giovedì 25 giugno 2015

Repubblica 25.6.15
Una vita trans il bambino diventato Antonia
Dopo l’operazione non ho cambiato la mia posizione all’ anagrafe: ho sposato Roberta perché non perdesse i diritti
di Carlo Verdelli


ERA piccola, anzi piccolo, 7 anni, quando un cugino più grande avvertì sua madre: tuo figlio sculetta e gioca a bambole. Andarono da un medico di Bisceglie, dove abitavano, che consigliò una visita in manicomio. È uno dei suoi primi ricordi, cominciavano gli elettrizzanti anni Ottanta: «Mi misero una specie di retina in testa, con dei fili che pendevano. Poi il dottore spiegò: il problema c’è, o facciamo il lavaggio del cervello con l’elettroshock oppure una lobotomia per togliere la parte malata ». Chiude un attimo gli occhi, un ombretto sfumato sulle palpebre. «Se oggi sono seduta dietro questa scrivania, è perché quel giorno mia madre Rosa disse no». Dietro la scrivania di un centro milanese anti Aids e altre emergenze, c’è una signora ben curata. Racconta di cose atroci che le sono capitate senza una lacrima né un tremore nella voce, che è rimasta quella di un uomo, insieme ai denti forti, a dispetto di tutto il resto. Ha solo 42 anni ma è come se avesse già sperimentato più vite. L’ultima, datata 9 aprile 2013, è protetta in una custodia di plastica fucsia: la sua nuova carta d’identità.

ANTONIA Monopoli, operatrice sociale, capelli fulvi, occhi verdi, un metro e 83 di statura, italiana di Puglia. Antonia fu Antonio, cresciuta in direzione ostinata e contraria rispetto a quello che la biologia aveva programmato. Ne ha pagato il prezzo, come tutti quelli o quelle come lei: “sterco del diavolo” per la parata del Family Day di sabato scorso a Roma, più di mezzo milione di moderni crociati che, per difendere i diritti di ciò che è “secondo natura”, hanno negato persino il diritto di esistere a qualsiasi sfumatura di “innaturalità”, con i transessuali collocati con ribrezzo all’ultimo gradino della specie umana.
Comincia presto per loro, i trans, la fatica del vivere elevata a potenza, specie se presto intuiscono di essere fuori posto. Per Antonia c’è addirittura una diversità raddoppiata: «Siccome ero rossa e lentigginosa, i bambini mi tenevano a distanza per paura che gli attaccassi le macchioline sulla pelle». L’estraneità progressiva al modello “ maschio di Bisceglie” fa il resto. Per esempio, le rappresaglie dei compagni di scuola («mi gridavano frocio, mezza femmina, e giù sputi e botte»), e quando tornava pestata, il padre, che faceva la maschera al cinema-teatro della città e conosceva Gassman, Paola Borboni e «persino Amii Stewart», le diceva secco: «Figlio mio, maschio sei e difenderti devi». Ancora, le continue visite dagli psicologi che cercavano di guarire un male che la bambina, anzi il bambino, non capiva bene quale fosse e perciò taceva. Il primo tempo di Antonia prigioniera di Antonio si chiude con la licenza di terza media, l’obbligo di vestirsi da maschio per salvare il decoro di famiglia, le prime esperienze omosessuali («pensavo di essere gay, ma sapevo di non esserlo»), una fuga precoce e rovinosa nell’alcol, e un’altra fuga, a Roma, pensione Everest, zona stazione Tiburtina, rifugio di peccatori di vario genere. Una mattina, si ritrova davanti alla stanza i genitori, uno schiaffo dal padre, il ritorno a Bisceglie, garzone in un negozio di alimentari. «C’era una trans siciliana, una ragazza, in mezzo al casino di quel giorno alla pensione Everest. Mi prese da parte: vai con loro, sei fortunata, io per i miei non esisto più, come se fossi morta ».
C’è il polo nord, il polo sud, e in mezzo il mondo. C’è il bianco, il nero, e in mezzo il mondo dei colori. C’è il maschio, la femmina, e in mezzo il turbato e conturbante popolo dei transgender, migranti del sesso, persone che scoprono di essere l’opposto di quello che fisicamente sono. Antonia di Bisceglie invece di Antonio di Bisceglie. Non si tratta tanto di attrazione per persone dello stesso sesso. È qualcosa di più sconvolgente e irrimediabile: la certezza di essere finiti in un corpo sbagliato, e da lì l’inizio di un disperato cammino per rimettere in sintonia carne e cuore, chi invertendo con ormoni e operazioni chirurgiche il sesso di partenza, chi fermandosi al cambio d’aspetto senza il travaglio della sostituzione degli organi genitali, chi torturandosi nell’attesa di fare almeno una delle due cose. E anche quando il viaggio si completa, nella stragrande maggioranza dei casi resta una specie di terrore che ti spinge a non rivelarti, a tenere segreto il tuo passato, per paura di perdere il lavoro, la reputazione, il rispetto della gente. Sei un mutante, hai sfidato le leggi del creato, abbi almeno il pudore di nasconderti.
L’avvocato Alessandra Gracis, battagliera civilista di Conegliano Veneto, alta e raffinata, le leggi le sfida tutte. Alessandro fino a 52 anni, esordisce con gonna e parrucca bionda a un convegno dov’era relatore, buttandosi alle spalle con un colpo di scena la lunghissima stagione del compromesso con se stesso. Da quando si è opera- ta a San Francisco, nel 2012, ha perso un solo cliente: il concessionario della Mercedes. «In compenso è venuto un contadino e mi ha detto: se lei ha “sto coraggio, la mia pratica è in buone mani”. Lei si è messa nelle mani di due registe, Annamaria Gallone e Gloria Aura Bartolini, per raccontare in un documentario calvario e resurrezione di “uno” che si sentiva da sempre “una”. Il titolo, “Lei è mio marito”, è la seconda sfida a una legge, questa volta dello Stato. Prima di trasformarsi, Alessandra stava con Roberta, che le è rimasta accanto per tutto il tragitto della mutazione. «Ma siccome da noi, retroguardia d’Europa, non sono ancora riconosciute le unione civili tra persone dello stesso sesso, dopo l’intervento non ho cambiato la mia posizione all’anagrafe e ho sposato la Roberta perché non perdesse i diritti, la mia pensione se del caso, quelle robe lì». Altra legge nel mirino dell’avvocatessa Gracis: la 164 del 1982, quella che consente l’operazione per cambiare sesso ma vincola, salvo eccezioni, il conseguente adeguamento anagrafico alla castrazione chirurgica. «Ho già fatto ricorso in Cassazione, confortato anche dal parere del procuratore generale che parla di tortura di Stato. A settembre, sul tema, si pronuncerà la Corte costituzionale. Speriamo bene, sia per il diritto sia perché in Italia il governo Renzi ha sì stanziato 200 milioni di euro l’anno per le operazioni dei transessuali ma di fatto non ci sono ospedali all’altezza e molti tentativi finiscono malissimo, con danni permanenti ai pazienti, nonostante per ogni operazione, visto che se ne fanno 150 l’anno, ci siano teoricamente a disposizione 1 milione e 100 mila euro. A San Francisco, dove sono preparatissimi, io in tre giorni ho fatto tutto, spendendo 21.500 dollari. Ecco, vorrei tanto parlarne con il ministro della Salute Lorenzin, ma è irraggiungibile. Può aiutarmi?».
Secondo stime a spanne, i transessuali in Italia sarebbero 40 mila, ma è un dato per difetto. Quelli che si prostituiscono sono soltanto uno su dieci, la gran parte sudamericani (gli schifati ma ben frequentati “viados”). Il resto sono cittadini comuni, informatici, dirigenti d’azienda, impiegati, laureati in cerca di prima occupazione, parrucchieri, designer di pellicce o di calzature con vendita online. Chiamarli transgender fa sembrare la cosa più accettabile, il segno tangibile della confusione dei tempi. La moda e lo star system, da sempre sensibili al nuovo che ribolle nella pentola del mondo, ne hanno ingaggiati parecchi. Lea T, battezzata Leandro e figlia del calciatore brasiliano Toninho Cerezo, è finita nuda sulla copertina di Vogue Francia e figura tra le 50 top model più pagate, in compagnia della bosniaca Andreja Pelic, ex commesso di McDonald’s, ora stella di Marc Jacobs e Jean Paul Gaultier. La serie tv americana “Transparent” ha vinto il Golden Globe 2015 per la migliore commedia raccontando la storia di una famiglia con il padre transgender. Conchita Wurst, nata Tom, la cantante austriaca con un filo di barba, è diventata molto più che un fenomeno discografico. Ma il re dei mutanti, anzi dei mutati, è al momento Caitlyn Jenner, che quando era Bruce vinse l’oro olimpico a Montreal 1976 in una disciplina da superuomini come il decatholn. Dopo la gloria sportiva, tre matrimoni e sei figli (due con ciascuna moglie), a 64 anni ha fatto il salto più lungo della sua carriera: si è operato, è diventato Cait, ha conquistato la copertina di Vanity Fair America e un milione di followers su Twitter in poche ore, meglio di Obama al debutto da presidente. Spiegazione: «Bruce ha sempre dovuto raccontare bugie dalla mattina alla sera. Cait non ha più segreti. Adesso, finalmente, sono libera ». Presto anche nonna: il suo primogenito Burt sta per diventare padre e non sembra aver preso benissimo la vicenda. «Spero che la signora sarà una persona migliore dell’ex campione Bruce Jenner».
Antonia da Bisceglie non diventerà mai nonna perché non ha figli. In compenso anche lei si sente «finalmente libera», almeno da tre anni: intervento all’ospedale Niguarda di Milano di orchiectomia, cioè di rimozione dei testicoli, e quindi azzeramento della produzione di testosterone. Prima di arrivarci, c’è stato il secondo tempo della sua vita, quello della traversata del deserto. Tempo che comincia anche bene, con uno psichiatra che, dopo lo spavento della capatina in manicomio, tranquillizza mamma Rosa: suo figlio non è malato, va solo aiutato nel suo percorso. Antonia lo prende come un via libera, si lascia crescere i capelli, indossa giacche sciancrate, prende a dipingersi le unghie. Alla visita di leva, risponde sì alla domanda se vuole cambiare sesso. La convocano i dottori del distretto, torna ad aver vergogna, ritratta, parte per Foggia, Esercito. Dura poco: durante le libere uscite, frequenta «cattive compagnie », la beccano, la spediscono all’ospedale militare di Bari, assalto di commilitoni infastiditi di avere «un ricchione» in corsia, congedo definitivo. È a quel punto che compare in scena il grillo parlante, travestito da amico d’infanzia nel frattempo diventato amica: «Se davvero vuoi diventare una donna, vieni a Milano. Ma per mettere da parte i soldi per l’operazione, c’è solo la strada ».
E così la signorina Antonia Monopoli, a 22 anni, scende all’hotel Vallazze, una stella, zona Loreto, e la sera stessa dell’arrivo debutta sul marciapiede. Ci resterà dieci anni, nome d’arte Morgana, per gli amici Antonella, tacco 13 su un 43 e mezzo di scarpe, capelli rossi fino al sedere, unghie vermiglio, praticamente un diavolo che si conquista un cospicuo portafoglio clienti, su e giù dalle macchine, specie agli inizi, e una sensazione di strana euforia. «Potevo vestirmi come volevo, senza più nessuno che pretendesse di raddrizzarmi, di guarirmi. Seguivo una terapia ormonale fai da te, l’occhio si addolciva, i seni si gonfiavano, la pelle sembrava più liscia. E poi ero la nuova, i clienti volevano vedere come lavoravo. Una volta è anche finita a bottigliate con una tossica che mi aveva preso storto per l’invidia. Comunque, l’euforia durò poco». Per la vergogna? «Perché la bella vita non è una bella vita, e poi perché chi mi comprava pretendeva i miei genitali. Quanto vuoi? Quanto ce l’hai lungo? Ti funziona? Quand’ero a scuola, mi rifiutavo di fare ginnastica per non dovermi spogliare davanti agli altri. Figurarsi farsi vedere e toccare da uno che ti fa schifo solo a guardarlo. Ma loro questo cercano: la femmina e il maschio insieme. Se non ci stai, hai chiuso».
E alla fine Morgana chiude. Incontra qualcuno dell’Arci, comincia col volontariato in aiuto a quelle come lei, trova una casa popolare da 150 euro al mese e lavori a tempo come magazziniere, archivista, assistente di malati terminali. Lascia anche il vezzoso Antonella per il suo vero nome, quello del battesimo, corretto al femminile: Antonia. È il terzo tempo, la terza vita: un impiego fisso all’Associazione Ala, con la responsabilità dello sportello per le persone transessuali, e due lutti, tra i tanti, alle spalle: un cane e un amore. «Candy era uno yorkshire, è stato con me per 13 anni, era la mia famiglia, la mia figlia adottiva. Con Gianan, un curdo turco sciita, di anni ne ho passati 8. Era l’amore e pensavo fosse per sempre. Mi ha lasciata per una rumena, una donna biologica. Mi sono rialzata. Io sono una donna bionica».
Forse ce n’è un’altra, a Brooklyn. Si chiama Francisca, è madre di una bambina che a 8 anni ha scritto una lettera dove spiegava che lei, Q, si sente un maschio. Risposta di Francisca: «Sono un’immigrata di colore e conosco il razzismo, la stessa oppressione che patiscono e patiranno i transgender. Io non voglio cambiare Q. Voglio cambiare il mondo».