lunedì 15 giugno 2015

Repubblica 15.6.15
Così il Califfo pugnalò Al Qaeda il tradimento che ha creato l’Is
Nelle parole di due dei teorici jihadisti più temuti dalle intelligence, il racconto dall’interno della genesi dello Stato islamico Dal divorzio da al-Zawahiri all’arruolamento degli ex generali di Saddam storia della nascita di un mostro, mentre il mondo guardava altrove
di Shiv Malik e altri


L5FEBBRAIO le autorità giordane hanno confermato che il padrino intellettuale di Al Qaeda, Abu Muhammad al-Maqdisi, era stato rilasciato di prigione. Anche se il suo nome non è molto conosciuto in Occidente, l’importanza di al-Maqdisi nel canone del pensiero islamico radicale è superiore a quella di qualsiasi altro islamista vivente. Questo palestinese di 56 anni salì agli onori della cronaca negli Anni ‘80, quando divenne il primo importante studioso islamico radicale a dichiarare che i reali sauditi erano apostati, e dunque bersagli legittimi della jihad. All’epoca gli scritti di al-Maqdisi erano talmente radicali che perfino Osama Bin Laden li trovava troppo estremi.
Oggi al-Maqdisi conta Ayman al-Zawahiri, il leader di Al Qaeda, fra i suoi amici personali, ed è tenuto in gran conto dagli altri leader regionali dell’organizzazione, dal Nordafrica allo Yemen. Ma probabilmente è noto soprattutto per essere stato il mentore personale di Abu Mus‘ab al-Zarqawi, l’uomo che fondò l’organizzazione che più tardi è diventata l’Is, quando i due uomini erano detenuti insieme in un carcere giordano con l’accusa di terrorismo, a metà degli Anni ‘90. Al-Zarqawi fu rilasciato nel 1999 e dopo aver giurato fedeltà ad Al Qaeda diventò uno dei personaggi più tristemente noti nell’Iraq del dopo-invasione, scatenando una brutale campagna di terrore settario che spinse al-Maqdisi a rimproverare pubblicamente il suo allievo più famoso in una serie di virulenti attacchi.
Ora l’uomo che gli analisti dell’antiterrorismo Usa definiscono «il teorico jihadista più influente tra quelli in vita», ha rivolto la sua ira contro l’Is. Poco tempo dopo la proclamazione del Califfato da parte del leader dello Stato islamico Abu Bakr al-Baghdadi, lo scorso giugno, al-Maqdisi ha diffuso un lungo comunicato in cui attaccava duramente l’organizzazione, definendola ignorante e incauta.
La guerra verbale di al-Maqdisi contro Daesh (l’acronimo arabo dell’Is) è emblematica della nuova spaccatura fratricida all’interno del radicalismo islamico violento: ma è anche il segnale che Al Qaeda, un tempo la rete terroristica più temuta al mondo, ormai è consapevole di essere sorpassata.
Daesh non ha semplicemente eclissato Al Qaeda sul campo di battaglia in Siria e in Iraq, e nella competizione per accaparrarsi reclute e finanziamenti: ha anche lanciato un “ golpe” per distruggere dall’interno l’organizzazione creata da Bin Laden. La conseguenza, ammettono ora, è che Al Qaeda, come idea e come organizzazione, è sull’orlo del collasso.
In un assolato pomeriggio primaverile, tre settimane dopo essere uscito di prigione, al-Maqdisi è seduto su un divano nella casa del suo amico Abu Qatada e parla con rabbia dello Stato islamico: gli hanno mentito e lo hanno tradito, dice, e i suoi membri non meritano di definirsi mujahiddin. «Sono come un gruppo mafioso», aggiunge Abu Qatada.
Abu Qatada è uno dei religiosi radicali più in vista a essersi schierato con al-Maqdisi, attaccando pubblicamente Daesh.
La lista di crimini dell’Is che suscitano l’indignazione di al-Maqdisi e Abu Qatada è lunga: fra questi, aver creato una divisione all’interno del movimento jihadista in generale, aver snobbato pubblicamente al-Zawahiri e aver istituito un Califfato a cui ogni altro jihadista, secondo le pretese dell’Is, dovrebbe giurare fedeltà o affrontare la morte. Per oltre un anno i due dicono di aver lavorato dietro le quinte, negoziando con i vertici di Daesh – incluso al-Baghdadi in persona – per riportare il gruppo nel gregge di Al Qaeda, ma senza risultato. «Daesh non rispetta nessuno. Stanno distruggendo il movimento jihadista e sono contro l’intera umma [la nazione islamica] », dice Abu Qatada.
A causa della sua notorietà, al-Maqdisi negli ultimi vent’anni ha passato la maggior parte del tempo dietro le sbarre. È opinione comune che i giordani lo abbiano rilasciato, lo scorso febbraio, perché si sono resi conto che di fronte al dilagare dello Stato islamico nella regione il suo prestigio lo rendeva un prezioso alleato nella lotta contro le truppe di al-Baghdadi.
Ma al-Maqdisi e Abu Qatada non hanno potuto far altro che restare a guardare mentre i giovani radicali dell’Is passavano di vittoria in vittoria, scomunicando, sbeffeggiando e tradendo la vecchia guardia e mettendo in ginocchio Al Qaea, guidata principalmente da veterani della guerra afgana, in questa guerra civile tra jihadisti.
La cosa che più irrita i due uomini è il fatto che lo Stato islamico abbia usato la loro dottrina per fornire legittimazione ideologica alla propria barbarie, procurarsi reclute e giustificare la sua battaglia contro Al Qaeda e i suoi affiliati.
Comportamenti così spudorati, concordano al-Maqdisi e Abu Qatada, non sarebbero mai stati accettati quando era vivo Bin Laden. «Nessuno diceva nulla contro di lui», lamenta al-Maqdisi. «Bin Laden era una star. Aveva un carisma speciale». Ma nonostante l’affetto che provano per il suo successore, al-Zawahiri – che chiamano «dottor Ayman» – riconoscono entrambi che non possiede l’autorità e il potere per rintuzzare la minaccia rappresentata dallo Stato islamico.
Nel decennio dopo l’11 settembre, Al Qaeda riuscì ad attirarsi soldi, militanti e prestigio come nessun altro gruppo jihadista nella storia. Crebbe fino ad avere sotto di sé una vasta rete di filiali terroristiche e affiliati che si estendeva dall’Europa all’Africa e all’Asia meridionale. Bin Laden riuscì in quest’impresa, almeno in parte, mantenendo una certa flessibilità ideologica: ai comandanti regionali veniva lasciata un’ampia libertà operativa.
In cambio, la leadership di Al Qaeda chiedeva soprattutto una cosa: lealtà. I comandanti venivano vagliati attentamente prima di essere nominati: solo quelli che si erano guadagnati fama sui campi di battaglia dell’Afghanistan, della Bosnia o della Cecenia – e che possedevano la necessaria conoscenza della dottrina islamica – venivano innalzati ai posti di comando principali. Al momento della nomina, questi alti comandanti pronunciavano un giuramento di sangue a Bin Laden in persona.
Quando al-Zawahiri ha preso il comando dell’organizzazione, in seguito alla morte di bin Laden, nel 2011, si è ritrovato geograficamente isolato. Mentre lui se ne stava nascosto, secondo diverse fonti, nelle montagne al confine tra Afghanistan e Pakistan, il centro di attività del jihadismo si trasferiva a migliaia di chilometri di distanza, in Siria e in Iraq.
In realtà la filiale più importante di Al Qaeda in Medio Oriente, lo Stato islamico in Iraq, già da tempo era fonte di problemi. Da quando era stata creata, nel 2003, sotto la guida di Abu Mus‘ab al-Zarqawi, l’organizzazione era stata ben felice di usare il marchio e i soldi di Al Qaeda, ma aveva spesso ignorato gli appelli a un coordinamento più stretto con il comando centrale, perfino quando provenivano da Bin Laden in persona. Nel 2010 oltrepassarono una linea rossa nominando un nuovo capo, Abu Bakr al-Baghdadi, senza l’approvazione preventiva di Al-Qaeda.
Nel 2011, sotto la pressione delle forze americane e irachene, lo Stato islamico in Iraq sull’orlo del collasso, ma la guerra civile siriana ha offerto al gruppo un’occasione per ricostruirsi. Quando il conflitto cominciò a intensificarsi, al-Baghdadi, alla fine del 2011, spedì oltreconfine uno dei suoi ufficiali, Abu Muhammad al-Joulani, per sfruttare la situazione di caos. Equipaggiato con fondi, armi e alcuni tra i combattenti migliori dello Stato islamico in Iraq, il gruppo di al-Joulani – che presto diventò noto con il nome di Fronte al-Nusra – si trasformò in breve tempo nella forza da combattimento più micidiale del conflitto siriano. Nel 2013 al-Joulani era diventato così potente che al-Baghdadi cominciò a temere che al-Zawahiri potesse concedergli da un momento all’altro il suo sostegno, mettendolo a capo di una filiale siriana indipendente di Al Qaeda.
L’8 aprile al-Baghdadi lanciò un attacco preventivo dichiarando che il Fronte al-Nusra e lo Stato islamico dell’Iraq sarebbero diventati ufficialmente un’unica organizzazione chiamata Stato islamico in Iraq e in Siria (Isis, nell’acronimo inglese). Il cambio di nome aveva effetto immediato. Due giorni dopo al-Joulani rispose con un suo messaggio audio rigettando l’”invito” di al-Baghdadi alla fusione e proclamando fedeltà direttamente ad al-Zawahiri, facendo appello allo “shaykh della jihad” affinché risolvesse la disputa.
Nel giro di ventiquattr’ore, al-Zawahiri inviò un messaggio in privato per esortare alla calma. Chiese ai due comandanti di inviargli una rappresentanza prima di pronunciarsi su questo diverbio diventato, grazie a internet, di dominio pubblico e una ragione di imbarazzo. Il 23 maggio al-Zawahiri pronunciò il suo verdetto: lo Stato islamico in Iraq e in Siria, che era stato creato senza previa approvazione, doveva essere «sciolto». Ad al-Baghdadi fu ordinato di limitare le sue operazioni all’Iraq mentre il suo ex sottoposto, al-Joulani, sarebbe diventato il capo della filiale ufficiale di Al Qaeda in Siria.
Al-Baghdadi rispose in modo brusco e in-flessibile: «Fintanto che ci scorrerà il sangue nelle vene», disse, l’Isis esisteva e sarebbe continuato a esistere. Era la prima volta che un importante esponente di Al Qaeda sfidava pubblicamente il capo dell’organizzazione.
Quell’estate, l’Isis cominciò a prepararsi per la guerra, rimpolpando le proprie file e organizzandosi per riprendersi il territorio siriano conquistato da al-Nusra, che considerava legittimamente suo. In un’incredibile successione di evasioni liberò centinaia di detenuti fra i più pericolosi dell’Iraq, con colpi di mortaio sparati contro le mura delle carceri e autobombe usate per far saltare in aria gli ingessi. Secondo alcuni documenti segreti recentemente scoperti dal quotidiano tedesco Der Spiegel , l’organizzazione guidata da al-Baghdadi cominciò anche a mettere in atto piani per sfruttare il fiume di migliaia di aspiranti combattenti che affluivano in Siria dalla Tunisia, dall’Arabia Saudita, dalla Turchia, dall’Egitto e dall’Europa. Non avendo nessun legame con i siriani, c’erano ottime probabilità che questi combattenti stranieri sarebbero rimasti fedeli.
Una delle persone più vicine ad al-Maqdisi in Giordania è un uomo che chiameremo Rahim, uno stretto collaboratore di Abu Mus‘ab al-Zarqawi che ha contribuito a fondare l’organizzazione che in seguito è diventata lo Stato islamico e che ha assistito dall’interno alla trasformazione del gruppo dopo l’ascesa al potere di al-Baghdadi.
Dopo la morte di al-Zarqawi, nel 2006, lo Stato islamico in Iraq venne quasi distrutto dall’offensiva delle forze americane e dalla ribellione delle tribù sunnite contro la sua violenza brutale. Per sopravvivere, racconta Rahim, il gruppo di comando decise che bisognava allargare le file: non era più essenziale avere credenziali rivoluzionarie islamiste per essere arruolati. Gli ex ba’athisti, che avevano governato l’Iraq per decenni, erano nuove reclute preziosissime: gli ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein conoscevano i punti deboli delle forze armate irachene e gli ex agenti dei servizi segreti del regime ba’athista conoscevano gli uomini di potere in ogni città e villaggio.
Rahim sostiene che sono stati soprattutto questi uomini – ex ba’athisti diventati esponenti di primo piano dello Stato islamico in Iraq – a nominare al-Baghdadi come nuovo leader dell’organizzazione, nel 2010. Fino al momento della sua nomina, dice sempre Rahim, al-Baghdadi era considerato una figura minore, poco appariscente, senza carisma. Non aveva nessuna esperienza militare e la sua conoscenza della dottrina islamica non era particolarmente rilevante, nonostante avesse un dottorato in studi islamici. Ma rappresentava l’uomo di facciata ideale: era uno studioso della religione, almeno sulla carta, la sua famiglia sosteneva di discendere dal profeta Maometto e soprattutto non era a sua volta un ba’athista.
Dopo la nomina di al-Baghdadi, il gruppo di comando si strinse saldamente intorno al leader prescelto. Al-Baghdadi interruppe tutte le comunicazioni con il comando centrale di Al Qaeda, al di fuori di quelle più sommarie e sbrigative, e lentamente tutte le figure più rilevanti che ancora rimanevano fedeli ad al-Zawahiri furono deliberatamente marginalizzate o uccise sul campo di battaglia.
Più tardi, quell’anno, mentre il resto del mondo pensava solo alle armi chimiche di Assad, Daesh si organizzava per prendere il controllo degli 800 chilometri di confine fra Turchia e Siria. A dicembre, cittadine di confine strategicamente importanti cominciarono a cadere, una a una, nelle mani dei combattenti dell’Isis, che sequestravano gli alti comandanti di altri gruppi ribelli e assassinavano i civili che avevano preso parte alle precedenti proteste di massa contro Assad, calcolando che fossero gli unici dotati di abbastanza coraggio da insorgere contro il nuovo potere in futuro.
Nel dicembre 2013 Hussein Suleiman, un giovane medico di bell’aspetto, alto ufficiale del Fronte islamico, uno dei gruppi della guerriglia anti-Assad, fu inviato in missione di pacificazione presso un’unità locale dell’Isis. Quando Suleiman non fece ritorno alla base, il Fronte islamico contattò Daesh ed ebbe la conferma che era stato fatto prigioniero in quanto spia. Quando Suleiman fu rilasciato nel quadro di uno scambio di prigionieri, il 31 dicembre, il Fronte islamico ricevette una salma mutilata: il giovane medico era stato torturato e la parte superiore della testa non c’era più. Il giorno seguente il fronte islamico pubblicò su internet immagini del suo corpo maciullato accanto a foto di com’era da vivo. Le foto si diffusero rapidamente sui social media scatenando proteste nelle città di tutta la Siria contro la brutalità dell’Isis; nelle città controllate dall’Isis i miliziani spararono sui dimostranti, facendo crescere ancora di più la rabbia.
Nel giro di pochi giorni i principali gruppi della guerriglia siriana unirono le forze per dichiarare guerra all’Isis. Migliaia di combattenti furono uccisi nei primi mesi del 2014 nel corso di violentissime battaglie fra Daesh e le altre fazioni della guerriglia, con alti comandanti di entrambe le parti rapiti, torturati e assassinati. L’Isis fu sopraffatto e costretto a ritirarsi dalla Siria occidentale.
Il 16 gennaio 2014 l’inviato di al-Zawahiri, Abu Khalid al-Suri, pubblicò un messaggio su internet, twittando che Daesh stava cercando di corrompere la jihad come aveva fatto in Iraq: i combattenti dovevano dirigere le loro bombe contro gli infedeli, dichiarò, non contro altri jihadisti. Diciassette giorni dopo, al-Zawahiri giocò la sua ultima carda ed espulse l’Isis da Al Qaeda.
Per quelli dell’Isis tutti i ponti ormai erano tagliati. Per far capire chiaramente che la riconciliazione non era contemplata, inviarono al loro vecchio capo un messaggio di quelli che rimangono impressi: il 21 febbraio cinque uomini riuscirono a penetrare nel complesso dove si trovava al-Suri, ad Aleppo. Appena videro il loro obiettivo, uno degli assalitori azionò la sua cintura esplosiva. Il fedele servitore di al-Zawahiri, inviato dall’Afghanistan come paciere, rimase ucciso.
Dalle loro celle in Giordania, Abu Qatada e al-Maqdisi osservavano sempre più preoccupati la feroce lotta fra l’Isis e Al Qaeda.
Con il giusto piano di riconciliazione, al-Maqdisi era convinto che fosse ancora possibile ripristinare l’unità.
Usando degli intermediari per tenere al-Zawahiri informato dei suoi tentativi di mediazione, al-Maqdisi alla fine del 2013 contattò il gruppo di comando dell’Isis rivolgendosi a uno dei suoi ex studenti, un giovane del Bahrein di nome Turki Binali. Binali era un suo protégé. Dopo essere entrato nelle file di Daesh aveva fatto una rapida carriera e nella primavera del 2014 era stato nominato «erudito in armi» capo dell’organizzazione. In teoria, sarebbe potuto bastare un decreto firmato da Binali per mettere fine alla guerra civile tra Daesh e Al Qaeda.
Al-Maqdisi racconta che i primi scambi erano stati incoraggianti, ma che con il passare dei mesi, e il proseguire dei combattimenti, si convinse che Binali non aveva molta volontà di ricomporre la faida. Il 26 maggio 2014 al-Maqdisi giudicò che i negoziati erano arrivati a un punto morto e con il sostegno degli altri ideologi di Al Qaeda promulgò una fatwa contro l’Isis.
«È divenuto necessario dire la verità, dopo aver esaurito tutte le possibilità di dialogo e tutte le speranze di far tornare Daesh sulla via della verità», scrisse al-Maqdisi. L’organizzazione ribelle, dichiarò, non aveva nessuna «giustificazione islamica». Al-Baghdadi, i suoi comandanti e i loro funzionari religiosi erano «devianti» che avevano «disobbedito agli ordini dei loro capi e dei maggiori studiosi».
Al-Maqdisi e Abu Qatada continuano a sperare che l’unità che predominava quando c’era Bin Laden possa tornare, ma ammettono esplicitamente che l’Is sta vincendo la guerra sul campo, e anche la battaglia della propaganda. «È una situazione fluida», suggerisce ottimisticamente Abu Qatada. «Al momento l’Isis è ubriaco di potere ». Ma prima o poi, è convinto, dovrà tornare a negoziare con Al Qaeda. I due uomini sono convinti però che gli avvenimenti dell’ultimo decennio, e in particolare la guerra con l’Is, siano il segnale che Al Qaeda deve riconsiderare le sue tattiche. Al-Maqdisi è convinto che Al Qaeda non debba più puntare a reclutare seguaci in gran numero: ha bisogno di «persone di qualità», dice, che abbiano una conoscenza approfondita della dottrina islamica e non si limitino a sfruttarla per perseguire loro fini personali.
Al Qaeda ha sempre sostenuto che la creazione del califfato è lo scopo finale, ma che non ci sono ancora le condizioni adatte. Ma ormai è passato un anno da quando al-Baghdadi ha proclamato il suo califfato (l’Isis è così divenuto Is, Stato islamico), e più a lungo l’Is riuscirà a tenere il suo territorio e sbandierare al resto del mondo i suoi successi militari, più riuscirà a sottrarre credibilità ad Al Qaeda.
Da ideologi intrisi di quattordici secoli di dottrina islamica, al-Maqdisi e Abu Qatada tendono a privilegiare l’ottica di lungo termine: per loro, la crisi attuale di Al-Qaeda va vista in una prospettiva di decenni, non di mesi, e questo probabilmente spiega il loro relativo ottimismo sulle chances di rinnovamento dell’organizzazione. Per il momento, però, i loro violenti attacchi contro l’Is non hanno contribuito granché a frenare la sua avanzata.
(© The Guardian Traduzione di Fabio Galimberti)