene che illustrano le persecuzioni dell’Anticristo contro i cristiani». E questo è un elemento di non scarso rilievo.
Ma torniamo alle origini dell’Anticristo, rifacendoci anche a quel che ne scrissero alla fine dell’Ottocento Wilhelm Bousset e Hermann Gunkel in libri che da noi non sono mai stati tradotti, un secolo dopo Bernard McGinn nel celeberrimo L’Anticristo. Duemila anni di fascinazione del male (Corbaccio) e, in tempi più recenti, lo stesso Rizzi e Gian Luca Potestà nei due straordinari volumi antologici intitolati Il nemico dei tempi finali e Il Figlio della perdizione , editi dalla Fondazione Valla/Mondadori. Scopo del nuovo saggio di Rizzi è quello di «mostrare come sono nate riflessioni e preoccupazioni che nell’Europa secolarizzata di oggi possono apparire farneticanti, ma che per lungo tempo hanno costituito paure e speranze vive e pulsanti nel cuore della vita e per alcuni lo sono tuttora».
Per quanto possa sembrare bizzarro, la figura dell’Anticristo compare secoli e secoli prima della stessa nascita di Cristo. Ovviamente senza prendere quel nome che verrà definito in ogni suo fondamentale aspetto da Ireneo, vescovo di Lione vissuto nella seconda metà del II secolo («nel pieno di un grandioso conflitto ideologico dottrinale consumatosi tra cristiani, ebrei e altri gruppi religiosi»). Rappresenta, nell’antichità, il male assoluto che «si manifesterà in tutta la sua malvagità alla fine dei tempi, ingaggiando l’ultima e più drammatica battaglia per impedire la redenzione del mondo». Per la prima volta in mitologie mesopotamiche «che raccontano di una bestia apocalittica, drago o serpente», impegnata in questo scontro finale tra il bene e il male. Nell’Antico Testamento ne parlano i profeti Daniele ed Elia, che descrivono i «tempi terribili in cui i giusti saranno perseguitati e uccisi da serpenti e altre bestie spaventose, un po’ leoni un po’ leopardi, un po’ aquile dagli artigli di ferro». A ridosso della nascita di Cristo «le sue tracce si manifestano in scritti ebraici non compresi nel canone biblico, i cosiddetti apocrifi veterotestamentari»; infine «alcuni passi dei Vangeli dell’Apocalisse e di altri scritti del Nuovo Testamento ne rivelano appieno il volto e l’ultimo nome, Anticristo appunto».
Va notato che «dalle Lettere di Giovanni, dove la parola compare per la prima volta, è assente ogni dimensione di violenza, persecuzione, morte, insomma l’immaginario sanguinolento che costituisce la caratteristica propria dell’Anticristo nelle sue rappresentazioni successive e in quelle (presunte) precedenti». È di Giovanni l’individuazione del «suo» numero: 666. Con quella cifra, «ricapitolerà in sé tutto il male avvenuto sino ad allora, giacché Noè aveva seicento anni quando venne il diluvio a distruggere tutti gli esseri viventi, dopodiché si diffuse l’idolatria e vennero perseguitati e uccisi i giusti, come indica la statua alta sessanta cubiti e larga sei innalzata da Nabucodonosor», che i tre fanciulli Anania, Azaria e Misaele si rifiutarono di adorare, cosa per cui, racconta Daniele, vennero gettati nel fuoco. Fin da allora «costituisce la rappresentazione del male assoluto, una paura proveniente dall’oscurità più remota del mondo, da individuare e da esorcizzare». Poi compare in maniera definitiva nella seconda lettera di Paolo ai cristiani di Tessalonica. E qui è centrale il tema dell’inganno, di quell’entità che oserà «sedersi nel tempio di Dio, mostrandosi come fosse Dio», in modo da indurre i fedeli in errore. Finché «verrà svelato l’iniquo» e il Signore lo «distruggerà con il soffio della sua bocca».
Un altro vescovo, a seguito di Ireneo, aveva pubblicato un manuale per riconoscere l’Anticristo: Ippolito, di cui si sa appena che visse a cavallo tra il II e il III secolo dopo Cristo. Ippolito aveva confermato che l’Anticristo si sarebbe comportato «come un falso messia, un arnese del Diavolo, richiamando a sé tutto il popolo d’Israele da ogni terra in cui ormai vaga disperso, trattandolo come se fosse quello dei suoi figli, promettendo di ricollocarlo nella sua terra e di ricostruire il regno e il tempio di Gerusalemme, per essere adorato come un dio, secondo le parole dei profeti». L’Anticristo «chiamerà a sé l’intera umanità promettendole la salvezza, mentre non sarà in grado di salvare neppure se stesso, quando tornerà il Signore per cancellarlo con il soffio della sua bocca». All’inizio «per perseguitare i cristiani, l’Anticristo raccoglierà intorno a sé il popolo che sempre è stato infedele a Dio: gli ebrei. Dopo aver respinto la verità, dapprima trasgredendo la legge di Mosè, poi uccidendo i profeti, crocifiggendo lo stesso Gesù, perseguitando i suoi apostoli, persistendo nell’odio verso Dio, si sottometteranno infine ad un uomo mortale, illudendosi di poter aver giustizia da lui, che si rivelerà invece giudice iniquo».
Verrà poi un’epoca in cui l’Anticristo sarà identificato con Nerone (da Commodiano e da Vittorino ad esempio). Pochi anni dopo l’impero verrà riabilitato (da Lattanzio) ai tempi di Costantino. Trascorrerà meno di un secolo allorché Ambrogio (340-397), quando i Goti sconfiggeranno l’esercito romano e uccideranno l’imperatore Valente (378), identificherà quei barbari con Gog e Magog, i misteriosi popoli che avrebbero dovuto affiancare l’Anticristo nella persecuzione finale contro i cristiani. Ma Girolamo (347-420) prenderà le distanze da quel giudizio. Quando poi Roma verrà saccheggiata dai Visigoti di Alarico (410), saranno in molti a intravedere la spaventosa figura all’origine di quell’episodio.
E qui siamo al centro della questione ebrei e Anticristo. Seguendo l’insegnamento di Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, Girolamo pensava che Dio avrebbe inviato infine agli ebrei l’«operatore della menzogna e la fonte stessa dell’errore», perché non avevano voluto «accogliere la carità e la verità portata da Gesù», che sola avrebbe potuto salvarli. Se «almeno l’Anticristo fosse nato da una vergine e fosse venuto al mondo prima di Cristo», osservava Girolamo, «gli ebrei avrebbero avuto una scusa per dire che erano stati ingannati e, credendo si trattasse della verità, si erano fatti abbindolare dalla menzogna». Ora invece, dovevano «essere giudicati, anzi, senz’altro condannati» perché stavano per accogliere l’Anticristo, «dopo aver disprezzato la verità di Cristo». Agostino d’Ippona (354-430) «non era affatto convinto di questa complessa spiegazione, non solo perché Roma era caduta e nulla era cambiato nel popolo ebraico, che se ne rimaneva sconfitto e disperso, bensì perché il punto centrale della sua visione ruotava intorno alla Chiesa e all’invisibile confine che separava i veri credenti da quelli che “erano dentro, tra noi”, ma non erano “dei nostri”». Cristo, sosteneva Agostino, non verrà a giudicare i vivi e i morti prima che il suo avversario non sia venuto a sedurre quelli che sono morti nell’anima.
Il tema dell’Anticristo si riproporrà potentemente a ridosso dell’anno Mille e di quella riproposizione troveremo traccia sulle vetrate della chiesa di Santa Maria a Francoforte sull’Oder, delle quali abbiamo parlato all’inizio. Tornerà ancora prepotentemente all’inizio del Cinquecento al momento della Riforma protestante. Scriverà Martin Lutero all’amico Venceslao Link: «Ti metto a parte delle mie fantasie, perché tu veda se ho ragione a presagire che l’Anticristo, quello vero minacciato da Paolo, domina nella curia di Roma; oggi come oggi, penso di poter dimostrare che Roma è peggio dei turchi». Ed «esecrabile bolla dell’Anticristo» verrà definita da Lutero quella emessa il 15 giugno 1520 da Papa Leone X per imporgli di ritrattare alcune delle sue 95 tesi di Wittenberg. Nel 1563 appare il Libro dei martiri di John Foxe, che colloca in Inghilterra il luogo esatto dove si consumerà la «battaglia decisiva dell’ininterrotta guerra in atto tra Cristo e Anticristo». Dall’America Latina Francisco de la Cruz, condannato a morte come eretico nel 1578, annunciò «l’imminente castigo dell’Europa ad opera dei turchi, che costringeranno i cristiani a rifugiarsi nel nuovo mondo, più precisamente in Perù, la cui capitale, Lima, sarà la nuova Gerusalemme». Ai tempi della Rivoluzione inglese, nel 1649, per giustificare la condanna a morte di Carlo I, William Aspinwall disse che quel sovrano era «il piccolo corno della bestia del settimo capitolo del libro di Daniele» (ma Oliver Cromwell prese le distanze da quella forma di radicalismo apocalittico). Nel 1793, David Austin in La caduta della Babilonia mistica identificò negli Stati Uniti, da poco indipendenti, «la pietra staccatasi dalla montagna che nel libro di Daniele mette in moto il crollo della statua di Nabucodonosor» e previde che Cristo, tornato sulla terra, avrebbe instaurato il suo regno in quel Paese «portatore di libertà nonché di giustizia civile e religiosa».
Nel Novecento ci si interrogò ancora se l’Anticristo fosse Mussolini (il dubbio fu posto nel 1927 da Oswald J. Smith) o Adolf Hitler. Ci pensò Dietrich Bonhoeffer (che sarà impiccato per complicità nell’attentato a Hitler del luglio 1944) a sgombrare il campo da quelle supposizioni. Ma Hitler ebbe in ogni caso a che fare con l’Anticristo. Allorché nel corso della Seconda guerra mondiale le cose per lui cominciarono a mettersi male, diede ordine di smontare, imballare e trasferire a Potsdam le vetrate di Santa Maria a Francoforte, di cui abbiamo parlato all’inizio. Temeva, a ragione, che potessero essere danneggiate dall’offensiva russa sull’Oder, che in effetti avrebbe distrutto la città e la chiesa. Non era la prima volta che ciò avveniva. Già nel 1830 l’architetto, pittore, urbanista Karl Friedrich Schinkel era stato autorizzato a smontare i riquadri delle vetrate e nel restauro andarono persi otto pannelli. Adesso però le cose andarono ancora peggio. Quando i russi entrarono a Berlino da vincitori, ottennero che le vetrate, messe in salvo a Potsdam, fossero considerate parte della compensazione per i danni subiti dalla Germania e trasferite all’Ermitage di Leningrado (oggi San Pietroburgo). Poi però, crollato nel 1989 il Muro di Berlino, esse furono restituite alla Germania riunificata. Nel 2002 tornarono a casa i primi 111 pannelli. E la Marienkirche, i cui lavori di ricostruzione erano già iniziati negli anni Settanta, poté tornare all’aspetto di sette secoli prima. Mancavano, è vero, sei pannelli che si credevano perduti per sempre. «Questa ultima resistenza dell’Anticristo», scrive Marco Rizzi, «fu infine sconfitta nel 2005, quando vennero rinvenuti poco fuori Mosca in un deposito del Museo Puškin». Che il luogo del ritrovamento fosse in origine un monastero, sottolinea Rizzi, «permette di aggiungere un’altra pagina al ricco capitolo dei rapporti tra i monaci e l’Anticristo». Ma anche a quelli tra l’Anticristo e il Novecento.
Corriere 7.7.15
Una minaccia che ha allarmato il mondo cristiano per lunghi secoli
Esce in libreria giovedì 9 luglio il saggio di Marco Rizzi Anticristo. L’inizio della fine del mondo (Il Mulino, pagine 208, € 15). Lo stesso autore, docente della Università Cattolica di Milano, ha curato con Gian Luca Potestà, per la Fondazione Lorenzo Valla, due volumi antologici sulla figura dell’Anticristo: Il nemico dei tempi finali (Mondadori, 2005), che comprende testi tra il II e il IV secolo dopo Cristo, e Il Figlio della perdizione (Mondadori, 2012), che raccoglie invece testi dal V al XII secolo. È in programma un terzo volume a cura di Rizzi e Potestà, che conterrà testi dal XIII al XVI secolo: Il trionfo dell’Anticristo . Da segnalare inoltre il recente studio di Marco Vannini L’Anticristo. Storia e mito (Mondadori, pp. 216, e 20) e quello di Bernard McGinn L’Anticristo. Duemila anni di fascinazione del male uscito nel 1996 per l’editore Corbaccio nella traduzione di Elena Campominosi.
Corriere 7.7.15
Neutralità alla prova La Svizzera in due guerre
risponde Sergio Romano
In una via centrale di Bellinzona, capitale del Canton Ticino (Svizzera), c’è un monumento dedicato «Ai suoi figli morti in servizio della Patria il Ticino riconoscente». Alla base del monumento sono riportati da un lato un centinaio di nomi di caduti nel periodo 1914/1918, dall’altro lato i nomi di caduti nel periodo 1939/1945, con il comune di provenienza o di nascita. La Svizzera è stata neutrale in entrambi i conflitti mondiali. Erano soldati? Dove avevano combattuto ed erano caduti? Sono al corrente che la Svizzera nel Secondo conflitto mondiale ha avuto qualche vittima di bombardamenti aerei errati destinati al territorio tedesco, nei Cantoni contigui alla Germania, ma la presenza di tanti morti ticinesi mi lascia perplesso. E certamente il monumento non ha pertinenza con la Prima guerra mondiale.
Corrado Mancini
Caro Mancini,
Non conosco altri monumenti, ma a Sciaffusa, città della Svizzera settentrionale, vi è stata nel luglio del 2014 una cerimonia civile e militare per ricordare, nel centesimo anniversario dell’inizio della Grande guerra, i 1.800 soldati svizzeri morti durante il conflitto. Le cause, generalmente, furono malattie contratte durante il servizio, incidenti occorsi durante le esercitazioni e l’esplosione della febbre spagnola che imperversò in numerosi Paesi negli ultimi mesi della guerra. I morti ricordati nel monumento di Bellinzona e nella cerimonia di Sciaffusa non avevano combattuto, ma appartenevano a un corpo di 480.000 uomini mobilitati allo scoppio della guerra per presidiare le frontiere e fare fronte a qualsiasi violazione del territorio nazionale. Gli svizzeri non potevano ignorare che la guerra, sul fronte occidentale, era cominciata con la violazione tedesca della neutralità belga. E sapevano con quale durezza le forze armate del Secondo Reich avevano reagito a qualsiasi tentativo di resistenza.
Per la Svizzera, caro Mancini, quegli anni furono una prova d’esame. La neutralità del Paese era stata formalmente riconosciuta dalle grandi potenze a Vienna nel 1815, ma la Svizzera non era mai stata esposta negli anni seguenti all’esperienza di una guerra che avrebbe coinvolto e diviso l’intero continente. La tenuta della neutralità, nelle nuove circostanze di una guerra mondiale, non era soltanto un problema militare, legato ai piani strategici delle potenze combattenti. Era anche un problema svizzero. Quali sarebbero state le ripercussioni del conflitto sulla coesione dello Stato elvetico? In una intervista al Corriere del Ticino del luglio 2014, uno storico dell’Università di Ginevra, Mauro Cerutti, ricorda che esisteva un potenziale conflitto fra le simpatie filo-tedesche dei cantoni della Svizzera alemanna e le simpatie filo-italiane e filo-francesi del Ticino e dei cantoni romandi. I primi ammiravano la Germania, la sua straordinaria vitalità economica e scientifica, le sue formidabili capacità organizzative. Nei secondi, soprattutto dopo l’invasione del Belgio, esistevano correnti che parteggiavano per la Francia e, dopo il 24 maggio 1915, per l’Italia. Ma il governo tenne dritta la barra del timone e attraversò la tempeste senza rinunciare a un valore, la neutralità, che sarebbe diventato un tratto distintivo della identità nazionale.
Durante la Seconda guerra mondiale, la coesione svizzera corse meno pericoli. Il nazionalismo fascista non piaceva alla maggioranza dei ticinesi. Nei cantoni di lingua tedesca vi furono alcuni gruppi filo-tedeschi, ma alquanto marginali e irrilevanti.
Corriere 7.7.15
Il «Festivalfilosofia» dal 18 settembre: il tema è «ereditare»
«Ereditare» è il tema attorno a cui è costruita la 15ª edizione del Festival filosofia che, presentata ieri, si svolgerà a Modena, Carpi e Sassuolo dal 18 al 20 settembre. Duecento eventi gratuiti, quaranta sedi, trenta mostre (tra cui Luigi Ontani) e cinquanta lezioni magistrali che provano a coniugare con il nostro tempo questioni quali la memoria culturale, la trasmissione dei saperi tra generazioni, l’opposizione fra tradizione e innovazione. Tra gli ospiti si contano Zygmunt Bauman, Alberto Melloni, Stefano Rodotà e Richard Sennet. Nell’anno di Expo si consolidano i «menu filosofici» curati da Tullio Gregory (da provare in 70 ristoranti). Il festival, che ha un’età media del pubblico di 44 anni, è cresciuto dalle 34 mila presenze del primo anno alle oltre 200 mila del 2014.
Repubblica 7.7.15
Julia Kristeva racconta in chiave psicopatologica l’autore francese più controverso.Campione di una “letteratura dell’orrore” che mette a nudo l’inconscio
Ecco perché odio e amo l’enigma Céline
di Julia Kristeva
LOUIS Ferdinand Destouches, detto Céline (1894-1961), non cessa di suscitare emozioni e indignazioni. La prova: la continua riproposta delle sue opere. Alcuni plaudono al coraggio degli editori, e necessariamente a quello dello scrittore che scava con il bisturi del medico in fondo agli esseri umani, che il genio di questo viaggiatore al termine della notte chiamava «opera del diluvio ». Altri bacchettano questo incensamento di cui non dovrebbe essere onorato l’autore antisemita di “Bagatelle per un massacro”. Molti di voi ne hanno sentito parlare. Pochi l’hanno letto, lo so, non dite il contrario. Se mi arrischio a parlarne, è in primo luogo perché quegli scritti non sono solo let-teratura: toccando tutte le corde della lingua, Céline mette a nudo l’inconscio fino all’insostenibile, e fa ridere l’essere parlante della sua stessa
bestialità. D’altro lato, e al tempo stesso, la sua angoscia distrugge quella barriera di sicurezza chiamata sublimazione e si compiace in un’eccitazione mortifera alla quale la storia europea offre una via discarico: l’antisemitismo. Céline attraversa la vita e la morte in un’esperienza che lo spoglia della sua identità e lo conduce all’apice della sua eccitabilità e delle sue angosce. Una esperienza come quella che crea mistici e che i filosofi (da Hegel a Heidegger) cercano di delucidare a posteriori? Con una differenza, e si tratta di una differenza radicale: che Céline pratica la sua esperienza e ce la consegna nella lingua più curata che ci sia: il francese «regale», dice. Fino a farlo vibrare in danza e in musica, e portarlo ai limiti del senso, ebbro del solo piacere dell’esattezza della parola e del ritmo, per piangere d’orrore e di risa.
Quale altro approccio, diverso dalla psicoanalisi, potrebbe arrischiarsi su questa cresta, dove la pulsione e le parole camminano di pari passo e si scontrano per inabissarsi e sublimarsi mentre “io” crollo o mi esalto in un’apocalisse senza Dio? Oltretutto, è la tragedia della Shoah? È la logica implacabile dell’Homo religiosus che, di sporcizia in sozzura, di tabù levitici in peccato e codici morali, affina le sue logiche e i suoi riti di purificazione fianco a fianco alle sue passioni, ma molto spesso vi soccombe? Il viaggio di Céline al termine della notte si è trovato un capro espiatorio, un polo di fascinazione e di odio, nella figura immaginaria dell’ebreo. Quale arte diversa dalla psicoanalisi può accettare la scommessa di fare luce su questa compromissione antisemita?
Dopo avere letto tutto Céline e quasi tutto su di lui, senza dimenticare scrittori degni di stima che si sono compromessi con il suo antisemitismo, avevo difficoltà a pensare insieme Céline scrittore e Céline ideologo. Avevo acquisito la certezza che non ci fossero due Céline: da un lato quello del «francese lingua regale»; dall’altro l’assassino innamorato di Yubelblat, del «fondo della sua sostanza di immondizia ». Alcuni preferendo dimenticare la politica per cullarsi in gioie estetiche, altri esecrando l’autore di pamphlet al punto da censurare lo scrittore. Nella mia lettura i due Céline stanno insieme, in una stessa dinamica psichica che può assumere sfaccettature diverse: slanci di tenerezza, squarci di luce, come salve di deiezione, di pus e di sangue, di chiamata all’omicidio.
È a questo punto che, in un periodo drammatico della mia vita personale, e dopo avere letto Céline a tarda notte, mi sono svegliata con la parola “abiezione”. E la convinzione che questa parola riassuma l’enigma Céline. Non vi sto dicendo che la mia lettura costituisca una spiegazione esaustiva del suo stile, e ancor meno dell’orrore antisemita nel quale si è compromesso col sogghigno. Dico solo che questa dinamica psichica, che io chiamo una abiezione, si aggiunge alle ragioni religiose, politiche, sociali, storiche che, da oltre due millenni, hanno fatto dell’ebreo il nemico d’elezione in Europa. E ancora oggi il nemico d’elezione del mondo musulmano, benché in modo sociopolitico diverso, ma attingendo alla stessa riserva psichica.
Molte altre cose sono state dette dai sociologi e dai politologi sulle cause della tragedia antisemita che ha portato all’Olocausto. Resta ancor più da dire delle motivazioni religiose interne ai tre monoteismi che attizzano quella violenza fratricida. L’analista, come sempre a partire da un discorso individuale ( qui: Céline), può aggiungervi solo un chiarimento complementare: un carotaggio diretto a quel luogo psichico, peraltro temibile e tuttavia straordinario, dove l’essere parlante al tempo stesso perde e costruisce la propria identità. Né soggetto né oggetto, un aggetto/ abietto. Né te né me, tutti abietti, ma tu più di chiunque altro. Chi, tu? Tu-mio altro: mio Me abietto che io proietto in Te confuso con la mia abiezione, la nostra-la tua. Così intesa, l’abiezione ha una lunga vita davanti a sé: abitando le pieghe tra linguaggio e pulsione, là dove le identità vacillano, essa può tanto ordinare la creazione immaginaria quanto fomentare tutti quei confronti con l’altro dove dominano il potere dell’orrore, l’attrazione e il disgusto, l’antisemitismo e il razzismo che perdurano e che verranno. Quali rapporti dunque tra l’abiezione e il racconto di Céline?
«In principio era l’emozione... », ripete spesso, nei suoi scritti e nei suoi colloqui. A leggerlo, si ha l’impressione che in principio fosse il malessere. Il dolore come luogo del soggetto. Limite incandescente, insopportabile tra dentro e fuori, me e altro. L’essere come mal-essere. Il racconto céliniano è un racconto del dolore e dell’orrore non solo perché i “temi” ci sono, tali e quali, ma perché tutta la posizione narrativa sembra ordinata dalla necessità di attraversare l’abiezione della quale il dolore è l’aspetto intimo, e l’orrore il volto pubblico. Poiché quando l’identità narrata è insostenibile, quando la frontiera soggetto/oggetto è lacerata e anche il limite tra dentro e fuori diventa incerto, il racconto è il primo a essere interpellato. Se esso prosegue nonostante tutto, cambia fattura: la linearità si spezza, procede a scatti, per enigmi, scorciatoie, lacune, grovigli, rotture. A uno stadio ulteriore, l’identità insostenibile del narratore e dell’ambiente che si pensa lo sostenga non si narra più, ma si grida o si descrive con un’intensità stilistica massimale (linguaggio della violenza, dell’oscenità, o di una retorica che apparenta il testo alla poesia). Il racconto cede davanti a un tema-grido che, quando tende a coincidere con gli stati incandescenti di una soggettività-limite che abbiamo chiamato abiezione, è il tema- grido del dolore-dell’orrore.
In altre parole, il tema del dolore dell’orrore è la testimonianza ultima degli stati di abiezione all’interno di una rappresentazione narrativa. Volendosi spingere oltre intorno all’abiezione, non si troverebbero né racconto né tema, ma il rimaneggiamento della sintassi e del lessico: violenza della poesia, e silenzio. In tal senso c’è già tutto nel Viaggio al termine della notte : il dolore, l’orrore, la morte, il sarcasmo, l’abiezione, la paura. E quel baratro dove parla uno strano strappo tra un me e un altro: tra niente e tutto. Due estremi che cambiano peraltro posto, Bardamu e Arthur, e attribuiscono un corpo dolente a quella sintassi interminabile, quel viaggio senza fine: un racconto tra apocalisse e carnevale.
(Traduzione di Anna Maria Brogi)