La Stampa 5.7.15
Il tempo delle crisi permanenti
di Marco Belpoliti
«Ah, la crisi. Ma cos’è questa crisi?», cantava nel 1933 Rodolfo De Angelis. Erano trascorsi quattro anni dal crollo di Wall Street e ne mancavano sei all’inizio della Seconda guerra mondiale. Ora di anni ne sono invece passati ottanta e la crisi è diventata uno stato permanente e duraturo dell’Occidente, e non solo.
La crisi è continua e polimorfa: crisi adolescenziale, di fede, ministeriale, politica, economica, finanziaria, psicologica, biografica, e altro ancora. È divenuta l’habitat stesso della nostra esistenza, così che ora viviamo e pensiamo nei termini di una crisi senza fine.
Ma una crisi permanente può ancora essere definita una crisi?, si è domandata Myriam Revault D’Allones, filosofa francese, autrice di un acuto saggio «La crisi senza fine». Saggio sull’esperienza moderna del tempo (ObarraO edizioni). La parola greca Krisis ha il significato di giudizio, selezione, separazione, indica il momento di decisione all’interno di un processo dall’esito incerto che permetterà una diagnosi, un pronostico, ed eventualmente l’uscita dalla crisi medesima. Termine di origine medica, poi passato in ambito giuridico, riguarda la malattia. Il verbo da cui proviene, krinein, vuol dire «passare al setaccio». La crisi è quindi il momento in cui nella malattia interviene un cambiamento improvviso e si decide la via d’uscita, buona o cattiva che sia. Ma se la crisi non è più un momento decisivo, se consiste nel fatto che non c’è più niente da decidere, possiamo ancora chiamarla crisi? Nel 1976, scrivendo un articolo intitolato «Pour une crisologie», Edgar Morin sottolineava come il significato di crisi si fosse rovesciato: indecisione. Da passaggio brusco – la crisi greca di questi giorni – è ora il luogo stesso della nostra esistenza, così che più che «struttura» appare simile a una «rete»; è la modernità liquida: le vite incerte che siamo sempre più abituati a vivere, il senso d’incompiutezza di esistenze sempre più lunghe, ma sempre più inconcluse.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, il filosofo Emmanuel Lévinas ebbe a dire che l’idea di emancipazione era priva dei suoi tradizionali riferimenti messianici. Emanciparci da cosa? Il nostro appare come un continuo movimento senza forma e senza scopo. Myriam Revault D’Allones cita una celebre frase di Rousseau tratta dell’Emilio: «Ci avviciniamo a un’età di crisi, al secolo delle rivoluzioni». Era il 1782, e stava davvero per accadere, ma oggi che ogni idea di rivoluzione, intesa come cambiamento profondo, è caduta, come pensare la crisi? La filosofa francese sottolinea come l’idea di crisi sia strettamente collegata all’idea di tempo, dal momento che è, come nel suo etimo greco, il tempo del passaggio. La logica della accelerazione ha investito la società contemporanea alterando l’idea tradizionale di tempo. Tre sono i campi in cui questo cambiamento temporale si manifesta, come ha mostrato Paul Virilio: l’accelerazione tecnica, quella dei ritmi di vita e quella dei cambiamenti sociali e culturali. Grazie alle nuove tecnologie miriamo tutti a guadagnare tempo, ma questo continua a mancarci; il progresso tecnico non ci concede più tempo per i nostri piaceri, e ci occupa massicciamente; i ritmi della vita sono diventati quasi infernali per chi vive in una moderna città occidentale, mentre la noia sembra la cosa più temuta da tutti; fare progetti a lungo termine è quasi impossibile sia per gli individui che per le stesse aziende ed entità economiche. Hartmut Rosa in un recente libro, «Accelerazione e alienazione» (Einaudi), usa una metafora davvero efficace per descrivere questa situazione di crisi permanente: siamo come scalatori su di un pendio che frana, dobbiamo andare sempre più veloci per restare sul posto. Il tempo accelerato è tutt’uno con uno stato di immobilità folgorante. La globalizzazione con le sue crisi locali continue manifesta questa schizofrenia tra il mondo totale e la sua costante frammentazione in piccole parti. Non a caso la depressione è diventato il mood delle nostre società, essendo l’effetto stesso di questa degradazione dell’esperienza del tempo. Viviamo in un eterno presente, il «presentismo» come viene chiamato, che è privo di aperture verso un futuro possibile. La crisi vera è perciò quella del tempo che trascina con sé, non solo quella economica – il debito come impegno del tempo futuro –, ma anche quella politica con l’impossibilità di pensare a lungo termine costretti alla rincorsa di continue modeste decisioni. Tutto è smart, e la crisi senza fine.