giovedì 16 luglio 2015

Corriere 16.7.15
Così Orfini è finito nell’angolo stretto tra il sindaco e il premier
Resta poco tempo per decidere con il Giubileo in arrivo
intervista di Fabrizio Roncone


La politica è anche perfidia (oltreché «sangue e merda», come disse definitivo Rino Formica, socialista di un’altra epoca e di un’altra categoria).
Nella sede del Pd, dentro il vecchio Collegio Nazareno, uno gli fa: «Matté, è vero che diventi vicesindaco?».
Matteo Orfini si volta piano, mettendo su quella smorfia — un miscuglio di ironia e fastidio — che gli avrete visto in tivù nei giorni terribili di Mafia Capitale, quando sotto i colpi portati dal primo faldone dell’inchiesta il partito romano veniva giù in un fumo di polvere e macerie e a lui, come commissario straordinario, toccò il compito di andarlo a difendere (secondo il giudizio di numerosi osservatori, fece bene il suo lavoro: dimostrando lucidità, coraggio, forza dialettica).
Comunque no, non farà il vicesindaco di Ignazio Marino.
Escluso.
Degradato sul campo, lui che è deputato e presidente dei democratici.
No, troppo.
Certo il problema — un problemone, va — resta: aveva promesso a Matteo Renzi di gestire e magari risolvere il grosso guaio del Campidoglio e invece la scena rimane tremenda, incontrollabile, con la giunta che continua a perdere assessori (per dimissioni o per manette), il sindaco che perde consenso ogni ora che passa e adesso sembra essere un’impresa pure trovare il sostituto del suo vice, Luigi Nieri, che ha tolto il disturbo martedì sera.
Matteo Orfini sa che l’altro Matteo è deluso e preoccupato. Quindi, nervoso. Molto nervoso.
Perché Renzi aveva già individuato la soluzione. Nel suo stile. Veloce, istintivo, netto. Dopo essere rimasto in silenzio per mesi, la sera del 16 giugno scorso andò a sedersi nel salotto di Bruno Vespa. Una frase e mezza: «Se Marino non è capace, vada a casa».
Lo dice il premier-segretario, dovrebbe bastare. E invece non basta né a Ignazio Marino (chi ne conosce i sentieri testardi del carattere, gli scarti emotivi, non si stupisce) né a lui, Orfini.
Anzi: secondo alcune ricostruzioni Orfini addirittura affronta Renzi con dosi di risentimento — tipo: io ci metto la faccia, non puoi umiliarmi, ti ho detto che risolverò la questione e devi darmi fiducia — e la cosa sorprendente è che Renzi incassa, gli riaffida la pratica, decide di vedere di cosa è capace.
Ecco, appunto.
Orfini ha 40 anni, ma ha cominciato subito, da ragazzo: frequenta il liceo Mamiani di Roma quando Botteghe oscure non è un supermercato ma ancora la leggendaria sede del Pci, per quattro anni è il segretario della sezione Ds di piazza Mazzini, avrebbe anche una certa passione per l’archeologia ma poi, un pomeriggio, in sezione si presenta Massimo D’Alema (che ancora abita lì, a due passi, mentre Orfini s’è trasferito con la compagna al Tufello, in periferia).
Di D’Alema diventa assistente, poi portavoce. Prima di litigarci furiosamente e sedersi da solo, subito stimato e autorevole, sullo scranno di Montecitorio, gli ruba la camminata («Anche se io le scarpe le compro da Decathlon») e una certa, forte cultura politica. Quella che gli fa credere di poter bonificare la palude del Pd romano come insegnavano alle Frattocchie, dove studiavano i quadri del Pci.
Con metodo e rigore, determinazione e passione.
Affida a un economista come Fabrizio Barca una severa indagine sui circoli. Parla una volta al giorno con Marino (l’ultima volta, ieri pomeriggio, dal vivo). E poi incontra magistrati, ascolta, intuisce. Va alla Festa dell’Unità e scalda la platea: «Renzi, su Marino, ha sbagliato. Invece di liquidare il problema Roma con una battuta, dovrebbe aiutarci». Rilascia interviste dure: «Nel partito abbiamo usato la ruspa».
Però non funziona.
Lo sa lui, lo sa Renzi.
Gliel’hanno detto: «Guarda, Orfini, che ormai abbiamo poco tempo. La città è candidata alle Olimpiadi, tra qualche mese inizierà il Giubileo straordinario e a questo punto non possiamo nemmeno più rischiare di andare al voto a giugno. Nei sondaggi siamo bassissimi, al Campidoglio può finirci un grillino qualsiasi».
Un guaio.
Senza nemmeno poter fare una telefonata a Massimo.