Il Sole Domenica 12.7.15
Ozu Yasujir (1903-1963)
Il maestro dell’assenza
Tornano sullo schermo restaurati i capolavori del regista giapponese. Da «Viaggio a Tokyo», a «Tarda primavera» e «Fiori d’equinozio»
di Emiliano Morreale
Sulla tomba di Ozu Yasujir? , morto nel 1963, c'è l’ideogramma Mu, che in giaponese significa il nulla, l’assenza, lo svuotamento. Un simbolo efficace della progressiva purificazione dello stile di colui che è stato uno dei massimi registi della storia del cinema. Oggi in sala arrivano, grazie alla distribuzione Tucker, sei suoi film restaurati dalla casa di produzione Shochiku, per la quale Ozu lavorò tutta la vita. Sono alcuni tra i suoi titoli più noti del suo periodo d’oro. A cominciare dal più celebre, Viaggio a Tokyo (1953), che nei periodici sondaggi della critica finisce quasi sempre tra i film più belli di sempre. Gli altri sono Tarda primavera (1949), Fiori d’equinozio (1958), Tardo autunno (1960), Buon giorno (1959) e l’ultimo capolavoro, Il gusto del saké (1963).
Il cinema di Ozu è immediatamente riconoscibile nei temi e nello stile, specie nei suoi film del secondo Dopoguerra, quelli che lo consacrarono. La storia-tipo è un confronto tra generazioni: un padre finge di volersi risposare per consentire alla figlia di essere libera di trovare marito (Tarda primavera); due anziani coniugi vanno in città a trovare i figli, e si trovano davanti a delusione e amarezza (Viaggio a tokyo); un padre liberale a parole vorrebbe imporre alla figlia un matrimonio combinato (Fiori d’equinozio); dei bambini vorrebbero che il padre acquistasse un televisore (Buon giorno, il film più corale); una vedova esita a risposarsi perché deve accudire la madre (Tardo autunno); infine, nel Gusto del saké, un altro padre che vuole convincere la figlia a sposarsi.
La visione del mondo che presiede allo sguardo di Ozu, spiegano gli studiosi, è il mono no amare, un sentimento di contemplazione del carattere effimero delle vicende umane, una accettazione del fluire delle cose e del loro destino. Questa visione del mondo trova nel cinema, con Ozu, un prodigioso inveramento: quel mezzo che per i teorici offre la “redenzione della realtà fisica” o “la lingua scritta della realtà” in Ozu permette di contemplare la realtà con una intensità inaudita. È attraverso la prossimità alle cose che il cinema riesce a dare espressione a qualcosa di astratto, di filosofico eppure emozionante.
Per raggiungere questa intensità soave, Ozu mette a punto negli anni uno stile riconoscibile alla prima inquadratura. La macchina da presa bassa, ad altezza di bambino o di persona seduta a terra. I dialoghi girati non secondo il campo-controcampo classico, ma con i personaggi che guardano quasi in macchina. L’inquadratura stessa è suddivisa in una serie di sotto-inquadrature equilibratissime, con i tatami, gli oggetti, le pareti di carta di riso che compongono quadrati e rettangoli: mai claustrofobici, però, anzi con un aspetto di quiete. Infine, a ritmare il fluire del tempo, Ozu inserisce spesso immagini di luoghi urbani o naturali, inquadrature senza personaggi, dalla funzione quasi musicale.
Si è spesso detto che Ozu era il più giapponese dei registi giaponesi, laddove Kurosawa era il più “occidentale”. Il che è certo vero, ma va precisato che il suo cinema nasce proprio dal conflitto, sotterraneo, con nuovi modelli di vita che si diffondevano già prima della guerra mondiale. Il cinema così meditativo di Ozu ha bisogno del tacito polo di una modernità incombente. Inoltre il suo stile, ai tempi del muto, si era formato alla scuola del grande cinema slapstick americano, da Harold Lloyd a Ernst Lubitsch. I suoi primi film sono comici, lui si afferma come gagman e un tocco di commedia rimarrà in molti titoli successivi. I poster di film hollywoodiani capeggiano già nei suoi film degli anni Trenta (commedie giovaniliste o film di gangster), e addirittura Viaggio a Tokyo è il remake di Cupo tramonto di Leo McCarey, che Ozu pare non avesse nemmeno visto. Gli scontri tra generazioni raccontano un mondo un attimo prima del cambiamento, come un ideale prodromo a un conflitto che viene narrato negli anni delle nouvelle vague, con toni espliciti e violenti, da registi come Oshima Nagisa. E, va aggiunto, questo cinema così legato a una visione del mondo tipica della cultura giapponese, farà scuola nelle maniere più diverse, nei decenni successivi, nel cinema di tutto il mondo. A parte l’omaggio esplicito di Wim Wenders in Tokyo Ga (1985), Ozu è stato un maestro per Paul Schrader, sceneggiatore di Taxi Driver e regista di American Gigolo e Mishima, che gli dedicò un importante saggio. E, tra America ed Europa, il suo stile ha influenzato in maniera più o meno esplicita una intera maniera di raffigurare il Giappone, e ha offerto un modello di stile per avvicinarsi alla rappresentazione del mondo, che abbatte la distinzione tra sacro e profano.