domenica 12 luglio 2015

Repubblica 12.7.15
Dalla Tunisia alla Libia i conflitti incrociati che stanno bruciando il Mediterraneo
È iniziato un lungo processo. Nuove nazioni e confini, e un Iran più forte in caso di accordo sul nucleare
di Bernardo Valli

NELL’AREA del Mediterraneo traboccano i conflitti incrociati in corso nelle contrade musulmane. Avevamo l’impressione di vivere in una retrovia vulnerabile e adesso le sempre più frequenti esplosioni di terrorismo ci fanno sentire più vicini al campo di battaglia. Al dramma dei profughi si aggiungono le fiammate di guerre, guerriglie, terrorismi che lacerano il Medio Oriente, dove cambiano le frontiere, e lambiscono paesi sull’altra sponda del Mediterraneo, dove feriscono la Tunisia e travolgono la Libia. Di quei conflitti non si tracciano facilmente i contorni e non si identificano amici e nemici, perché gli schieramenti cambiano secondo i luoghi di scontro. Se non lo esamini con la lente di ingrandimento dell’esperto, e senza il rispetto dovuto a una tragedia umana, hai l’impressione che alle porte dell’Europa sia in corso una mischia micidiale. E che nell’area del Mediterraneo se ne riversino i rigurgiti.
Un atteggiamento razionale è di rigore di fronte ad avvenimenti che suscitano timori ed emozioni. In Medio Oriente è appena iniziato un lungo processo destinato a durare molto tempo. Emergono nuove nazioni; si ridisegnano i confini; si profila un Kurdistan a lungo frantumato in comunità sottomesse; si sgretolano paesi nati nelle loro forme attuali durante l’epoca coloniale, come la Siria e l’Iraq; si attende con ansia e paura nelle zone sunnite il ritorno dell’Iran sciita come potenza determinante nella regione, nel caso di un imminente accordo sul suo nucleare, e quindi la fine delle sanzioni che l’hanno a lungo mutilato; e un Iran forte crea alleanze di fatto un tempo impensabili, quella ad esempio tra l’Arabia Saudita e Israele. La preoccupazione per il terremoto geopolitico alle nostre porte influenza certamente in queste ore l’ atteggiamento verso la Grecia, dispersa con le sue isole nel Mediterraneo e frontiera indispensabile per l’ Europa. Economia a parte.
Gli avvenimenti proposti dalla cronaca quotidiana devono essere via via analizzati senza intemperanze. È probabile ad esempio che l’attentato al nostro consolato del Cairo sia stato compiuto per intimidire l’Italia, o l’Occidente in generale, come hanno affermato le prime denunce dettate dalla fretta, dalla necessità politica di reagire, ma anche dalle concrete immagini del nobile, vecchio palazzo rosso ocra sventrato che ci rappresenta da decenni in un quartiere della capitale egiziana. Basandosi invece sull’altrettanto affrettata versione, essendo l’ esplosivo usato identico a quello che il 29 giugno ha ucciso il procuratore capo egiziano Hisham Barakat, l’obiettivo del terroristi non sarebbe stata la sede consolare italiana ma un altro magistrato, Ahmed al Fuddaly, presente a quell’ora nei paraggi. È un esercizio azzardato, nell’attuale situazione mediorientale, precisare motivazioni e indicare i mandanti. Persino le rivendicazioni immediate o tardive suscitano sospetti, perché le organizzazioni terroristiche si appropriano di azioni compiute da individui o gruppi isolati. Contano i fatti.
Negli ultimi due anni , da quando il maresciallo Abdel Fatah Al Sisi ha cacciato dal potere i Fratelli musulmani, eletti al suffragio universale e poi rivelatisi incapaci di governare, gli attentati si moltiplicano in Egitto. La repressione dell’esercito ha fatto migliaia di morti e riempito le carceri. I tribunali hanno emesso pene capitali. E non è certo un caso se il procuratore capo è stato assassinato due settimane fa. Né che ieri si sia pensato che l’o- biettivo non fosse il Consolato generale, anche se non ha poi disturbato che lo fosse diventato, ma che la vera vittima designata dai terroristi fosse un giudice reperito nelle vicinanze. Un magistrato ritenuto vicino al maresciallo Sisi, eletto presidente dopo la destituzione di Morsi, esponente dei Fratelli musulmani. Quest’ultimi, prima di essere messi all’indice con un decreto, rappresentavano una confraternita con profonde radici nell’Egitto popolare. Era la sola vera concorrente della società militare che sulle sponde del Nilo ha radici altrettanto profonde. Ha le forze armate, ma controlla anche larga parte dell’economia.
In marzo ci sono stati altri attentati contro i tribunali che giudicano i Fratelli musulmani. E non sono mancate le esplosioni nei luoghi di grande turismo. A Luxor è stato colpito il tempio di Karnak. E due giorni dopo l’ assassinio del procuratore capo, ai primi di luglio, l’esercito egiziano ha subito attacchi nel Sinai. Ci sono stati almeno trenta morti. Il “califfato”, o “stato islamico”, che controlla parte della Siria e dell’ Iraq, alimenterebbe le forze ribelli nella penisola strategica tra l’ Egitto e Israele.
L’ uccisione in Libia di lavoratori egiziani di religione copta ha provocato una comprensibile reazione dell’Egitto, intervenuto mesi fa con incursioni aeree e terrestri. Là, nel vicino paese ricco di petrolio e di tribù litigiose, molti Fratelli musulmani fuori legge in patria hanno trovato rifugio e aiuto. E si sono facilmente convertiti a un Islam più radicale, più combattivo di quello praticato dalla confraternita egiziana. Il terreno era ed è favorevole agli islamisti repressi al Cairo e desiderosi di vendicare i compagni uccisi o imprigionati. Pronti quindi a praticare un jihadismo violento.
La Libia è una terra dove le antiche rivalità tribali prendono facilmente svolte violente e pretesti religiosi. Gheddafi teneva a bada il paese: è dunque stato un errore favorire la sua fine? Il colonnello libico stava già perdendo il controllo quando gli occidentali sono intervenuti in favore dei ribelli. E le prime elezioni hanno dato risultati sensati. L’ errore è consistito nel non aiutare la transizione. Di quello sbaglio, di quella grave trascuratezza, risente anche la Tunisia, confinante a Oriente con la Libia e non aiutata abbastanza dai paesi occidentali amici durante il faticoso passaggio alla democrazia. Per evitare il contagio Tunisi progetta di costruire un muro lungo tutto il confine. Pur essendo la sola nazione ad avere dato un seguito positivo alla sua “primavera araba”, si trova adesso in preda a un terrorismo che stenta a contenere. Il governo, formato da liberali e da islamisti moderati, adotta misure di sicurezza eccezionali. Centinaia di arresti, moschee integraliste chiuse, espatri proibiti ai giovani sospettati di voler raggiungere il califfato nella valle del Tigri e dell’Eufrate. Ritenuta mite, e di proverbiale saggezza, la Tunisia è il paese arabo che ha dato più jihadisti, dopo la Libia.