sabato 11 luglio 2015

La Stampa 11.7.15
Nelle vie di Barcellona per capire Picasso
Ultimi giorni a Ferrara della mostra che ripercorre i primi passi del genio ai tempi di Gaudí e del Quatre Gats
di Marco Vallora


Un consiglio: non bisognerebbe perdersela, una mostra così inusuale e ben congegnata, che per di più ha la virtù di non sprecare, invano, il nome-allodola di Picasso, che pure è il perno occulto di questa rassegna, anche spettacolare, curata da vari specialisti spagnoli (non solo d’arte: ci sono anche urbanisti e storici della politica) e tra questi, pure Maria Teresa Ocana, che ha diretto per oltre 23 anni il museo Picasso di Barcellona e che ora è responsabile del Museo di Catalogna. Intanto e non soltanto perché presenta interessantissimi pittori di transizione tra Otto e Novecento, spagnoli, molto omaggiati in patria, ma da noi ingiustamente ignorati (qualche nome? Il magnifico disegnatore Ramon Casas. Il visionario dionisiaco Anglada Camarasa. Il misterioso Joaquim Mir ed il paesaggista neo-romantico Rusinol, tutto fontane arabeggianti, che ispirarono i Giardini di Spagna di De Falla).
Non soltanto perché illumina un importante momento storico ed esemplare della Spagna, tra guerre carliste, Alfonsi XII detronizzati ed Amedei di Savoia presi in prestito, tra l’albeggiare di rivoluzioni anarcheggianti, testimonianze d’un traumatico passaggio da una società rustico-cattolica, a un urbanesimo selvaggio, soprattutto in Barcellona: «Rosa di fuoco». Rutilantemente ripensata dagli architetti cosiddetti modernisti, Gaudí in testa, che è presente in mostra con la sua rivoluzionaria maquette, a testa rivoltata, tra pesi e piombini, della struttura portante della Sagrada Familia. E con degli specchi neo-barocchi e tutte curve, che avrebbero certo ispirato un Mollino. Una società morbida, decadente, «volage» come le baudleriane dame languidamente distese e bistrate di Anglada Camarasa, sostanziate di sole piume ed aigrettes? Macché: la mostra, che pure evidenzia, spettacolarmente, assorte lettrici, sterili aristocratiche sfinite dalla lussuria del ballo, morfinomani dalla mano d’artiglio e donne perdute nel peccato, non dimenticata di mostrare anche l’altro lato d’una società, che oscilla tra Modernismo e Noucentismo, ma soprattutto tra conservatorismo bigotto, della Lliga Regionalista, e vagiti rivoluzionari del Catalanismo, repubblicano e federalista. Per finire poi con le impressionanti documentazioni-cartoline della cosiddetta «settimana tragica», del 1909, tra barricate, incendi di chiese, torture e violenze in strada. Certo, tutto ruota intorno alla versione ispanica del cabaret parigino Le Chat noir, che qui diventa El Quatre Gats, ed è un’istituzione per gli artisti che vi soggiornano, e danno la prova della loro capacità di ritrattisti e caricaturisti. Ma anche per musicisti, letterati, pensatori, primo fra tutti quel geniale Eugenio d’Ors, riscopritore di El Greco, che suggerisce il nome fantastico di questo cabaret, che non scimmiotta soltanto Parigi, ma s’abbevera del proprio folklore locale. Anche se alcuni degli artisti di casa (in testa quello scuro e nichilista Isidre Nonell, accusato di disfattismo dai critici reazionari, grafico infallibile e pioniere di quella poetica dei derelitti e dei gitani, che si sarebbe riversata nel Picasso del periodo-saltimbanchi) sono abituati ad un pendolarismo Barcellona-Parigi, per fuggire il provincialismo ispanico. Pendolarismo nevrotico, che poi il giovane, disorientato Picasso, in fuga dal severo padre pittore (qui, per distinguersi si firma, ancora, Pablo Ruiz Picasso) avrebbe emulato, nutrendosi di Toulouse-Lautrec (ed ecco il periodo blu, venoso: imbibito d’assenzio perverso) di Puvis de Chavannes, di Daumier ma anche di Nonell e di Casas. Ecco perché è importante la mostra: perché combatte i luoghi comuni d’un Picasso reuccio d’avanguardia, nato armato dal nulla, mentre invece lo vediamo qui imbibito di storia e di cultura patria, in drammatica ricerca della sua strada.