Corriere 16.7.15
Ora proviamo a dare un ruolo (e un’anima) al nuovo Senato
di Michele Ainis
La madre di tutte le riforme (quella costituzionale) è incinta da trent’anni. Nel frattempo il nascituro si è ritrovato orfano dei suoi molti papà, da Craxi a De Mita, da Berlusconi a Letta. Gli rimane l’ultimo, il più determinato. Matteo Renzi, quando promette, fa: divorzio breve, Italicum, Province, banche popolari, Jobs act, scuola. Anche a costo d’usare le maniere spicce (maxiemendamento e voto di fiducia). Ma in questo caso no, non è possibile. Se vuoi cambiare la Costituzione, per vincere devi convincere. Da qui il rinvio a settembre del voto finale, benché il premier l’avesse annunziato entro il 10 giugno.
Poco male, tanto ormai siamo pazienti come Giobbe. Purché in sala parto non sbuchi fuori un rospo, anziché un bel principino.
Quanto al nuovo Senato, più che un rischio è una certezza. Nessuno ha ancora capito che diavolo dovrebbe fare, e come, e perché. Sappiamo soltanto che sarà composto da 5 senatori a vita, 22 sindaci, 73 consiglieri regionali. Tutti a costo zero, e con funzioni zero. Sarebbe il caso di rifletterci, spendendo al meglio questo tempo supplementare che si è concessa la politica. Invece lorsignori s’avvitano in estenuanti discussioni sull’elettività dei senatori. Errore: partiamo dalle competenze, non dalle appartenenze. Cerchiamo di recuperare qualche contrappeso, avendo rinunziato al superpeso del bicameralismo paritario. E trasformiamo Palazzo Madama — istituzione in croce — nel crocevia delle nostre istituzioni.
Qualcosa nel testo di riforma c’è, però i silenzi contano più delle parole. C’è una funzione di raccordo del Senato con i territori: da un lato le Regioni, dall’altro l’Europa. Basterà a restituire un’anima alla nuova creatura? Diciamo che basta per la geografia, non per la storia. E la nostra storia è innervata dal ruolo degli enti locali, più di recente dal rapporto con l’Unione Europea. Ma è innervata — anche e soprattutto — dai contributi dell’associazionismo, delle categorie produttive, delle rappresentanze d’interessi. Non a caso l’articolo 2 della Costituzione individua nelle «formazioni sociali» la sede in cui ciascuno può arricchire la propria personalità. E non a caso i costituenti disegnarono il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, aprendolo al mondo della produzione e delle imprese. Con la riforma il Cnel tira le cuoia, pace all’anima sua. Alla prova dei fatti, non lo rimpiangeremo. Ma non possiamo lasciare i gruppi organizzati orfani di qualsivoglia rapporto con lo Stato. Serve un canale istituzionale: quale, se non proprio il Senato?
E c’è poi il capitolo delle garanzie. Domani come ieri, il Senato contribuirà ad eleggere il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Consiglio superiore della magistratura. Però adesso i senatori sono la metà dei deputati; in futuro diventeranno un sesto (100 contro 630). Ergo, i garanti indosseranno un abito politico, in quanto espressi dalla Camera politica, a sua volta espressa con un premio in seggi per il maggior partito. E no, non va bene. C’è bisogno di rafforzare gli organi di garanzia, non d’indebolirli. Tanto più mentre perdiamo la garanzia fin qui rappresentata dal Senato: quante leggi ad personam avrebbe incassato Berlusconi, senza il pollice verso di Palazzo Madama?
Da ciò l’esigenza di correggere il testo di riforma, d’aggiungervi qualche riga d’inchiostro. Per esempio introducendo uno scrutinio rigoroso della seconda Camera nella scelta delle authority , i nuovi garanti. O sviluppando i poteri d’inchiesta del Senato, che viceversa la riforma circoscrive al funzionamento delle autonomie territoriali. Non si tratta di tenere impegnati i senatori, che altrimenti avrebbero ben poco da fare. Si tratta di salvaguardare gli equilibri della democrazia. Dopo di che, certo: ogni funzione richiede un funzionario. E l’elezione di secondo grado non funziona, non assicura la qualità dei senatori.
Ma non è detto che l’alternativa sia soltanto la loro elezione popolare. Potrebbe essere efficace un mix, pescandone un drappello da alcune categorie qualificate, come gli ex presidenti della Consulta. Quando il Senato tratta questioni regionali, potrebbe essere utile integrarlo con i governatori, come propone il documento sottoscritto dalla minoranza del Pd. Insomma pensiamoci, d’altronde alle nostre latitudini la fantasia non manca. È il tempo che ci manca, ne abbiamo sprecato troppo.