Il Sole Domenica 12.7.15
Inedito di Tolstoj
Per un ritorno alla terra
di Goffredo Fofi
L’incombere della guerra, lo Stato nemico del popolo, al pari del progresso, illusorio: la soluzione è la comunità rurale. L’anima dello scrittore nel saggio ritrovato da Coaloa
Guerra e rivoluzione espone riflessioni tra le ultime di Tolstoj, è un testo del 1906, di quattro anni prima della morte del grande vecchio nella stazione di Astapovo, ritrovato e proposto al lettore italiano di oggi da Roberto Coaloa e presentato da Gian Paolo Serino. Vi si avverte tutto il peso di un’epoca che nell’Europa occidentale fu detta bella, ma che in Russia vide l’avventura disastrosa della guerra russo-giapponese e la fallita rivoluzione del 1905. Esse annunciavano per il mondo una svolta importante, il massacro fratricida della Prima guerra mondiale che Tolstoj non fece in tempo a vedere ma di cui avvertì, primo di pochi, l’incombente minaccia, l’ineluttabile precipizio. Che Tolstoj fosse radicalmente contrario alla guerra col Giappone è prevedibile ed evidente. Pur non apprezzando affatto il Mikado e tanto meno lo zar (Alessandro III, senza mezzi termini, «stupido, brutale, ignorante» e definisce Nicola II «un uomo molto ordinario, superstizioso e irrisolto», p. 21, e sono dichiarazioni di questo tipo che faranno tremare i giurati svedesi del Nobel, che si guarderanno bene dall’assegnare il loro premio a colui che per riconoscimento mondiale era il più grande scrittore vivente. Ma non è agli zar e ad altri imperatori e capi di governo che Tolstoj attribuisce direttamente le cause della guerra, ma «all’ordine delle cose che facilita le loro imprese nefaste e porta l’infelicità a milioni di uomini. Quindi il meccanismo sociale è il colpevole, e per conseguenza sono colpevoli coloro che l’hanno stabilito»; p. 19). Quanto alla fallita rivoluzione del ’5, e alle altre che potrebbero esplodere e che a suo parere senz’altro esploderanno, il suo giudizio è netto: «la rivoluzione con la violenza ha fatto il suo tempo», (p. 81). Tolstoj prevede e annuncia la rivoluzione che verrà e ne spiega le cause, che sono sociali ed economiche e prima di tutto spirituali, morali, ma non approva le strade della violenza, né accetta che a un’idea di Stato se ne sostituisca un’altra che avrebbe un peso uguale sulla vita dei singoli, e non auspica che l’economia possa seguire, anche sotto un nuovo regime, le stesse strade del progresso sino allora seguite da ogni potere, non solo in Russia.
Guerra e rivoluzione è diviso in due parti, La lezione della guerra e La fine di un mondo. Nella prima, l’intendo didascalico è prevalente, e si tratta per l’autore di spiegare un sistema di potere (con ampie citazioni da Machiavelli e soprattutto, al positivo, da Etienne de la Boétie; e checché se ne sia detto, ha amato molto meno Rousseau anche se molto ne ha appreso), cui contribuiscono in maniera decisiva la scienza e la chiesa, con la sua distorta visione del messaggio cristiano. Nella seconda, anche se è difficile distinguere le due parti perché Tolstoj torna accanitamente sugli stessi temi e si ripete sapendo di ripetersi, dovrebbe prevalere la proposta. Lo Stato è il grande nemico, e il secondo nemico è lo sviluppo industriale (e sarebbe davvero curioso rintracciare le origini tolstojane di tante posizioni dei nostri contemporanei, a cominciare da Pasolini). L’intreccio Stato/industria è la forma moderna del potere. «La causa principale, se non unica, dell’assenza della libertà è la superstizione statalista» (p. 124). «La maggioranza dei russi vede nettamente che la causa di tutti i suoi mali proviene dalla sua sottomissione ai poteri pubblici» (p. 129).
Alla base vi è però, ancora più grave e più pervasiva, un’idea del progresso che bisogna combattere. A chi gli si scaglia contro accusandolo di fare tornare gli uomini al tempo delle scimmie, risponde che le loro città, «con i loro quartieri miserabili, gli slums di Londra, di New York e degli altri grandi centri, con i loro bordelli, le loro banche, le bombe dirette contro tutti i nemici sia dall’interno che dell’esterno, carceri e patiboli, milioni di soldati; sì, è possibile rimuovere il tutto senza rimpianti» (p. 113). L’analisi del mondo moderno è in Tolstoj serrata e decisa, perché «in questi ultimi tempi l’atroce differenza tra la vita caratterizzata dai crimini e dal lusso degli uni, e quella tutta di miseria e di servitù degli altri, è diventata ancora peggiore» (p. 128).
Quale la soluzione? La risposta di Tolstoj è nota e viene insistita qui più che altrove. La soluzione è nel ritorno alla terra, nell’abbandono dell’ossessivo modello metropolitano, alla comunità rurale, al mutuo appoggio tra i poveri e tra tutti, dentro contesti limitati e solidali, in accordo con un messaggio cristiano che torni alle origini, alle indicazioni dei Vangeli abbandonando gli orpelli e le ipocrisie delle chiese istituzionalizzate. «Se il popolo cessa di obbedire al governo, spariranno presto le imposte, le spoliazioni di terreni, gli eserciti, le guerre e ogni costrizione. Tutto questo è così semplice e sembra facile! Perché dunque gli uomini non l’hanno fatto fino ad ora e non lo fanno oggi? Perché per rifiutare di obbedire alla autorità umana, bisogna farli obbedire a Dio, cioè vivere una vita buona e morale» (p. 125). Il nemico di questa soluzione è anche interno, insiste Tolstoj, è lo spirito di accettazione e sudditanza degli individui, il loro conformismo, la loro ricattabilità dal benessere e dall’illusione del quieto vivere.
Due le spinte, dunque, e le sollecitazioni all’azione: il rifiuto dell’obbedienza allo Stato, che Tolstoj considera sempre portatore di sopraffazione e manipolazione, di immoralità, e la rivoluzione interiore del singolo, con il ritorno alla piccola comunità agricola cooperativa, un ritorno alle origini su cui rifletterono i Kropotkin e i Bakunin apprezzando le sollecitazioni di fondo della proposta tolstojana ma non la loro parte religiosa, che invece era per lui prioritaria.
A far guardare con un misto di ammirazione e insofferenza da parte dei rivoluzionari del suo tempo e di dopo, è il discorso sulla violenza, è l’impostazione sostanzialmente religiosa, da cristiani delle origini, che è il punto chiave del messaggio tolstojano. Esso troverà ammiratori e seguaci in una storia diversa, che pure ha segnato il Novecento e potrebbe e dovrebbe segnare anche il nostro tempo, quella di Gandhi, di Capitini, di Martin Luther King. Quella della nonviolenza e della disobbedienza civile. Molta parte dell’analisi tolstojana è ancora convincente e incalzante, anche se forse è troppo tardi perché l’umanità possa cambiare rotta. I poteri che contano spingono in direzioni assolutamente contrarie, perfino apocalittiche. Come scrisse Romain Rolland nella sua bella biografia di Tolstoj, «egli è il tipo più alto del libero cristiano, che tende, in tutta la sua vita, a un ideale che è sempre più lontano».
Nel 1885 Tolstoj scrisse Che fare? (l’ultima edizione è di Mazzotta, 1979, con una imprevedibile e bella prefazione di Francesco Leonetti), ed è un testo da affiancare a questo e da discutere insieme.
Lev Tolstoj, Guerra e rivoluzione , Feltrinelli, Milano, pagg. 192, € 8,50 a cura di Roberto Coaloa. Coaloa ha trovato e tradotto il testo inedito, scrivendo il saggio Lev Tolstoj, Tra guerra, pace e rivoluzione. Alla scoperta del profeta di Jasnaja Poljana