venerdì 26 giugno 2015

Repubblica 26.6.15
La norma non è pensata per frenare chi indaga ma scatena tentazioni antidemocratiche
I nuovi demagoghi che cavalcano l’odio delle divise in piazza
di Carlo Bonini


C’ è qualcosa di antico e di osceno nelle piazze che, ieri pomeriggio, a Roma, Milano, Palermo, il secondo sindacato di Polizia, il Sap, ha riempito di agenti per contrabbandare l’imminente primo voto parlamentare sull’introduzione del reato di tortura, come «una vendetta contro le forze dell’ordine». E nelle parole con cui Matteo Salvini le ha cavalcate ed eccitate.
In una sgangherata e ideologica operazione di manipolazione, il faticoso compromesso raggiunto dalla maggioranza di governo al Senato nel definire una norma che metta il nostro Paese all’onore del mondo con appena 26 anni di ritardo (dal ’90 l’Italia non ha dato seguito alla ratifica al la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite che bandiva la tortura dichiarandolo crimine contro l’umanità) diventa occasione per una passerella di odio e paura un tanto al chilo. Dismessa la “felpa” identitaria, Salvini si insacca nel fratino fosforescente dei poliziotti che manifestano ed entusiasti scattano selfie, dimenticando di chiedergli se il partito di cui è segretario, la Lega, non sia lo stesso che, tra il 2009 e il 2011 (governo Berlusconi), tagliò per 3 miliardi e mezzo di euro il bilancio delle Forze dell’Ordine. E se la Lega non sia lo stesso partito che, nel 2009, ridusse il turn-over del personale al 20 per cento e, un anno dopo, bloccò i fondi per adeguare i “tetti salariali” (quelli che consentono di adeguare le retribuzioni agli scatti di grado e alle indennità di servizio).
Del resto, nel Paese dalla memoria cortissima, la coerenza è un dettaglio. E nel suo stantio menù della paura, che, senza pudore, recita anche l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, la sbobba “sott’odio” (per parafrasare Leo Longanesi) servita da Salvini è sempre la stessa. Migranti, Polizia, Rom, Antagonisti, Euro. E identico ne è il sapore. Perché Salvini parla di cose che non conosce o che manipola. Diverso è il discorso per le migliaia di poliziotti cui ha fatto ieri da mosca cocchiera.
Gli agenti che hanno sfilato a Roma, Palermo, Milano, sanno infatti perfettamente che la norma faticosamente scritta e riscritta al Senato, accogliendo le preoccupazioni sollevate da ultimo anche dal capo della Polizia, Alessandro Pansa, definisce la tortura non come reato “proprio” del pubblico ufficiale. Non è dunque norma pensata per colpire la polizia, ma la tortura, chiunque ne sia autore. Ed è norma dove la qualità del pubblico ufficiale diventa piuttosto un’aggravante, come è logico che sia. Quantomeno in una democrazia degna di chiamarsi tale. Dove il monopolio della forza riconosciuto allo Stato (e dunque alle Forze dell’ordine che ne sono Istituzione) è legittimo solo e soltanto se utilizzato nel perimetro delle garanzie dell’habeas corpus, principio di intangibilità del corpo e della sfera delle libertà individuali – civili, ed ebbene si, persino psicologiche - riconosciuto già nella Magna Charta, anno di grazia 1215.
La pessima notizia non è dunque Salvini. Ma il segnale che arriva da quelle piazze. Ennesima prova, ammesso ce ne fosse bisogno, di cosa si agiti, ormai da tempo, nella pancia della Polizia di Stato. Che è e resta un corpo democratico ( ed è grottesco e insieme preoccupante l’obbligo pavloviano che si avverte nel doverlo ogni volta ripetere). Ma che, a 35 anni dalla riforma che lo smilitarizzò, è con ogni evidenza sempre più privo di un sistema immunitario capace di renderlo impermeabile ai rigurgiti della peggiore demagogia di destra, alle tentazioni politicamente eversive di mettere in mora ieri un tribunale della Repubblica, oggi una Corte internazionale di Giustizia, un Parlamento, una Convenzione delle Nazioni Unite. Come se un pezzo della Polizia, improvvisamente inconsapevole della propria funzione, invocasse un principio di eccezione rispetto alla legge con i modi di una delle mille esasperate corporazioni del Paese. Non a caso, con i suoi 18mila iscritti, il Sap, sindacato di centro-destra che ha riempito ieri le piazze, è lo stesso che, un anno fa, durante il suo congresso, tributò 5 minuti di standing ovation agli agenti riconosciuti colpevoli dell’omicidio di Federico Aldrovandi, un innocente. Il suo segretario, Gianni Tonelli, è lo stesso che dopo la lettura della sentenza che mandò assolti tutti gli imputati per la morte dell’innocente Stefano Cucchi, non trovò altre parole che queste: «Se disprezzi la tua salute ne paghi le conseguenze».
Il Sap non è un fungo. Altre sigle, come il Coisp, da tempo lo inseguono sullo stesso terreno di rancore, frustrazione, rabbia per chiunque si eserciti nell’ordinaria manutenzione di una democrazia e nella difesa dei suoi diritti fondamentali.
La madre di Federico Aldrovandi, Patrizia; le sorelle di Stefano Cucchi e Giuseppe Uva, Ilaria e Lucia; la figlia di Michele Ferulli, Domenica