martedì 2 giugno 2015

Repubblica 2.6.15
La sinistra sfida il premier “Sulla scuola cambi rotta o andremo allo scontro”
Spunta l’idea del ribaltone
E c’è chi pensa a Delrio o Orlando per Palazzo Chigi
Speranza: “È una riforma che ci ha tolto moltissimi voti”
di Goffredo De Marchis


ROMA Un ultimatum sulla scuola. «Quella riforma ci ha fatto un male terribile. Ha massacrato il nostro mondo, quello cattolico e di sinistra, ci ha tolto un sacco di voti», dice Roberto Speranza. Dunque, Renzi deve «cambiare linea. Non solo nel Pd. Anche al governo». Lo dicono i numeri delle elezioni, i dati in termini assoluti. «Prima usava il 40 per cento delle Europee come una clava contro di noi. E adesso? Se continua a farlo scherza col fuoco», avverte il bersaniano Miguel Gotor. Come dire: quell’arma è spuntata, la minoranza, al momento dello scontro, non perderà pezzi com’è successo sul Jobs Act e sulla legge elettorale. Il Partito della Nazione, agli occhi della minoranza, è morto e sepolto, ucciso dagli elettori, dalla ripresa della destra e dall’astensione. «Non voteremo più alcune cose», annuncia Alfredo D’Attorre. Ma quale sarà la «botta» evocata da Massimo D’Alema qualche mese fa?
I dissidenti escludono una caduta del governo per andare a votare. Sarebbe effettivamente il modo per cancellare l’Italicum e fermare definitivamente la riforma del Senato. «Escluderei che Renzi faccia delle correzioni, non è nella sua natura — spiega Maurizio Migliavacca, storico braccio destro di Pier Luigi Bersani —. Ma un ragionamento sul voto va fatto, a partire dalla scuola. E se Matteo non ci ascolta prepareremo la sfida dentro al Pd». Una sfida che ha tempi variabili, comunque non brevissimi. Diventerebbe invece più rapido uno show down che passando dai numeri delle regionali, arrivasse al ribaltone a Palazzo Chigi. Senza il transito dalle urne. Da qualche giorno, negli ambienti della minoranza, si parla di possibili sostituti in corsa per la poltrona di presidente del Consiglio. E i nomi messi in campo fanno pensare a un piano progettato con qualche cognizione di causa.
È stato evocato, in quegli ambienti, Graziano Delrio. Cattolico, renziano della prima ora ma renziano dal volto umano. Per questo fuori dal giglio magico e dopo un anno alla presidenza del Consiglio come sottosegretario chiamato a fare il ministro delle Infrastrutture. Lontano da Palazzo Chigi. L’altro candidato è stato individuato nell’area ex Ds ma con un ruolo di primissimo piano nell’attuale governo: è Andrea Orlando, ministro della Giustizia. Una figura istituzionale, l’unico ad avere un incarico riconosciuto nella Costituzione. E nel Dna Orlando ha la tendenza ad ascoltare tutti, a cercare la soluzione più praticabile coinvolgendo il maggior numero di persone. Proprio ciò che Renzi vede alla stregua di una debolezza profonda. E che invece i dissidenti giudicano una grande virtù. Quella del ribaltone è un’impresa davvero acrobatica, ma non può essere esclusa dal momento che le barricate della sinistra possono contare sul mattone del brutto risultato elettorale e sulla fine della suggestione di invincibilità del premier.
La pesante emorragia di voti delle regionali, la sconfitta simbolica in Liguria, secondo la sinistra Pd, cambia il quadro. Fingendo di non vedere il pessimo esito degli esperimenti al di fuori dei dem, con l’eccezione di Pastorino in Liguria, la minoranza giudica fallito il sogno renziano. «Il Pd perde una valanga di voti a sinistra che vanno all’astensione e in parte a Grillo. E non prende più voti a destra. Non è un affare di Stato ma bisogna fare le cose normali: capire, discuterne e agire», suggerisce Migliavacca.
Se è vero che Renzi è a un bivio nel rapporto con i ribelli, lo stesso vale per la minoranza che sopravvaluta l’indebolimento renziano. Nelle aule parlamentari, però, i numeri sono in bilico e la sinistra riprende fiato. Si può rompere il solito schema per cui 30 senatori firmano un documento contro una legge del governo e poi, nel voto, al momento della verità, si riducono a 8-10. La forza attrattiva del premier esce incrinata dalle regionali. Ma far precipitare il Paese al voto è un rischio per tutti, anche se il Consultellum ovvero il sistema proporzionale, fa gola a tanti. «Perché succeda bisognerebbe accoltellare Renzi e io non voglio farlo», dice Gianni Cuperlo. Dopo di che, continua l’ex presidente, «se fossimo in un film americano la battuta sarebbe “Houston abbiamo un problema”. Un pezzo dell’elettorato della sinistra ha voluto esprimere una forma di dissenso verso scelte compiute nei mesi recenti». Quindi, «lo schema tanto ci votano a prescindere come direbbe Totò, esce pesantemente ridimensionato».
Pippo Civati invece vede aprirsi una porta per il suo esperimento a sinistra del Pd. «Siamo arrivati quasi al 10% — prendendo in termini assoluti metà dei voti che prende il Pd — senza un simbolo nazionale, senza felpe. Podemos la prima volta prese l’8». Lancerà subito il suo movimento “Possibile”. «Renzi svende la ditta ma fa peggio di Bersani consegnando la ditta agli alieni». La partita è appena cominciata. Rosy Bindi pone anche un problema di convivenza: «Mi aspetto che il Pd mi chieda scusa per la vicenda degli imprensentabili», dice la presidente della commissione Antimafia.