domenica 5 luglio 2015

Il Sole Domenica 5.7.15
Un patrimonio senza tempo
Il nostro debito verso Atene
di Dorella Cianci


Quando la Grecia inventò l’uomo. Un articolo di qualche tempo fa, pubblicato dalla Bbc news, Ancient Greek solution for debt crisis, di Armand d’Angour, ha elencato alcune idee per uscire dalla crisi economica greca proprio partendo dai filosofi greci antichi. Un’idea azzardata, ma efficace per guardare alla Grecia con occhi più riconoscenti, rendendoci consapevoli di come il nostro essere uomini e donne d’Europa ha dentro il Dna dei segmenti mitici derivati dalla sapienza greca, lirica innanzitutto e poi filosofica e tragica. Saranno qui accennati rapidamente alcuni temi affrontati da Simonide, Archiloco, Solone per affievolire l’idea di una poesia delle origini intesa soprattutto in senso ludico e d’occasione, com’è stato in alcuni casi per poeti più mercenari come Pindaro. La lirica è “faccenda” educativa, sociale ed est-etica (espressione coniata di recente) e non è solo una letteratura per adulti, ma anzi è adatta ai giovani e persino all’infanzia: essa racchiude una grande lezione di vita che era sfuggita persino a Cicerone, il quale disse, secondo Seneca: «Che se la vita gli fosse raddoppiata, non avrebbe il tempo per leggere i lirici. Mettici con loro i dialettici: sono sciocchi e per di più spiacevoli». I versi di cui parleremo sono poesie, ma son soprattutto canzoni, per questo il termine lirica è ben più adatto, non di certo perché i poeti usavano solo la lira, essa è stata la regina degli strumenti a corde, com’è precisato in un antico scolio di Dionisio il Trace e poi anche di Demetrio Falereo.Un poeta nasce lavorando al suono delle pernici, disse Alcmane e Cameleonte Pontico aggiunse che l’intera poesia in musica viene dagli uccelli. Ma tanto è sufficiente? I poeti greci sono stati soprattutto educatori come ricorda anche Aristofane nelle Rane: «Ai bambini il maestro fa lezione, ai giovani i poeti» e per leggere la lirica greca arcaica non occorre un “palombaro di Delo”, come affermava Socrate riferendosi a Eraclito, però si rischia di far confusione e di vedere un’unitarietà nella varietà di cantautori che parlavano un greco diverso e si differenziavano nel loro stile: Saffo è “maschia”, Anacreonte è vegliardo, Archiloco è un deciso anticonformista e questo dovrebbe emergere nelle traduzioni che qualche volta li hanno appiattiti. I poeti non sono dei maestri di felicità, su quello ci ha riflettuto la filosofia greca, ma essi sono maestri dell’incoscienza felice, per dirla poi con Pessoa, dell’idea che per esser un uomo felice ciò che conta è essere un altro. Inoltre se la filosofia greca è stata una scuola di vita in parte andrebbe anche riconsiderato il ruolo svolto dalla lirica greca arcaica, che si è ripiegata su se stessa nell’autoformazione dell’individuo, come affermò Jaeger, il quale ad esempio indicava i versi di Archiloco definendoli «filosofia di Archiloco». L’uomo, nella sua umanità, non è sempre esistito e la lirica greca l’ha “inventato”, ne ha rivelato la sua tenerezza, la smagliatura della bellezza, la crudeltà e il piacere dell’amore, il senso della politica e soprattutto, guardando alle periferie dei sentimenti umani, ha saputo slegare l’uomo dalla macchinazione divina, rendendolo protagonista di un labirinto intricato che avrebbe poi aperto la strada alla discussione sulla maieutica con se stessi e con gli altri. La lirica ha cucito un abito addosso a quegli eroi eleganti, in alcuni loro abiti materiali, ma nudi. Nei poeti greci, in particolare in quelli di lingua ionica ed eolica, si avverte forte il senso di un io, che non è solo intimismo, ma anzi bada a costruirsi una sua impalcatura sociale poiché comincia a non esser più tutelato dall’alto. L’io lirico sente la Tyche che qualcun altro sta manovrando, avverte anch’esso la presenza di un’entità superiore più profonda, ma non rinuncia alla natura e il suo agire “epico” questa volta adotta uno stile minimo svolto nella vita quotidiana, perché i campi di battaglia hanno rivelato tutta la loro vanagloria. I poeti edonistici, come in alcuni casi son stati definiti, hanno rivendicato il diritto all’individualità, che si andrà poi ad affiancare alla visione razionale della nascente sophia.
La città educante di Simonide. C’era un poeta bilingue, Simonide, il quale si era formato soprattutto nella poesia dorica dallo stile più duro, ma era provetto anche nei più languidi versi di lingua ionica, già poetica nello stile, come scrisse Giovanni di Sicilia in un suo trattato. Il suo carpe diem ad esempio ha anticipato di parecchio tempo quello ben più noto, ma qui lo si vuol menzionare per aver inventato la città educante nel notevole fr. 90 (nell’edizione West): «La città educa l’uomo». La città educante è un’invenzione greca e per noi contemporanei è diventato un concetto familiare, basti pensare al progetto mondiale che porta questo nome. Simonide probabilmente si era rifatto al proverbio greco secondo cui «l’esperienza è l’inizio della conoscenza» e l’uomo sperimenta il suo essere uomo nelle strade in cui decide di spendere la sua vita, nel migliore dei casi, oppure di farsela scivolare attraverso quelle periferie che pure “istruiscono” (fu Teognide ad affermare per primo che «la miseria forma la persona». Ma in che modo?). Plutarco scrive che la città educa solo quelli che hanno voglia di ricominciare sempre daccapo a essere istruiti, senza stanchezza, a prescindere dall’età e dalle “rottamazioni” (l’operetta di Plutarco, quasi dimenticata, s’intitola Se i vecchi devono governare).
I polpacci storti di Archiloco. L’anticonformista Archiloco così scrive: «Non amo un comandante possente o che stia imponente sui suoi polpacci diritti o vanaglorioso per i riccioli o per la barba ordinata. Ma per me sia pure uno piccoletto e coi polpacci storti, che avanzi però con piede sicuro, pieno di coraggio» (fr. 114 West). Archiloco è un Omero al contrario, uno che si sofferma sulle descrizioni per criticare. Il retore Dione di Prusa lo elogia più di Omero innalzandolo allo statuto d’immortale. Archiloco inventò un’etica del reale, per dirla con una felice espressione del grecista Bruno Gentili, e sosteneva un modello alternativo dove ciò che contava non era l’idea di corporeità, ma la contemplazione di un corpo che andava perdendo un po’ del suo kalos stereotipato. Inneggiava alla vita: «[...] Sapete? Salvai la vita. Dello scudo che m’importa? Ma che vada pure al diavolo, uno più bello me ne comprerò» (traduzione libera fr. 5 West), ma ovviamente, con questa mentalità, quando giunse a Sparta fu cacciato dalla città, racconta Plutarco. Credendo nella vita fragile aveva imparato anche a pregare, chiedendo umile a Efesto: «Sii un alleato benevolo con me e concedimi ciò che sai concedere».
L’ultimo desiderio di Solone. Un accenno lo merita Solone, lo statista poeta, il primo di Atene. Il fr. 18 West escogita un antidoto non solo contro la vecchiaia, ma anche contro il timore, tutto umano, della morte: «Ebbene sto invecchiando, ma sempre tante cose vado imparando». Un’inversione di tendenza verso la tradizionale norma greca dell’eukairia, secondo cui per ogni cosa c’è il suo tempo e il trasgredire renderebbe ridicoli. I vecchi sono paides palin (bambini di ritorno), ma essi, va precisato, hanno più necessità del sapere per poter mettere tutto dentro il sacco prima della fine visto che «ognuno pianta il suo fiore il giorno prima di morire, convinto di vederlo fiorire» (Vecchioni). Secondo lo pseudo Platone, negli Amanti, il filosofare sarebbe proprio quanto afferma Solone: imparare prima di morire. E cosa voleva imparare? Soprattutto i versi di Saffo.