sabato 4 luglio 2015

La Stampa 4.7.15
Gli stranieri che servono anche a noi
di Gianni Riotta


Passa dai tg la lenta odissea degli emigranti nel Mediterraneo, il mare delle nostre vacanze tornato a essere lago di guerre, morte e dolore, e associamo alla figura dell’emigrato, volti smunti, occhi addolorati, vite disperate.
Sono anche loro l’emigrazione, ma se consideriamo con attenzione i flussi di umanità che attraversano il globo, scopriamo che non sono solo loro. E nel decidere le nuove politiche dell’emigrazione, se mai davvero l’Europa fosse in grado di darsene di comuni e raziocinanti al di là delle vacuità sulle quote e ringhi populisti, sarebbe ora che comprendessimo l’intero fenomeno migranti.
La Banca Mondiale calcola che oltre 250 milioni di persone vivano in un Paese in cui non sono nate, e nelle nazioni sviluppate dell’Ocse, dal 2000 a oggi, il numero degli emigranti è salito del 38%. La signora Le Pen, forse un giorno prima donna Presidente del Paese che ha concepito la triade libertà, uguaglianza, fratellanza, tutti li considera «racaille», canaglia, come ebbe a dire Nicholas Sarkozy degli algerini nati nelle banlieue. Ma non è così, ci sono tante migrazioni e tanti emigranti, e per non ricadere nel razzismo che ci accecò negli Anni Trenta dobbiamo ragionare con calma e in modo originale. Vediamo come i cervelli emigrati all’estero contribuiscono alla ricchezza della nuova patria, con le loro idee e il loro lavoro. Secondo dati del World Intellectual Property Organisation http://goo.gl/Lyt6bG tra il 2007 e il 2012, la diaspora degli scienziati e tecnologi cinesi all’estero ha registrato oltre 35.000 brevetti, i cui frutti economici e culturali vanno alla nuova nazione che li ospita. Gli indiani sono a quota 25.000, gli italiani che hanno lasciato il nostro Paese marciano verso i 10.000: brevetti, progetti, tecniche, invenzioni che nascono dalla nostra scuola pubblica, cultura e famiglie, a volte dalle nostre università, ma che arricchiscono chi ha avuto il merito di aprire i confini.
Per un ricercatore, un artista, uno chef, un informatico, un creativo, un tecnico, un Phd emigrare in Italia, ottenendo in tempi ragionevoli permesso di lavoro e soggiorno, finanziamenti e, in prospettiva, cittadinanza è Via Crucis. Spesso, dopo un periodo breve, li rimandiamo indietro, regalando il loro talento ad altri. Perfino per gli studenti delle più prestigiose università americane Ivy league trascorrere d’estate in Italia un periodo di stage richiede una lunga, kafkiana, trafila burocratica.
L’emigrazione del XXI secolo è fenomeno complesso e storico, dove povertà, cambi climatici, guerre sono fattori di partenza per tanti, ma per molti altri (tutti i giovani italiani che vanno all’estero, per esempio) è la voglia di crescere, non di sfamarsi, che fa fare le valigie. Se diciamo «emigrante» pensiamo, con preoccupazione o rancore, a un eritreo in fuga dalla dittatura, ma un brevetto su cinque registrato da uno scienziato o un tecnico britannico viene dal lavoro condotto lontano da Londra. Decine di migliaia di inglesi sono attivi all’estero, ma cosa facciamo per attrarne qualcuno da noi? Nei talk show la risposta è scontata, «Non abbiamo lavoro per i nostri e lo diamo ad altri?», come se il lavoro fosse un teatro dal numero di posti fissi, venduto l’ultimo biglietto Tutto Esaurito, e non invece una creazione viva, dove un team cosmopolita può generare migliaia di nuovi stipendi: un terzo delle aziende di Silicon Valley è stata fondata da un emigrante.
Se non attrarremo i cervelli dal mondo, perderemo i nostri, tra il 2009 e il 2013 5000 medici italiani, costati molto per la loro educazione al nostro bilancio, sono andati via. Non torneranno, l’emigrazione di qualità, conferma lo studioso Patrick Gaulé, compra il biglietto di sola andata, meno di uno scienziato cinese o indiano su cinque torna a casa http://goo.gl/k2MsYT .
Italiani ed europei discutono di come regolare la traversata biblica di milioni di esseri umani verso il nostro continente, ma dovremmo anche immaginare, con coraggio e generosità, come lanciare un’area di innovazione capace di attrarre quella che l’economista Moretti chiama «la nuova geografia del lavoro». Attraendo cervelli e talento da lontano, secondo uno dei paradossi della nuova economia che mai i populisti comprenderanno, difenderemmo i nostri cervelli e talenti, dando loro opportunità e occupazione, e incassando alla fine i dividendi dei brevetti che oggi disperdiamo lontano.