sabato 11 luglio 2015

Corriere 11.7.15
Il capitalismo alla pechinese: la Borsa funziona solo se cresce
sulla Borsa cinese La rete di Stato
Le contraddizioni del capitalismo alla pechinese: il mercato va bene finché cresce Il peso abnorme dei gruppi pubblici
di Francesco Daveri e Francesco Giavazzi


Quando nell’ultimo mese la Borsa di Shanghai è crollata del 30 per cento, dopo un rialzo del 150 per cento dei dodici mesi precedenti, il governo cinese ha chiesto l’intervento di Xiao Gang, il capo della Consob cinese. È il capitalismo alla pechinese: va bene il mercato fino a che il segno è positivo. Se invece il mercato porta con sé il segno meno (nell’economia, come in Borsa), le cose cambiano.
In Cina c’è un signore, sconosciuto alla più parte degli occidentali, che in questi giorni di grande instabilità sui mercati sta salvando il suo posto di lavoro e — forse — anche il suo paese. Il suo nome è Xiao Gang ed è il capo della China Securities Regulatory Commission, la Consob cinese. Da noi il presidente dell’autorità che regola i mercati finanziari è il garante della trasparenza delle informazioni a delle transazioni in Borsa. Il suo compito finisce lì. In Cina il compito del regolatore è più difficile perché da lui il governo si aspetta che garantisca il rapido sviluppo del mercato dei capitali: cioè vuole risultati, non il rispetto delle regole.
È a Xiao Gang che il governo cinese ha guardato quando nell’ultimo mese la borsa di Shanghai è crollata del 30 per cento. Un crollo che peraltro va considerato alla luce del rialzo del 150 per cento dei dodici mesi precedenti. Che ha fatto Xiao Gang per non perdere il posto? Ha sospeso dalla quotazione più di metà delle società del listino (in gran parte imprese di Stato) e ha vietato ai detentori di importanti pacchetti azionari di vendere i titoli in loro possesso almeno per sei mesi. Ha poi chiesto e ottenuto dalla banca centrale cinese il rifinanziamento della società (di proprietà dell’autorità da lui presieduta) che fornisce liquidità alle aziende che fanno margin trading (la pratica rischiosa di comprare azioni a debito). Una specie di Quantitative Easing super-focalizzato ad aiutare i soggetti che sul mercato hanno più acuto bisogno di liquidità per non andare in bancarotta. E infine, come riportato dal Wall Street Journal , ad accrescere l’efficacia delle misure messe in campo, sui social media sono iniziate a circolare notizie sul fatto che la polizia cinese aveva acceso i fari sulla pratica delle vendite allo scoperto. A buon intenditor poche parole: gli operatori che negli ultimi giorni avevano fatto profitti vendendo e quindi uscendo dal mercato hanno capito che bisognava ricominciare rapidamente a comprare per non entrare nella lista nera degli speculatori.
È il capitalismo alla pechinese: va bene il mercato fino a che il segno è più. Se invece il mercato porta con sé il segno meno (nell’economia, come in borsa), le cose cambiano. Dopo aver auspicato l’arricchimento individuale fin dai tempi di Deng Xiaoping, il governo cinese non può permettersi che la libertà economica si disgiunga dall’arricchimento. Nel 2008-09, dopo il fallimento di Lehman, il governo cinese iniettò in pochi giorni l’equivalente di 586 miliardi di dollari in nuove infrastrutture, salvataggi e altri aiuti pubblici all’economia, e soprattutto indusse le aziende di Stato a indebitarsi. Negli ultimi anni, per far fronte a quei debiti le ha indotte a quotarsi in borsa (senza però che lo Stato ne perdesse il controllo). Una strategia che per funzionare ha bisogno di una borsa che cresca ed attragga risparmio privato. Quando la borsa ha cambiato segno, mercato e regole sono stati messi rapidamente da parte. Ritorna il dirigismo protezionista che almeno nel brevissimo termine ha però funzionato: i divieti e le minacce degli ultimi giorni hanno prodotto un artificioso ma istantaneo rimbalzo vicino al 15 per cento. Solo il tempo mostrerà se i divieti sono compatibili con la prosecuzione di una crescita normale dell’economia (più bassa che in passato e più centrata sullo sviluppo dei consumi e del mercato interno) e con lo sviluppo di veri mercati dei capitali in Cina.
Dietro ciò che accade sul mercato è in atto però una battaglia di più lungo respiro. Oggi le imprese di Stato soffocano il mercato finanziario cinese. Rappresentano circa il 30 per cento del pil, ma oltre il 70 per cento dei prestiti delle banche. Ai privati rimangono le briciole e un costo del denaro che raggiunge anche il 30 per cento. Riequilibrare i flussi di credito facendo sì che una quota maggiore vada alle imprese private, di gran lunga più efficienti di quelle di Stato, è una delle condizioni, forse la più importante, per rimettere la Cina su un sentiero di crescita sostenibile. Non sarebbe da stupirsi se il risultato delle attuali difficoltà delle imprese di Stato — che con una borsa in discesa fanno più fatica a sostituire debiti con capitale — fosse l’occasione che il presidente Xi Jinping aspettava per ridurre il loro peso politico prima ancora che economico. Insomma anziché una fonte di instabilità lo scoppio della bolla azionaria cinese potrebbe essere l’occasione per una «pulizia» del mercato finanziario, propedeutica ad una ripresa della crescita .