Repubblica 1.6.15
Così si salva il Medio Oriente
di Thomas L. Friedman
IL MONDO arabo è una regione pluralistica priva però di pluralismo, della capacità di coordinare e includere le differenze in modo pacifico. In quanto tale, la natura pluralistica del Medio Oriente — sunniti, sciiti, curdi, cristiani, drusi, alawiti, ebrei, copti, yazidi, turkmeni e una moltitudine di tribù — per lungo tempo è stata governata dall’alto, con pugno di ferro. Tuttavia, dopo gli interventi militari in Iraq e in Libia, senza esser riusciti a creare un nuovo ordine dal basso, e dopo le rivolte in Siria e nello Yemen nel 2013, è esplosa una guerra atroce nella quale tutti si scagliano contro tutti.
Sinora il mondo arabo, con i suoi confini dritti, tracciati in maniera del tutto artificiale, era stato tenuto assieme, a mo’ di pacco, dal petrolio e dalla forza bruta. Nello sfascio al quale stiamo assistendo, le popolazioni locali fanno riferimento quindi all’unica identità che le rassicurano: la tribù o la setta. A farci capire quanto a fondo sia penetrato il disfacimento è sufficiente osservare che così tanti sunniti iracheni preferiscono il demenziale Stato Islamico (Is) all’idea di combattere per il governo di Bagdad guidato da sciiti filo- iraniani. Non ho mai visto nulla di così terribile. Simon Henderson, analista del Medio Oriente, ha reso molto bene il livello di degrado e disintegrazione in un articolo recentemente pubblicato dal Wall Street Journal : «Il caos feroce nello Yemen non è abbastanza organizzato da meritare il nome di guerra civile».
Sembra quindi che la mentalità fondamentalista stia prendendo piede ovunque. Il Middle East Media Research Institute il mese scorso ha postato un video dello sceicco Ahmad al-Nakib, un docente dell’università Mansoura del Cairo, nel quale critica l’Is ma aggiunge: «Non c’è dubbio che l’Is sia di gran lunga meglio degli efferati sciiti che ammazzano i sunniti solo perché sono sunniti».
Otto Scharmer, economista presso il Massachusetts Institute of Technology, esperto di comunità intrappolate in conflitti perpetui, arriva a delineare le caratteristiche principali della mentalità fondamentalista ricorrendo ai loro contrari: «Qual è il contrario di mente aperta?» chiede. «Essere inchiodati a un’unica verità». «Qual è il contrario di cuore aperto? Essere inchiodati a un’unica pelle collettiva: ogni cosa è vista nell’ottica del “noi contro di loro”, e quindi è impossibile provare empatia per il prossimo». E qual è il contrario di volontà aperta? «Essere schiavi delle vecchie intenzioni che risalgono al passato e non al presente, e quindi non riuscire ad aprirsi a qualsiasi nuova opportunità che si presenti».
Se questa mentalità a somma zero continuerà a prevalere, non ci resta che piangere per il futuro di questa regione nella quale c’è molto meno petrolio, molti più bambini e molta meno acqua. Sarà uno spettacolo spaventoso.
Per il momento, intravedo soltanto due modi con i quali autogoverni coerenti potrebbero riemergere in Libia, Iraq, Yemen e Siria: il primo è che una potenza estera li occupi completamente, domi le loro guerre settarie, sopprima gli estremisti e trascorra il prossimo mezzo secolo a cercare di far sì che iracheni, siriani, yemeniti e libici condividano il potere da cittadini su un piano di perfetta uguaglianza. Ma anche così potrebbe non funzionare. In ogni caso, non ci sono possibilità che accada. L’altro modo è limitarsi ad aspettare che le fiamme si estinguano da sole. La guerra civile in Libano è finita dopo 14 anni con una riconciliazione dovuta al logorio. Tutte le parti in conflitto hanno accettato il principio del “nessun vincitore, nessun vinto”, e tutti si sono spartiti una fetta della torta. È così che le fazioni in Tunisia sono riuscite a trovare stabilità: nessun vincitore, nessun vinto.
Noi non potremo intervenire efficacemente in una regione nella quale sono pochissimi coloro che condividono i nostri obiettivi. Per esempio, in Iraq e in Siria, sia Iran che Arabia Saudita hanno agito allo stesso tempo da piromani e da pompieri. Inizialmente, l’Iran ha spinto il governo iracheno sciita a reprimere i sunniti e quando ciò ha dato vita allo Stato Islamico ha inviato le milizie filoiraniane a domare l’incendio. Grazie tante! Quanto all’Arabia Saudita, a lungo ha incoraggiato la corrente wahabita dell’Islam — intransigente, anti-pluralistica e fortemente contraria all’emancipazione femminile — contribuendo a dar forma al pensiero ideologico dell’Is e dei fondamentalisti sunniti che si sono uniti a loro. Anche i sauditi, infatti, sono piromani e pompieri allo stesso tempo. L’Is, in verità, è simile a un missile dotato di un sistema di guida saudita e di carburante iraniano.
La politica statunitense da ora in poi dovrebbe essere improntata a questo concetto: contenimento ed espansione. Diamoci da fare per aiutare coloro che manifestano la volontà di contenere l’Is, per esempio Giordania, Libano, Emirati Arabi Uniti, e curdi in Iraq, e per espandere qualsiasi cosa produttiva i leader di Yemen, Iraq, Siria o Libia siano disposti a fare con il loro potere. Ma per nessuna ragione al mondo dobbiamo sostituire al loro potere il nostro. Questa deve essere la loro battaglia per il loro futuro. Se per loro combattere l’Is non vale la pena, di sicuro non può valere la pena per noi.
Qualche giorno fa mi sono trovato dietro a un’automobile della Virginia sulla cui targa compariva la scritta: “Fight Terrorism”, “combattiamo il terrorismo”. Mi dispiace, ma non credo che una scritta del genere debba comparire sulla targa di uno stato, quale esso sia. Per oltre un decennio abbiamo speso vite umane e miliardi di dollari per cercare di “combattere il terrorismo” e rimettere in sesto una regione del mondo che non può essere rimessa in sesto dall’esterno. È stato un vero spreco. Vorrei tanto che avesse funzionato: il mondo ora sarebbe un luogo migliore. Purtroppo, non è andata così. Iniziare a dar prova di saggezza significa ammetterlo e non sprecare più i soldi buttandoli via. Dobbiamo smettere di essere “gli Stati Uniti che combattono il terrorismo”. Meglio “contenere ed espandere”. © 2-015 New York Times News Service Traduzione di Anna Bissanti