venerdì 3 luglio 2015

La Stampa 3.7.15
Ritorno in Tunisia fra rabbia e orgoglio
“Il terrorismo non vincerà”
Sulla Carthage da Genova al Nord Africa con i migranti tunisini in viaggio verso casa per le vacanze: un giorno torneremo per sempre
di Paolo Crecchi


L’Islam dal volto umano è quello di Fethi Mestaoui, un po’ pallido dopo quarant’anni vissuti sotto il cielo grigio di Bruxelles. La moglie Faouzia porta il velo «perché è tradizione», l’adolescente Fatwa «perché mi fa più carina», la piccola Farah è ancora lontana dalle suggestioni della fede e della moda. Si va a Djerba per il mare e per il sole: «L’Europa esiste davvero, se fai il tassista tra i palazzi della Ue».

La partenza
Primo week end di luglio, i migranti che ce l’hanno fatta affollano i ponti del Carthage, ventidue ore da Genova a Tunisi per andare in vacanza come gli occidentali. Il commissario di bordo Megri Moudhar ricorda i tempi dell’Habib, la nave stipata all’andata e deserta al ritorno: «C’erano pure i clandestini. E qualcuno rischiava la vita coi barconi per raggiungere la Sicilia, e poi si fermava a fare il pescatore a Mazara del Vallo».
Oggi Ali Mosdami si permette le ferie e la cabina, anche se da Nizza dove lavora come conducente di bus ha preferito imbarcarsi a Genova anziché a Marsiglia: «Con quattro figli, la traversata ci costa 1750 euro dall’Italia e 2200 dalla Francia». Ali ha casa a Sousse, «sulla spiaggia dell’attentato: e quando ci penso mi assale la rabbia, perché un vero musulmano non deve mai fare del male al prossimo. Non ci arrenderemo al terrorismo».
In viaggio l’Islam dal volto umano può interrompere il Ramadan, il Corano lo consente: «Poi recuperi i giorni di digiuno». Makki Hammouda, camionista, una fede parallela nel Borussia Dortmund: «Io non recupero, Allah capirà». Ali Dulhoumi, giovane badante che ha perso il posto a Rimini e torna a Kasserine, confine con l’Algeria infestata dai terroristi: «Fuori dal Ramadan bevo pure qualche bicchiere con gli amici. I fanatici non li sopporto. Mi aiutassero a trovare un trattore, piuttosto, che in Tunisia torno a coltivare la terra».
Ali indossa la jellaba, «l’ho comprata assieme a un tappetino per pregare», lo srotola quando il Carthage dal fumaiolo bianco e rosso attraversa il canale di Sicilia: «Lo faccio per i miei fratelli africani». Indica il mare che è una tavola blu increspata dal vento di levante, all’orizzonte si staglia un peschereccio, più vicino saltano i delfini. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
I regali per i parenti
Risa, grida, richiami di mamme, nidiate di bimbi che si tuffano in piscina. Al bar hanno imparato a fare il caffè espresso, dopo tanti anni di attracchi nei porti italiani, e la cucina araba sa essere deliziosa. Può dunque esserci un altro immaginario per i migranti in mare. Sorridente. Spensierato. Ricorda il medico di bordo, la dottoressa Siouar Triki che abbina con raffinata eleganza il velo e l’uniforme candida, come «la salute del corpo comincia sempre con la serenità dell’anima».
In garage, sui tetti delle auto vacanziere, oscillano al ritmo delle onde frigoriferi e lavastoviglie, mobili e biciclette, pentole e suppellettili da portare ai parenti: «La qualità europea è migliore». In cabina romanzi e giornali occidentali, musica e accenti anche italiani. Nora Yacoubi, per esempio. Ha 19 anni, è bellissima, sta per ultimare il liceo turistico e parla con la cadenza di Iva Zanicchi. Vive a Crema con la sorellina Mouda, primo anno allo scientifico, mamma Fatma e papà Nouredine, lei casalinga e lui muratore, tifoso milanista, appassionato di spaghetti e di cous cous: «Ma un agnello profumato come il nostro in Italia non lo avete».
La nostalgia
L’orgoglio tunisino monta col mare che gira a scirocco. Rabbia e tristezza per quello che è successo al museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse, preoccupazione per l’Europa che non ha pietà neppure per i suoi figli greci, ma qui si torna al paese con la consapevolezza dei vincitori.
L’avesse saputo, Rahdja Mathlouthi, non avrebbe pianto tutte le lacrime che aveva quando lasciò Lamarsa per andare a Nizza. Non ha imparato una parola di francese, in settant’anni di permanenza, e ora che ha superato gli ottanta delega ai rapporti sociali la figlia Fatma: «Mai ambientata, la mamma. Io così e così. Ora resta mio marito, commerciante, ma un giorno anche lui tornerà per sempre».
Lamarsa è piacevole, assicura Fatma, non fosse che «si può comprare un kalashnikov con meno di cento euro e questo non è bene. La gente dice che le armi servono per difendersi ma io non ci credo, c’è già la polizia, ci sono i soldati: che bisogno c’è»? Sui moli della Goulette il Carthage sbarca speranza e ingenuità: «Noi torniamo per vivere felici».