mercoledì 8 luglio 2015

Corriere 8.7.15
L’Europa ha bisogno di un cuore
di Barbara Stefanelli


Nei giorni delle banche chiuse e delle dirette tv dalla disperazione, dei vertici d’emergenza e delle dispute accademiche sul grado di sovranità, un ventinovenne britannico di nome Thom Feeney ha avviato una campagna di crowdfunding — una raccolta di denaro via Internet — «a sostegno del popolo greco». In poche ore, sono arrivate sulla piattaforma digitale di Indiegogo migliaia di donazioni da 170 Paesi per un totale di due milioni di euro. I più generosi sono stati i tedeschi, poi gli inglesi e gli austriaci. Una grande piazza virtuale ha così accompagnato le piazze di Atene, percorse da tanti stranieri — quasi tutti europei — determinati a mostrare solidarietà durante quello che non viene vissuto come un dramma chiuso nei confini nazionali.
Ora dimentichiamo gli schieramenti per il Sì o per il No. Sospendiamo anche l’analisi delle colpe gravi e degli errori tattici. E chiediamoci: come è possibile che questo movimento verso i greci stia avvenendo proprio mentre la Grecia rischia di essere il primo Paese che viene accompagnato — o si fa accompagnare — alla porta dell’Unione, interrompendo un processo di inclusioni che continua dalla seconda metà del Novecento? Le varie forme di partecipazione — i viaggi del turismo politico, le donazioni d’istinto, le conversazioni ossessive sul caso greco & noi — sono la prova che un senso di appartenenza (non solo obbligato) è cresciuto tra quelli che ormai fatichiamo a chiamare «i popoli», categoria abbandonata in mezzo ai rovi del populismo, appunto, in nome di vincoli superiori. Appartenenza a un continente, a una democrazia, a una cultura.
Quando nel 1981 la stessa Grecia entrò nella casa comunitaria, l’Europa rappresentava un sogno di stabilità, di diritti, di non paura dopo gli anni della guerra civile e della dittatura: non era solo questione di economie, era un modello al quale guardare per un futuro di prosperità che avrebbe unito Sud e Nord, Est e Ovest in una sintesi innovativa.
A un certo punto, la costruzione di un senso europeo e il racconto di quella costruzione si sono interrotti. E allora — mentre studiamo soluzioni urgenti al default greco, mentre riflettiamo sulla necessaria convergenza strutturale delle economie in zona euro — dovremmo anche chiederci perché non esista oggi un’ intellighenzia capace di una visione che non sia solo vincolo e costrizione, capace di contaminare positivamente l’immaginazione degli europei e legittimare dal basso il consenso. Oltre i politici, accanto agli economisti, è difficile rintracciare un fronte robusto e attivo di pensatori che sappiano rovesciare il contagio del risentimento. E rianimare un sentimento europeista. Quando evochiamo le ragioni del nostro stare e restare insieme, ricorriamo fatalmente al ricordo di padri della patria straordinari quanto lontani, tiriamo fuori vecchie fotografie di leader che si tenevano per mano davanti a un’idea coraggiosa e che sono quasi tutti scomparsi. In tempi di crescita abbiamo commesso l’errore strategico di non coltivare quella cultura e quei progetti che ci avrebbero avvicinato, non abbiamo dato struttura a uno slancio che sembrava scontato e per sempre: l’intuizione di un continente forte della sua varietà e sensibile alle singole storie se ne è stata a galleggiare silenziosa tra gli Stati.
Adesso che i tempi sono cambiati e ci troviamo prigionieri di particolarismi trascinati dalla crisi, ridare fiato a quell’ambizione unitaria è molto complicato, a tratti pare impossibile. Ma il problema si è posto e sta in mezzo a tutti. Non è solo Grexit, non sarà neppure solo Brexit. E non basteranno gli appelli alla generazione Erasmus che ha condiviso studi, appartamenti e amicizie oltre confine. Al contrario, dovremmo meditare sulla coincidenza tra alcune forme radicali di euroscetticismo e i più giovani, che magari hanno sì in testa altre terre ma raramente la loro.
La verità è che la fiducia dei cittadini europei va riconquistata, anzi: va «acquistata» con misure che incidano là dove maggiore è l’inquietudine. In attesa di riaprire i Trattati, quando la temperatura continentale sarà scesa, a fare la differenza potrebbero essere interventi coraggiosi sulle migrazioni o sul lavoro. Uno schema Ue di sussidi di disoccupazione, per esempio, che mostri dove sta la solidarietà — non solo ideale. Troppo a lungo gli investimenti, i finanziamenti, i piani europei sono rimasti opachi: non sono stati raccontati e spiegati, liberando il campo alle invettive e alle proteste. In un’epoca di grandi narrazioni su tutto, la comunicazione da Bruxelles dovrà contribuire a quel rovesciamento del contagio negativo: servono parole sorprendenti, oltre le formule fredde e le burocrazie di comodo che hanno fatto battere in grigio il cuore comune.
Feeney, l’uomo del crowdfunding , ha calcolato che se ogni cittadino dell’Unione depositasse 3,19 euro nel salvadanaio digitale si arriverebbe a 1 miliardo e 600 milioni, quanto Atene deve al Fmi. In fondo è poco più di quel 3,14 — il misterioso Pi greco — che serve a misurare il cerchio: la figura geometrica simbolo di unione e inclusione .