Repubblica 16.6.15
Il Paese è a crescita zero
Italia senza figli, è il record del secolo
L’Istat: più morti che nati, mai così dalla Grande Guerra
Per la prima volta le culle vuote aumentano anche nelle famiglie degli immigrati
di Michele Smargiassi
SOLO la Grande Guerra svuotò le culle più di adesso. Fa sapere l’Istat che nel 2014 in Italia la differenza fra nati e morti, leggi saldo demografico naturale, ha sfiorato quota meno centomila: un record, la forbice più alta dal 1918 (meno 636 mila), quando però era la falce delle trincee a squilibrare il bilancio.
Oggi non è che si muore di più, anzi la mortalità è in leggera diminuzione. È il disinvestimento sui figli che allarga la forbice, perché la voglia di prole frana ormai costantemente dal 2008. Il Bilancio demografico nazionale rilasciato ieri dall’Istat ha la forza delle cifre nette: 502.596 neonati l’anno scorso, meno 11.712, ossia meno 2,3%, sul 2013. Altro che crescita zero, è decrescita sottozero, quasi ovunque: solo a Trento e Bolzano più nascite che funerali.
Crisi economica, mutamento dei costumi e dei progetti familiari. C’entra pure il contraccolpo del baby-sboom : sono in età fertile oggi i figli dei primi cali demografici degli anni Ottanta: meno bambini allora, meno potenziali genitori oggi.
Che cosa conta di più, nella retromarcia demografica italiana? Non è facile distinguere. Ma c’è un indizio che comincia a farsi significativo: calano anche le nascite nelle famiglie degli immigrati. Nel primo decennio del millennio i bimbi multicolori riempivano le sale parto, compensando in parte la minor natalità delle famiglie italiane: un boom, da 30 mila nel 200 a 80 mila nel 2012. Bene, l’aria è cambiata anche qui. L’inversione di tendenza timida di due anni fa, nel 2014 è stata netta: 2638 nati in meno. La crisi colpisce anche famiglie che, per cultura e tradizione, sarebbero propense a fare più figli della media italiana.
Dunque, nonostante le paure di invasione, in questo paese non stiamo più stretti di prima. Sommando tutto, arrivi e partenze, nati e morti, siamo appena 12 mila in più del 2013, ma se scremiamo la burocrazia (correzioni di errori e revisioni anagrafiche) siamo aumentati solo di duemila persone e rotti, un’inezia. Per chi ama la precisione, in Italia ora siamo 60.795.612 residenti ufficiali. Di cui poco più di 5 milioni sono cittadini stranieri immigrati (fa l’8,2 per cento, ma attenzione: quasi la metà vengono da paesi europei). Ci sono ormai nella penisola persone di duecento nazionalità diverse (primi i romeni, 22,6% del totale), ma le iscrizioni anagrafiche dall’estero (277 mila l’anno scorso) sono addirittura in calo. Hanno invece ottenuto la cittadinanza italiana 130 mila persone nate altrove.
Insomma, anche l’immigrazione, almeno quella che risulta all’anagrafe, riesce a malapena a colmare i vuoti di un paese che perde abitanti. Ne perde statisticamente ( per lo sbilancio fra nati e morti, già detto), ma anche realmente: siamo ancora un paese di emigranti, 90 mila partenze, anche a contare i rimpatri il saldo è negativo di quasi 60 mila unità. Partono i più giovani, e anche questo aggiunge un grano di sabbia all’inesorabile clessidra dell’invecchiamento: adesso la nostra età media è di 44,4 anni. Apparentemente non sembra drammatica, ma è l’incubo della piramide rovesciata a turbare i sonni dei programmatori sociali: quella massa di anziani inattivi che preme su una minoranza di giovani produttivi, che può schiantare qualsiasi welfare, non solo in tempi di crisi.