lunedì 1 giugno 2015

Repubblica 1.6.15
Licenze taroccate e cemento nell’oasi le carte che provano il sacco di Ostia
L’abusivismo nel litorale romano è documentato nei fascicoli del Comune andati a fuoco in un rogo doloso, ma di cui esistevano le copie in un ufficio segreto.
L’assessore Sabella: tutto spianato entro il 2016
di Attilio Bolzoni

QUESTE sono le carte che raccontano il «sacco» di Ostia. Com’era e come è diventata. È tutto negli atti del Comune di Roma, inclusi i falsi per coprire lo scempio e il mare. Stabilimenti balneari che si sono allargati per due volte, recinzioni di un metro che ormai sono alte quasi tre, lidi senza autorizzazione, cabine trasformate in residence con tanto di antenne satellitari e chioschi convertiti in mega ristoranti circondati da palestre, piscine e campi di beach volley. Ostia prima e Ostia dopo, undici chilometri irriconoscibili.
Queste sono le carte che qualcuno ha tentato di far sparire con le fiamme per cancellare ogni piccola e grande prova degli abusi, incendio inutile. Una copia originale, ben custodita lontano dagli uffici comunali, ha permesso di ricostruire una grande mappa dell’oltraggio alla costa. Un dossier che consentirà al «commissario» del X municipio Alfonso Sabella — assessore alla legalità del Comune di Roma per volere del sindaco Ignazio Marino, dopo la tempesta di mafia che si è abbattuta a dicembre sulla capitale — di far partire una procedura di «decadenza» delle concessioni per gli stabilimenti fuori delle regole. Una parte degli atti (gli illeciti più recenti, quelli non caduti in prescrizione) nei prossimi giorni sarà inviata alla procura della Repubblica, l’altra servirà per documentare intrallazzi e indecenze prima dell’arrivo delle ruspe. Annuncia Sabella: «Non voglio distruggere la stagione balneare 2015 ma entro il 2016 il lungomuro di Ostia non esisterà più perché è quasi tutto illegale, anzi leviamoci il quasi: è tutto illegale». Gli stabilimenti balneari sono 71 e ogni stabilimento ha la sua scheda e la sua vergogna. Stabilimento Marechiaro, documento di protocollo numero 75877 dell’8 novembre 2006: «...la recinzione dello stabilimento verso terra non deve essere in muratura ma con decoroso sostegno a giorno e alta non più di 110 centimetri livello strada…». Con le ringhiere a sbarra, oggi è fra i 2 metri e 50 e i 2 metri e 80. Stabilimento Battistini, il documento di protocollo numero 132238 del 2008 indica che nel 1991 l’area concessa era di circa 4300 metri quadri, nel 2013 risulta superiore agli 8 mila metri quadri. Stabilimento Hakuna Matata, affidato in gestione dal presidente del porto di Ostia Mauro Balini (ricchissimo imprenditore che secondo recenti indagini «è in interessenze inquietanti con ambienti malavitosi») a Cleto Di Maria, uno che negli anni ‘90 è stato arrestato in Brasile con una partita di droga. La pratica dell’Hakuna Matata è la numero 75383 del 2011 e lì dentro si scopre che ha solo la concessione rilasciata nel 1987 per un chiosco e non per una spiaggia attrezzata con lettini, ombrelloni e docce. Una documentazione taroccata sull’Hakuna Matata ha però autorizzato l’attività al lido, una firma di troppo. E complicità sparse, anche nelle giunte del X Municipio di Roma. Tanti ma non tutti hanno chiuso gli occhi sull’Hakuna Matata. E se fra le carte c’è una lettera nella quale l’amministratore del tempo Laura Balini, sorella del presidente del por- to — in poco meno di due anni ne sono cambiati quattro di amministratori — scrive che «detto soggetto (Cleto Di Maria, l’ex trafficante ndr) attualmente non ha più contratto di affitto», un anonimo onesto funzionario segnala a penna: «No, ce l’ha, disposizione del 7 agosto 2014». Chi allora ha fatto finta di non vedere? Chi sono i conniventi del «sacco» di Ostia? «Qui sono state violate leggi dello Stato, regolamenti regionali e comunali, hanno violato tutto il violabile a cominciare dal 1992», accusa il «commissario» Sabella che fa l’elenco dei falsi materiali e ideologici contenuti nella sua mappa. C’è lo stabilimento Il Curvone che ha solo la concessione per un chiosco ma è spiaggia attrezzata (protocollo numero 235 del 7 aprile 2009), c’è lo stabili- mento Salus che espone tranquillamente i prezzi per il semplice ingresso al mare che dovrebbe essere libero per legge («Feriale: adulti 7 euro e bambini 5 euro, Sabato, domenica e festivi adulti 10 euro e bambini 6»), c’è il Village che hanno sequestrato al clan Fasciani dove nel fascicolo non si fa menzione del certificato antimafia.
Altri incartamenti fra un paio di giorni arriveranno in procura. Sono quelle sui parcheggi di fronte agli stabilimenti del lungomare Vespucci. È una zona che risulta «riserva naturale », il demanio l’ha data inspiegabilmente in concessione ai balneari spianando le dune. Il parcheggio dell’Esercito è stato pure asfaltato, dove c’era la sabbia ora c’è il bitume. Poi il demanio quei terreni li ha «riqualificati» come «aree pressoché pianeggianti di pertinenza degli stabilimenti». Ecco perché questi atti finiranno sulla scrivania del procuratore capo della repubblica Giuseppe Pignatone.
Nell’ufficio di Alfonso Sabella ai confini della pineta di Castelporziano ci sono cartine catastali che vengono confrontate con le immagini di Google Maps, un’Ostia tramutata anno dopo anno dal 1992 al 2015. Stabilimento Tibidabo di Paolo Papagni, fratello del presidente della Federbalneari Renato. Stabilimento Elmi. La spiaggia libera davanti alla rotonda dove arriva la Cristoforo Colombo che non c’è più, «mangiata » dai lidi. Tutto avvenuto sotto gli occhi di tutti. Dice ancora Sabella che, martedì alle 6 del mattino, era presente all’abbattimento del terzo chiosco abusivo sulla spiaggia che va verso Capocotta: «In trent’anni qui hanno fatto di tutto per non far vedere il mare, a Ostia non c’è una sola recinzione che sia stata sottoposta a decoro e bellezza dagli uffici tecnici». Le varie giunte del X Municipio si sono voltate tutte dall’altra parte o — peggio — partecipato allo sfacelo e all’abbuffata. Di destra e di sinistra, con l’interessamento di personaggi finiti dentro l’inchiesta di Mafia Capitale e altri ancora nei dintorni, un sottobosco politico romano che ha sempre «dialogato» con il malaffare e contemporaneamente cercato sponde apparentemente legalitarie. L’incendio nei locali comunali della notte del 16 ottobre 2014 è servito a poco. I mandanti del rogo hanno dato fuoco ai loro affari.