Repubblica 17.6.15
Il premier e la bandiera strappata della Capitale
Su Marino Renzi è contraddittorio
Non vuole rischiare di perdere Roma né accettare un tran-tran avvelenato
di Stefano Folli
NON stupisce che l’attenzione del presidente del Consiglio si concentri sulle elezioni del prossimo anno nelle grandi città, si presume in maggio. Nella mentalità di Renzi il rapporto con l’opinione pubblica coincide con una campagna elettorale permanente. L’azione di governo, a cui in tanti lo richiamano oggi, ha senso per lui se serve a creare consenso. E il consenso ha bisogno di verifiche periodiche. Il problema è che le riforme, da un lato, e gli imprevisti, dall’altro, sono talvolta una miniera di impopolarità e provocano disincanto: dagli insegnanti ai pensionati, a tutti coloro che non percepiscono affatto i segni della ripresa (nonostante i “260mila posti di lavoro in più” su cui insiste Palazzo Chigi). Gli immigrati mal gestiti diventano la metafora di tutte le paure. E il senso di insicurezza che ne deriva contribuisce a diradare il consenso intorno a un premier che aveva suscitato troppe attese. Ecco perché Renzi si pone il traguardo delle città. Perdere Milano, Torino, Napoli, non è come perdere Viareggio, Gela o anche Arezzo. Sarebbe un’alluvione, l’annuncio di una plausibile disfatta nelle successive elezioni parlamentari, ipotesi considerata da molti, ma non da tutti, impensabile fino a qualche tempo fa.
Quello che Renzi oggi teme è che Venezia diventi il paradigma politico del centrodestra.
Un candidato che viene dalla cosiddetta “società civile”, un programma di buon senso, ma al tempo stesso capace di catalizzare al secondo turno gli umori, le inquietudini e i risentimenti contro chi governa ( o amministra, nel caso delle città). In altre parole, un candidato non troppo marchiato dai partiti, ma proprio per questo in grado di assorbire voti — senza intese preventive ufficiali — dalla Lega, dal mondo ex berlusconiano, e soprattutto da un ambiente “grillino” in cui le pulsioni di destra e di sinistra appaiono sempre più sfumate e mescolate fra loro. Un personaggio del genere, se esiste, può diventare una minaccia reale nella logica dell’Italicum. Dove al secondo turno, come ricorda D’Alimonte che quel meccanismo ha inventato, conta saper raccogliere il consenso di chi al primo turno ha votato altrimenti. A Venezia Brugnaro ci è riuscito, Casson invece no.
Per esorcizzare il pericolo, Renzi deve conservare in primo luogo i grandi municipi. Ma preoccuparsi delle città significa affrontare il caso Roma. Il premier è consapevole che nella capitale deve cambiare tutto, a cominciare dalla giunta. Lo stillicidio dell’inchiesta giudiziaria è piombo nelle ali per chi deve difendere le città nel resto del paese. L’obiettivo è quindi unire Roma agli altri centri in cui si voterà l’anno prossimo, facendo della capitale una bandiera di discontinuità e rinnovamento. Ne deriva che Marino deve lasciare per ragioni strettamente politiche.
È ovvio: si vuole evitare di commissariare Roma a causa delle infiltrazioni mafiose, sarebbe come consegnare una bomba atomica nelle mani di leghisti e “grillini”. Ma non si può nemmeno rassegnarsi al “tran tran” quotidiano di una giunta che proietta sul piano nazionale un’immagine screditata del Pd.
ECCO perché Renzi ieri è apparso contraddittorio e incerto. Prima ha detto che Marino “non può stare tranquillo”, poi lo ha invitato ad andare avanti “se è capace di amministrare”. Ha anche detto che la giunta non sarà sciolta, ma un commissario è appena stato annunciato per il Giubileo: segno di una delegittimazione “morbida” dell’attuale sindaco. Renzi esita sul da farsi, ma l’obiettivo è chiaro, oggi più di ieri: liquidare gli attuali assetti romani e andare a votare anche a Roma. Impedire che il malaffare capitolino sparga veleno sul cammino del nuovo Renzi e finisca per accreditare un competitore nazionale sul “modello Venezia”.