domenica 14 giugno 2015

Repubblica 14.6.15
Fabrizio Barca L’ex ministro ha presentato il suo rapporto sullo stato di salute dei Democratici: “Sono ancora di sinistra”
“Roma corrotta ma il partito è sano. Niente premiership per il segretario”
intervista di Giovanna Casadio

ROMA. «Il grosso della corruzione non è nel Pd. Ma il Pd romano ci ha messo del suo. Tornare indietro è difficile». Fabrizio Barca, l’ex ministro a cui è stata affidata l’inchiesta sul partito, ha presentato ieri i risultati di un progetto sui luoghi idea(li) dem. Un tour per l’Italia, 9 i circoli esemplari, quattro proposte. La prima è la creazione di una Officina per la sperimentazione permanente. Poi, primarie, si cambia; no al premier che è anche segretario; attuazione dello Statuto sui comportamenti di iscritti ed eletti; direzione ridotta a 15 membri come un cda. Nel vivo della “pulizia” del Pd romano si entra venerdì prossimo con i 30 circoli da chiudere, la denuncia delle connivenze. Però per Barca, il Campidoglio non va sciolto e commissariato: «Basta la chiusura della discarica di Malagrotta a dare credito a questa giunta... ».
Professor Barca, il Pd è ancora un partito di sinistra?
«Lo è, anche se in questi anni ha fatto poche cose di sinistra. Nella pancia degli iscritti ci sono i valori di sinistra».
E lei tenacemente continua a credere nel Pd?
«Tenacemente, è vero. E credo che la casa democratica possa essere usata da persone di sinistra per cambiare un pezzettino di mondo, luogo per luogo. È difficile, ma un anno di lavoro in giro per il partito, ci dice che è possibile».
Però ammette la gravità dei “fenomeni degenerativi” come quelli di Roma, con un Pd invischiato quasi completamente in Mafia Capitale. Come si recidono corruzione e rapporti clientelari?
« Si recidono avendo il coraggio di affidare a un gruppo di giovani indipendenti, come quelli che ho reclutato, la diagnosi della diffusione del male e, se c’è, del bene. Si fa insomma una valutazione. Non bisogna sempre intervenire dopo. I 9 progetti idea(li) in giro per i circoli servano da lezione per tagliare l’erba sotto il malcostume di chi approda al partito pensando di trovare lavoro, di fare carriera facile».
Tenuto conto che lo Statuto dem prevede regole di garanzia, dove si è annidato il verme nel Pd romano?
«Quelle regole sono il meglio pensato post Tangentopoli, però non sono state una bussola per giudicare le persone. Non le applico un giorno, non le applico l’altro e si vanificano. Poi trovo un intellettuale che dice “il partito è uno strumento di bilanciamento dei poteri”, tesi importata dall’estero e peraltro non più alla moda. Ebbene è una specie di liberatoria per i peggiori. Può nascere in qualunque parte del paese il partito dannoso».
A Roma tornare indietro è difficile?
«Ci siamo chiesti se Roma è l’immagine dell’Italia o il peggio dell’Italia. Di certo sono venute in risalto situazioni che si trovano anche da altre parti, ma Roma è più avanti per via di una vecchia malattia della città che è il forte peso della rendita, delle reti di potere, le cene, le telefonate, la vicinanza al centro del potere ha creato una grossa leva di ceto medio parassitario. Che non c’entra con il Pd».
Ma ha invischiato il Pd capitolino?
« Dove chiedere favori è un comportamento molto diffuso, i rischi per ogni partito diventano maggiori. Il grosso della corruzione non è nel Pd, ma il Pd ci ha messo del suo. La scivolata nella corruzione diventa più facile e si crea un brodo di coltura ».
Come si rimedia al disastro dem romano?
«Ne parleremo venerdì con precisione chirurgica».
Ma girando l’Italia cosa pensano i dem?
« Da un lato sono felici di avere una leadership forte, dall’altro si sentono afoni e incapaci di comunicare con il centro».
I circoli del Pd capitolino sono un nido di vespe e come se ne esce?
«Se ne esce come dappertutto, valorizzando i circoli che realizzano progetti, che fissano risultati attesi verificabili, che si aprono ai cittadini».
Possibile che il Campidoglio sia sciolto per mafia?
« Mi auguro di no, visto lo straordinario coraggio di questa amministrazione che ha chiuso la discarica di Malagrotta il più grande scandalo della città di Roma. Valga come credito ».
Lei propone una direzione del partito di 15 membri invece che 200. Ma una delle accuse a Renzi è di mortificare il dibattito interno.
«Il Pd non ha un eccesso di decisionismo ma un deficit di partecipazione. La partecipazione senza leadership non serve a niente, ma la leadership senza partecipazione rinunzia alla conoscenza radicata nella società ».
Mai più un premier che sia segretario?
«La separazione tra partito e Stato si può sacrificare in un momento eccezionale in cui c’è un governo sinistra-destra, ma poi non più».
Lei è indicato come vice di De Luca oppure di Marino.
Cosa c’è di vero?
«Quel pizzico di mio contributo viene malinteso come ricerca di una posizione».

Il Sole 14.6.15
L’inchiesta. Buzzi ancora al centro del sodalizio bipartisan
Mafia Capitale, in arrivo nuovi filoni sulla politica
di Ivan Cimmarusti

Politici e funzionari pubblici. La rete intessuta da Mafia Capitale sarebbe stata capillare, al punto da fare man bassa di appalti col Comune di Roma, oltre a commesse sotto inchiesta con la Regione Lazio. Il «sistema» portato alla luce dagli accertamenti investigativi del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e dell’aggiunto Michele Prestipino, è tutt’altro che completato. I carabinieri del Ros Lazio, al comando del colonnello Stefano Russo, hanno numerosi nuovi capitoli d’indagine che puntano alla politica, sia di centrosinistra sia di centrodestra. Un incrocio bipartisan di cui avrebbe beneficiato Salvatore Buzzi, «braccio imprenditoriale» del boss Massimo Carminati. Attraverso i suoi contatti con Luca Gramazio, ex capogruppo Pdl, riesce a indurre Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti, a commettere supposti illeciti dietro l'appalto da 60 milioni di euro per il Recup (prenotazioni sanitarie), oltre a spingere l'ex capogruppo Pd, Marco Vincenzi, a emettere presunti emendamenti regionali che avrebbero consentito alle coop di Buzzi di ottenere 1,8 milioni di euro, per appalti legati al verde del Municipio di Ostia. C’è da dire che in Regione è stata avviata un'attività di rinnovamento. È il caso della nomina a capogruppo Pd di Riccardo Valentini, professore all’università della Tuscia e di Mosca, componente del Comitato per i mutamenti climatici che nel 2007 si è aggiudicato il premio Nobel per la pace. È un segnale in una Regione con politici e funzionari su cui pende l’accusa di aver oleato il «sistema Buzzi». Stando alle imputazioni preliminari dei sostituti procuratori Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, un ruolo di primo piano nella presunta associazione mafiosa lo avrebbe rivestito proprio un politico di primo piano della Regione, Gramazio. Negli atti giudiziari, infatti, si legge che «Luca Gramazio, prima consigliere comunale al Comune di Roma poi consigliere alla Regione Lazio, pone al servizio dell’organizzazione le sue qualità istituzionali, svolge una funzione di collegamento tra l’organizzazione la politica e le istituzioni, elabora, insieme a Fabrizio Testa (collettore dei rapporti con politici e istituzioni, ndr), Buzzi e Carminati, le strategie di penetrazione della Pubblica amministrazione, interviene, direttamente e indirettamente nei diversi settori della Pubblica amministrazione di interesse dell'associazione».

Corriere 14.6.15
La mannaia anti-scandali del Nazareno: circoli dimezzati, solo 15 faranno tessere
Le sezioni passano da 125 a 70. Il rischio (calcolato) di un crollo di iscritti
di M.Gu.

ROMA Sui circoli del Pd di Roma cala la mannaia del Nazareno. Da centoventicinque, diventeranno una settantina: quasi un circolo su due verrà cancellato dalla mappa della Città Eterna, ancora sotto choc per il coinvolgimento del partito nelle inchieste di Mafia Capitale.
Adesso si volta pagina, anche a costo di ridurre sensibilmente il numero degli iscritti. Il commissario Matteo Orfini sta per concludere il censimento dei tesserati per verificarne generalità e buona fede. La «bonifica» potrebbe portare a una riduzione delle attuali diecimila tessere, ma è un rischio calcolato. Al Nazareno, dove hanno aumentato a 30 euro l’offerta minima per l’iscrizione, hanno contato circa 7.500 tesserati in piena regola e sono disposti a cancellarne dagli elenchi uno su quattro, pur di rilanciare l’immagine del Partito democratico. «C’è un Pd sano, fatto da persone che ci mettono la faccia» promette Orfini, al lavoro perché il partito sia «all’altezza delle speranze suscitate nelle persone».
Basta con i circoli fantasma e i finti tesserati. Grazie anche al lavoro scientifico dell’ex ministro Fabrizio Barca, i dem ricominciano il viaggio e provano a convincere gli italiani che la parte pulita e trasparente prevale su quelle poche mele marce, che usano il partito per agguantare denaro o poltrone. Alla base della rivoluzione di Orfini c’è la decisione di aprire 15 maxi-circoli (uno per municipio), dove gli elettori potranno tesserarsi e che saranno guidati da un segretario municipale. Una nuova figura, per la quale Matteo Renzi pensa di affidarsi a dirigenti fidatissimi. Gli altri circoli, quelli che resisteranno alla mannaia moralizzatrice, si chiameranno sezioni e non potranno emettere nuove tessere. Ad esempio nel centro storico di Roma, dove c’erano undici «case» del Partito democratico, ne resteranno soltanto cinque e saranno capitanate dal maxi-circolo numero uno.
Al Nazareno ieri Barca ha presentato con Orfini il progetto «Luoghi idea(li)». Per l’ex ministro le cause dei mali del Pd romano non sono tutte imputabili al territorio, che pure ha le sue responsabilità: «Nella vicenda di Roma c’è stato anche un cinismo nazionale, che negli ultimi anni ha concepito i partiti come uno strumento di bilanciamento del potere». Cosa che, se la dici a un brigante, «il brigante dice “è roba mia”»... Insomma, il Pd è stato usato da alcuni come «uno strumento per fare carriera più rapidamente di altri».
I dem provano a uscire dal pantano, anche grazie al nuovo tesseramento che ha, tra le nuove regole, la richiesta di confermare l’adesione via mail o per sms, pena l’annullamento della tessera. Il senatore Ugo Sposetti, tesoriere dei Ds, si è stancato di aspettarla: «È giugno e non sono ancora riuscito ad averla. L’anno scorso nonostante solleciti e proteste mi fu consegnata a luglio. Ma io la voglio dal primo gennaio dell’anno, come era con i Ds. Da quando c’è il Pd arrivano in ritardo e per me è una grande sofferenza». Ma Orfini assicura che con il nuovo regolamento, «pulito e trasparente», tutto filerà liscio: «Iscrivetevi al Pd».
Barca lo sogna come un partito-palestra, aperto al confronto anche acceso, come se ci fosse «una Leopolda al giorno». La mappatura dei circoli contro la «logica dei capibastone», che ha innescato il degrado morale, sarà presentata il 19 giugno e non è l’unico progetto di Barca. Il professore propone di ridurre i membri della direzione nazionale e introdurre l’incompatibilità tra l’incarico di segretario nazionale e quello di capo del governo. Una norma che impedirebbe a Renzi di guidare sia il Nazareno che Palazzo Chigi.

Repubblica 14.6.15
Base dem sconfortata “Le sezioni si svuotano e la gente non ci parla”
Nel giorno del tesseramento molte le sedi che restano chiuse Lite nel circolo dove era iscritto Buzzi: “Il segretario è lo stesso”
La segretaria di Campo de’ Fiori: “Nei cittadini manca la voglia di reagire” Anche il commissario Orfini ammette: “In certe zone è scoppiata una guerra tra circoli”
di Annalisa Cuzzocrea

MILITANTI Ieri il Pd di Roma ha cominciato il tesseramento in molti quartieri. La procedura è commissariata, ci saranno controlli stringenti su chi prende la tessera che è passata da 20 a 30 euro

ROMA. Marina guarda il volantino e sbotta: «Ma lo avete visto il giardino qui dietro? Vi rendete conto di com’è ridotto? Siamo al centro di Roma, e largo Cairoli è invasa dalla spazzatura!». Ha portato il tesseramento in piazza, il Pd romano. Lo ha fatto in un week end difficile, quello che segue i nuovi arresti di Mafia Capitale. Per spiegare che sta ripartendo, che a questo serve il commissariamento, che si è fatta e si farà pulizia. Ma le persone come Marina, che almeno si fermano a parlare, a sfogarsi, sono poche. «Manca la voglia di reagire - dice Giulia Urso, segretaria del circolo storico di via Giubbonari - le persone non vengono neanche a darci contro, è come se nei cittadini si fosse instaurata una totale indifferenza alla politica. Ma nel dna del Pci c’è la capacità di rialzarsi». Prende i volantini con scritto “più il Pd fa più Roma cresce”, prova a distribuirli ai passanti. Incassa i rifiuti con un sorriso rassegnato, ma con Marina parla a lungo. «Noi siamo di sinistra», dice lei, bruna, 40 anni, una bimba che la guarda con gli occhi sgranati. «Non è possibile abbandonare un giardino così. Questa giunta dov’è? Dov’è il sindaco? ». Prova a dire, Giulia, che i guai di Roma sono cominciati con la destra. «Non è che si può dare la colpa sempre a chi c’era prima», continua Marina. I passanti si fermano, fanno sì con la testa. «Sono di sinistra perché sono stata educata in un certo modo, mio padre era operaio, ma il Pd la classe operaia, quella che oggi è nei call center, l’ha persa. Noi abitiamo al Quarto Miglio, quando piove i bambini non possono andare a scuola perché entra acqua. Vi pare possibile? Nessuno fa niente, e c’è un giro di mazzette di cui non si vede la fine ». I militanti del circolo rintuzzano con poca convinzione. Lei promette che magari passerà. Non è una nuova tessera, ma «stamattina ne abbiamo fatte 15», assicurano, e «tre erano nuovi iscritti. Non pensavamo che in un momento così si convincessero, eppure». Passa a salutare Laura Zorzi: «Era la moglie dell’autista di Togliatti. Lui è morto un anno fa». Qualche simpatizzante che riceve le e mail viene a salutare. Di facce nuove, davvero poche. È così anche a Ponte Milvio, il circolo che fu di Enrico Berlinguer, che in una mattina di sole rinnova le sue tessere, ma non va oltre. E a Monte Spaccato, quartiere popolare vicino all’Aurelia, dove nell’ora del mercato, al circolo che è proprio di fronte e che per l’occasione ha spalancato le porte, entrano quasi solo militanti. Anche se a un certo punto arriva Mario, 70 anni, che: «Io questi Grillo, Salvini, non li sopporto. Non mi ero più iscritto dalla morte di Berlinguer, ma ora ci sto pensando». Vicino alla stazione Tiburtina il circolo Italia è rimasto chiuso: «Stiamo affrontando l’emergenza profughi con una raccolta di viveri, qui vicino il centro di via Cupa sta scoppiando - racconta Claudio - e Marino non si è visto». È rimasto chiuso anche il circolo Versante Prenestino, quello dove aveva preso la tessera Salvatore Buzzi, uno dei principali indagati di Mafia Capitale. «Il commissario Migliore ha affidato i banchetti ai segretari di circolo eletti con il tesseramento gonfiato dell’anno scorso. A queste condizioni noi non ci stiamo», hanno fatto sapere i responsabili. Il presidente Matteo Orfini ribatte rassegnato: «Lì è in atto una guerra tra circoli, ma stavolta il tesseramento lo abbiamo commissariato. Ci sono una serie di meccanismi che non consentiranno trucchi». Non hanno ancora avviato il tesseramento neanche a Monteverde Vecchio, dove venerdì sera la festa dei giovani democratici è stata - a sorpresa - un successone, con 400 coperti ai tavoli improvvisati in piazza. Gli organizzatori sono ventenni come Lorenzo e Tommaso, che ti spiegano che in questo momento impegnarsi nel partito ha ancora più senso «perché se non lo fai tu ci sono gli altri, hai perso in partenza». Con i negozi vicini come sponsor e gli amici che si sono offerti di spostare casse di birra e salsicce hanno creato un evento cui stasera ha deciso di andare anche Ignazio Marino. «Mio nonno, che viene da Botteghe Oscure, mi ha detto: mi hai fatto tornare indietro di 60 anni», racconta Tommaso. E Maddalena Messeri, 24 anni, presidente dei giovani pd di Roma, prova a spiegare: «Adesso sembra sia tutta colpa del Pd, perché ci siamo presi tutte le responsabilità, stiamo facendo pulizia. Ma il 416 bis ce l’hanno quelli della destra. Bisogna andar fuori e dire forte che la maggior parte di noi lavora per la città senza fare porcate ».

Repubblica 14.6.15
Il Pd romano a caccia di iscritti. Grillo: “Noi al 30%, Marino si dimetta”
Ma Orfini e Bersani lo difendono. Domani sit-in dei 5Stelle
Martedì relazione al prefetto. Giubileo, sì al modello Expo
di Mauro Favale

ROMA . Il partito «pericoloso», come lo definì a marzo Fabrizio Barca, quello in cui proliferavano anche «iscritti finti e circoli “fantasma”», prova a rimettersi in moto. A Roma il Pd dà il via al nuovo tesseramento nel pieno della bufera su Mafia capitale. «Ora c’è un regolamento nuovo, pulito e trasparente. Siamo pronti a chiedere una mano alla gente per un partito più forte. Iscrivetevi al Pd», è l’appello del commissario Dem nella capitale, Matteo Orfini che ha lavorato sull’introduzione di accorgimenti per frenare la deriva degli ultimi anni. E quindi, costo della tessera che sale da 20 a 30 euro e conferma dell’iscritto via mail o sms. Ma che il tesseramento arrivi «in un momento difficile», il presidente del Pd non lo nasconde: «Vogliamo reagire, affrontando i problemi coi nostri elettori, parlando con loro e spiegando che c’è un Pd sano fatto da migliaia di militanti che ci mettono la faccia».
Più che sul destino del partito romano, però, gli occhi sono puntati su quello della giunta di Ignazio Marino. Martedì, sul tavolo del prefetto, Franco Gabrielli arriveranno le 1000 pagine (ciascuna col timbro “riservato”) compilate dagli ispettori che da sei mesi lavorano sul Campidoglio dopo l’avvio dell’inchiesta “Mafia capitale”. Il prefetto avrà 45 giorni per decidere se proporre lo scioglimento del Comune al Viminale che poi porterà la questione in consiglio dei ministri. Intanto, Gabrielli ne discuterà con il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, allargato al capo della procura, Giuseppe Pignatone. E in quella sede, quando si prenderà in esame la questione, il rappresentante del Campidoglio (parte in causa nella decisione) lascerà la stanza.
Nel frattempo, però, la pressione politica su Marino non si allenta. Ad alimentarla, Beppe Grillo e il suo Movimento che domani saranno in piazza, sotto alla statua di Marc’Aurelio, per «un’assemblea cittadina che chieda le dimissioni di “Ignaro Marino”». L’obiettivo, visto che «l’amministrazione comunale è attraversata da relazioni affaristiche e malavitose» è portare la capitale «a nuove elezioni». E se questo non accadrà, scrive su Facebook il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, «è solo perchè in queste ore diversi sondaggi danno il M5S al 30% ».
Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia, fa una valutazione “tecnica”: «Davanti a mafia capitale la nostra legislazione sullo scioglimento dei Comuni è carente e inadeguata perché l’alternativa tra sciogliere o non sciogliere non può considerare la complessità di un comune come quello della capitale». Lei, comunque, auspica che «non ci siano le condizioni». A difesa di Marino scende in campo anche Pierluigi Bersani: «Sono sicuro che il sindaco opererà per il meglio ».
Sullo sfondo resta l’appuntamento del Giubileo, con l’ipotesi che a guidare la macchina sia sempre il prefetto Gabrielli. Il suo dovrebbe essere, dice Orfini, «un ruolo di coordinamento tra soggetti istituzionali sul modello dell’Expo».Interpellato sulla questione, durante il corteo del gay pride, Marino risponde così: «Oggi non cambiamo argomento. A Roma conta l’amore».

Repubblica 14.6.15
Zagrebelsky: “Il sindaco innocente Renzi ambiguo,deve sostenerlo”
Si è aperto un gioco al massacro, ma non ha senso sacrificare una persona pulita
il Pd non difende il suo sindaco
intervista di Francesco Bei

ROMA. Salvate il soldato Marino. O per lo meno non sparategli alle spalle, se potete. Suona così l’appello che numerose personalità della cultura hanno rivolto nei giorni scorsi al presidente del consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi in difesa del sindaco di Roma Ignazio Marino. A sottoscriverlo - insieme a Furio Colombo, Eugenio Costa S.j., Ennio di Nolfo, Gian Giacomo Migone, Tana de Zulueta, Anna Chiarloni, Dora Marucco e Paolo Ruffini - anche Gustavo Zagrebelsky.
Professore, perché questo appello? Marino rischia di saltare?
«Perché tra noi firmatari, persone che ragionano dall’esterno, fuori dalla politica romana, si è diffusa una notevole preoccupazione vedendo il gioco al massacro che si è aperto dopo Mafia Capitale».
In fondo Marino è il capo dell’amministrazione, come può chiamarsi fuori da questa vicenda?
«Marino è una persona di riconosciuta indipendenza e pulizia rispetto al marciume che si è manifestato anche nel pd locale. E vogliamo sacrificare proprio questa persona? A nostro avviso, in una situazione così degradata, non è Marino sotto giudizio ma il Pd romano».
In che senso? Che cosa dovrebbero fare i dem romani?
«Ci si aspetterebbe che facessero quadrato intorno al sindaco. Perché, al fondo, la vera questione è questa: si tratta di vedere se il Pd romano intende sostenere Marino oppure no. E personalmente ho l’impressione che la debolezza del sindaco, che pure è evidente, derivi proprio dall’ambiguità del partito nei suoi confronti».
Il vostro appello però è rivolto direttamente a Renzi: cosa dovrebbe fare e non ha fatto?
«L’appello è rivolto al segretario del Pd perché la vicenda romana, per ovvie ragioni, non può essere confinata a livello locale. È d’importanza nazionale. La correttezza di Marino non è stata intaccata. Gli si rimprovera la debolezza. Ma la debolezza deriva da un difetto di sostegno da parte di chi dovrebbe darglielo, cioè dal partito che l’ha scelto come suo candidato sindaco. Il Pd non può chiamarsi fuori. Se Marino è solo, è perché il PD non c’è».
In fondo Renzi ha nominato Orfini commissario. E il presidente del Pd si è sempre speso in questi giorni per sostenere Marino. Non basta?
«Le valutazioni su quanto questo sostegno sia effettivo le faremo tra un po’, ora mi sembra prematuro. Certo non mi pare che questo sostegno, in qualche modo obbligato, sia stato fin qui particolarmente caloroso. Come s’interpreta il possibile commissariamento per il Giubileo? ».
Se è per questo pende anche la spada di Damocle del commissariamento prefettizio della Capitale...
«Quest’idea del commissariamento mi pare un escamotage. Chi l’ha detto che un commissario sia più forte o abile nell’accorgersi dei rapporti corruttivi che esistono tra politica e amministrazione? ».
A Marino si rimprovera proprio questo, di non essersi accorto di nulla. Non è una colpa per un sindaco?
«Ma chi è fuori dal giro, sindaco o commissario che sia, difficilmente si accorge di quel che accade solo guardando le carte o spulciando i capitolati d’appalto. Anche perché i corruttori e i  corrotti di solito sono abili nel mascherare le loro faccende sotto abiti formalmente ineccepibili. È un mestiere ad alta specializzazione
«A parte la stampa e la magistratura, gli unici che possono mettere un amministratore nelle condizioni di capire il contesto in cui sta operando sono i politici. Il Pd romano è disposto a fare chiarezza sul contesto e aiutare Marino a orientarsi oppure no? Per capire il malaffare non bisogna guardare le forme ma la sostanza del retrobottega, quella che viene fuori dalle intercettazioni, senza le quali dubito che avremmo compreso la vera natura di queste vicende. E quel retrobottega lo conoscono soltanto i politici: ora non facciano finta di cadere dalle nuvole e di non sapere nulla della corruzione che sta attorno a loro».

La Stampa 14.6.15
“In Turchia 2,5 milioni di rifugiati. Nell’Unione solo poche gocce”
L’ambasciatore in Italia: Bruxelles ha una visione ristretta
intervista di Antonella Rampino

Nei giorni in cui alcune centinaia di rifugiati alle stazioni ferroviarie di Roma e Milano sembrano mandare in tilt l’Italia, l’ambasciatore turco Aydin Adnan Sezgin, se non avesse lo standing di un Boris Biancheri, potrebbe tranquillamente dichiararsi allibito. «In Turchia noi abbiamo, dallo scoppio della guerra civile in Siria, qualcosa come 2 milioni e mezzo di profughi» dice soltanto sfogliando le carte del dossier «e, si badi bene, questi dati riguardano solo la Turchia».
Qual è la situazione, e quali problemi dovete affrontare?
«Duecentocinquantamila rifugiati siriani sono ospitati nei campi profughi. Ma i nove quinti di quei 2 milioni e mezzo vivono liberi in Turchia, con tutti i problemi connessi. Sono siriani, per lo più, e iracheni di ogni confessione. Il costo, per il nostro Stato è di 6 miliardi di dollari all’anno, l’Unione europea ci riconosce una cifra pari solo a 400 milioni dollari. Non critico Bruxelles, ma di certo la comunità internazionale europea ha una visione assai ristretta del problema dei flussi migratori».
Tanti rifugiati perché, anche se forse è poco noto alla pubblica opinione italiana, la Turchia è una frontiera prevista dal regolamento di Dublino. Quei finanziamenti li ricevete proprio perché trattenete sul vostro territorio il grosso dei migranti.
«È così, ed è evidente lo squilibrio che è nel regolamento di Dublino. L’Italia non riceve migranti solo dalla Libia, esiste un flusso che arriva dall’Est Mediterraneo: la Turchia è quella frontiera, e c’è una cooperazione con l’Italia per prevenire quel flusso migratorio.Teniamo regolari riunioni tecniche, le ultime sono state il 26 e il 29 maggio con importanti delegazioni, qui in ambasciata. Solo nel 2014 abbiamo fermato 59mila migranti irregolari, e di questi ne abbiamo salvati in mare 15mila. Dall’inizio del 2015 i guardacoste turchi hanno bloccato 7.237 migranti irregolari. Noi cooperiamo con l’Italia. Rispettiamo e ammiriamo quel che fa l’Italia con il salvataggio in mare di tante vite umane, e per i centri d’accoglienza. Ma non si può non notare che le poche decine di migliaia di migranti che sono in Italia o negli altri paesi dell Ue sono un goccia rispetto al mare di profughi che ospitiamo in Turchia, Giordania, Libano».
E che arrivano a un totale di circa 6 milioni. Vorreste maggiori aiuti dalla Ue? La Turchia è sospettata da molti analisti anche internazionali di benevolenza verso l’Isis, di lasciar andare molti combattenti verso la Siria e l’Iraq. Avendo poi pure il problema dei «foreign fighters».
«La Turchia riceve ogni anno 35 milioni di turisti, come controllarli? È impossibile. E difficile è anche controllare le centinaia di chilometri di nostre frontiere con l’Iraq. Possiamo fermare solo i sospetti, e coloro su cui abbiamo informazioni, e lo facciamo. Sta alla Ue prevenire, e impedire ai potenziali terroristi di partire dai Paesi Ue. Adesso comincia ad esserci una miglior cooperazione tra le intelligence, abbiamo 11.500 terroristi sulla lista di coloro che non possono entrare i Turchia, e tra questi 7 sono italiani. Abbiamo rinforzato i controlli stradali, in porti e aeroporti, e facciamo tutto quanto è possibile per non essere utilizzati come paese di transito verso il Califfato. Ma è evidente che, oltre la cooperazione esistente, anche i paesi della Ue devono impegnarsi al massimo».

La Stampa 14.6.15
Dai Baltici al blocco dell’Est. Ecco chi non vuole i profughi
Quasi la metà degli Stati rifiuta il sistema di redistribuzione
di M. Zat.

La sintesi della presidenza lettone è che «alcuni Stati hanno espresso pareri divergenti sulla natura obbligatoria della condivisione degli oneri». Venerdì erano una dozzina esatta, dodici governi contrari alla redistribuzione di emergenza di quarantamila migranti che hanno diritto alla protezione internazionale, i potenziali asilanti e rifugiati, su base non volontaria. Lo scatto di solidarietà chiesto dalla Commissione alle capitali dell’Unione ha spaccato l’Europa, che ora deve trovare un accomodamento entro il vertice del 25 giugno, per riaffermare i suoi valori e proteggersi dall’offensiva populista ed euroscettica che non attende altro che una smagliatura per attaccare la bandiera a dodici stelle. Una soluzione che salvi integralmente il principio della riallocazione senza imporlo.
Dodici giorni
Ci sono dodici giorni per negoziare. La Germania vuole le «quote» perché ritiene che questo sia il modo per cominciare a ripartire davvero il grave compito di ricevere chi fugge dalle guerre e non può essere rimandato a casa senza correre il rischio di essere ammazzato. Berlino è in testa alla lista dei paesi accoglienti e vorrebbe che tutti facessero la propria parte. Se frena appena è per dare un mano all’alleato Hollande, solidale perché socialista, ma assediato da conservatori e destra. I due partner vogliono andare avanti, ma con cautela. Aiuteranno l’Italia, alla fine, a trovare la giusta formula. «Ci sono contatti, si sta uscendo dalla contrapposizione» - diceva ieri una fonte diplomatica.
I malumori della Spagna
Non ditelo ai baltici. E nemmeno a quelli dell’Est, dunque a polacchi, ungheresi, slovacchi, cechi e così via, una pattuglia folta rafforzata da Spagna e Portogallo, due delegazioni che, alla fine, potrebbero ripensarci. Sono quasi la metà dei venticinque interessanti, totale a cui si arriva togliendo danesi, britannici e irlandesi che, per statuto, non partecipano alle politiche migratorie (hanno «opt out»). Potrebbe essere una minoranza di blocco qualora si procedesse con un voto che nessuno vuole.
Il fronte che sostiene l’obbligatorietà è formato da dieci paesi, fra i quali Francia, Germania, Belgio, Svezia, Austria, Malata, Olanda e Cipro hanno però dubbi sui criteri di ripartizione, ostacolo non insormontabile. Italia e Grecia sono favorevoli senza condizioni. Ovviamente. Dovranno vedersela coi sei convinti che non si faccia abbastanza per i rimpatri (francesi, tedeschi, olandesi, cechi, ungheresi, spagnoli). È inevitabile. Ma la mediazione potrebbe venire qui, da un patto politico costruito su maggiori impegni ai confini con più generosità nell’accogliere i disperati. Magari «l’accettazione volontaria del piano obbligatorio» così che non si crei un precedente. Strano, ma si andrebbe avanti. E si salverebbero vite.

La Stampa 14.6.15
I profughi respinti dalla Francia rifugiati sugli scogli a Ventimiglia
Stretti tra la polizia francese e quella italiana: sciopero della fame

Da una parte i blindati della gendarmeria francese, schierati sul confine, in linea con il cartello che indica la frontiera di Ponte San Ludovico. Dall’altra poliziotti e i carabinieri con gli scudi in mano, immobili dopo una giornata di tensione. Cala il sole e finisce così, con la scena di un assedio. Ottanta migranti sugli scogli, pronti a tuffarsi in mare se qualcuno fa un passo verso di loro. Urlano: «Non possiamo tornare indietro, di qui non ce ne andiamo».
Cercheranno di prenderli per stanchezza, impossibile l recuperarli uno per uno. Arriva il buio e sono ancora lì, ma la via per la Francia è bloccata. Arriva il sindaco di Mentone Jean Luc Guibal e non ha mezze parole: «La frontiera resterà chiusa, devono rassegnarsi, non passeranno mai».
La giornata in cui la crisi esplode va in scena sulla litoranea, la strada a mare che da Ventimiglia sbuca proprio a un passo dalla cittadina francese, all’altezza dei Balzi Rossi. Una crisi annunciata: nei giorni scorsi la Francia ha bloccato quasi millecinquecento immigrati che avevano oltrepassato il confine e mille li ha rispediti indietro, senza tanti complimenti. Ogni regola, ogni accordo tra i due Paesi è saltato.
Nikwey, ghanese, mostra il biglietto del treno. Era già arrivato a Nizza, in stazione l’ha acquistato per 170 euro. E’ partito per Parigi. Nulla da fare: «Il Tgv è stato bloccato in campagna, ci hanno identificati e fatti scendere, poi ci hanno fatto entrare tutti sui cellulari della polizia». Con lui una decina di altri profughi. Da quel momento il viaggio della speranza è andato a ritroso: «Ci hanno portato al confine e poi ci hanno rispediti indietro. Urlavano: Italia, Italia». Enrico Ioculano,il giovane sindaco Pd che ha strappato la cittadina a un dominio del centrodestra che sembrava intangibile, ha un diavolo per capello: «Questo è un caso diplomatico, non si respinge la gente così».
A un passo da Mentone ci sono gli stranieri rispediti indietro, spesso senza neppure la prova che arrivassero davvero dall’Italia. Poi ci sono quelli che sono scappati dai centri di accoglienza in Liguria. A decine hanno occupato la stazione ferroviaria, dove i volontari li assistono e portano da bere e da mangiare. Ma la gran parte si è diretta verso Ponte San Ludovico. Gli immigrati arrivano dal Ghana, dal Sudan, dall’Eritrea, dalla Somalia, dall’Egitto, dalla Siria, dalla Libia. Una cinquantina si contrappone ai gendarmi, tendendo improvvisati striscioni e scandendo slogan. «We are not animals», non siamo animali. «We are human beings», siamo esseri umani.
Alle cinque e mezza dai blindati scendono poliziotti e carabinieri, impugnano gli scudi di plastica. L’ordine arriva da Roma, dal ministero dell’Interno: il piazzale va sgomberato. Gli agenti si frappongono esattamente in mezzo tra i profughi e i gendarmi. Iniziano a spingere con gli scudi. C’è chi prova a resistere, molti altri fuggono verso il mare, qualcuno si getta in acqua per poi far ritorno sugli scogli. Altri quaranta immigrati vengono sospinti dal battaglione mobile verso il tunnel verso Ventimiglia. Dall’altra parte un pullman ne accoglierà una quarantina, nuovamente diretti verso i centri di accoglienza. Altri però si disperdono. Quando ormai fa sera li incontri dovunque. Sulla strada che porta all’altra ex dogana tra i due Paesi, quella più in alto di Ponte San Luigi. Oppure li vedi camminare in colonna nelle galleria. Oppure spuntano dagli anfratti dove sono riusciti a rifugiarsi, per riprendere il cammino. Per dove non si sa: sono stanchi, confusi, smarriti. L’Aurelia è sbarrata. Da Ventimiglia, la Francia non si può più raggiungere da qui. Anche in autostrada è ricomparsa una frontiera e Schengen non esiste più.

il Fatto 14.6.15
“Affondare i barconi? Tutto inutile, colano a picco già da soli”
Il comandante del centro che coordina i salvataggi in mare: “Sono carrette usa e getta. Le poche che arrivano sono prove per i pm, da non distruggere
di Lorenzo Galeazzi
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_fatto_pagina_4_0b6eb4708e5231

Corriere 14.6.15
Serve una norma che salvi i minori dall’invisibilità
di Fiorenza Sarzanini

I più piccoli vengono imbarcati dagli adulti nella speranza che trovino una nuova vita. I più grandi lo fanno da soli, certi che una nuova esistenza è possibile. Sono oltre 9.000 i minori non accompagnati giunti in Italia negli ultimi mesi e ancora presenti nei centri di accoglienza. Almeno altri 5.000 mancano invece all’appello. Un dato allarmante, soprattutto tenendo presente che la maggior parte sono egiziani tra i 16 e 18 anni e questo li rende prede ambite per la criminalità.
Nell’emergenza migranti che il nostro Paese fa sempre più fatica a gestire, quello dei minorenni è un capitolo delicato e urgente. Perché manca un progetto strutturato per il reinserimento di bambini e ragazzi che rimangono per mesi nei centri di accoglienza con tutti i rischi che questo comporta. Le organizzazioni non governative, «Save the Children» in prima linea, hanno più volte sollecitato l’approvazione della nuova legge che introduca misure di protezione e l’avvio di progetti mirati. Non hanno ancora trovato ascolto.
La maggior parte di questi stranieri rimane in Sicilia, proprio per la difficoltà di sistemarli nelle comunità e poi affidarli a famiglie disposte ad ospitarli temporaneamente o in via definitiva. Altri fuggono ed è questo il pericolo più grave, quello che sempre più spesso non si riesce ad evitare. Lo Stato è in affanno di fronte a un flusso migratorio che non ha precedenti. Ma nulla giustifica la mancanza di un piano di intervento che salvi dall’invisibilità, o peggio dalla delinquenza, migliaia di giovani.

Repubblica 14.6.15
Marek Halter
“Oggi il problema non è più redistribuire i disperati alle frontiere ma pensare ai milioni che seguiranno”
“L’Occidente risponde solo con rifiuti ma le diseguaglianze le abbiamo create noi”
“Dovremmo tutti farci una domanda: saremmo pronti ad accogliere una famiglia di rifugiati?”
intervista di Anais Ginori

PARIGI «FUORI da una chiesa, quante persone si fermano per dare una moneta al mendicante? Pochissime. Eppure sarebbe un dovere prescritto in tutte le religioni, anche nell’Islam. Allo stesso modo, i governi si sottraggono alla loro responsabilità morale: non esiste una legge che obbliga a essere generosi». Lo scrittore francese Marek Halter ha vissuto per dieci anni come ebreo polacco sans papiers e poi trent’anni da rifugiato politico. «Porto con me la memoria delle mie origini. Ma non voglio essere un demagogo, né un sognatore », avverte. «L’immigrazione è un tema sul quale anche noi intellettuali dobbiamo provare a ragione in modo pratico».
Cosa pensa di due paesi europei che si rimpallano migranti al confine, come accade in queste ore a Ventimiglia?
«Non è un bello spettacolo ma il governo francese non lo fa per ragioni ideologiche. È sotto pressione dell’opinione pubblica che ha paura. Dagli anni ‘60 agli anni ‘90 l’Europa viveva in una relativa tranquillità sociale. La Francia ha accolto più di un milione di francesi di Algeria. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la crisi, esistono tre milioni di disoccupati che vivono con i sussidi. Come può reagire un francese, o un italiano, che ha paura per l’avvenire dei suoi figli vedendo arrivare migliaia di migranti?».
Si può sconfiggere il discorso della paura?
«Dovremmo tutti farci una domanda: sono pronto ad accogliere una famiglia di rifugiati a casa mia? Io lo farei, perché mi ricordo nel 1938 quando Hitler non aveva ancora deciso di massacrare tutti gli ebrei ma voleva già sbarazzarsene. Ci fu la conferenza internazionale di Evian per sapere quali paesi erano disposti ad accogliere ebrei. La sola nazione che ha risposto positivamente è stata la Repubblica Dominicana. In fondo oggi accade la stessa cosa. La reazione dei governi a Bruxelles, davanti al piano della Commissione che prevede la redistribuzione dei rifugiati, è stata la stessa di Evian: una serie di rifiuti».
Il ruolo di chi governa non dovrebbe essere proprio affrontare con lucidità emergenze come queste?
«Oggi il problema non è più redistribuire i migranti che sono a Calais o Lampedusa. Bisogna pensare ai milioni che seguiranno. Dobbiamo essere capaci di immaginare una soluzione globale per l’Africa. Abbiamo lasciato che la miseria devastasse un continente e ne paghiamo le conseguenze». Si può trovare un’alternativa alla retorica del ritorno delle frontiere?
«Come aveva già previsto Karl Marx, il mondo è diventato uno. Ma dentro a questo mondo abbiamo creato delle disuguaglianze sociali ed economiche immense. La redistribuzione della ricchezza si fa attraverso ondate di immigrazione non controllata anche se prevedibile. Ho parlato qualche giorno fa con il presidente del Congo. Proponeva di riunire alcuni paesi africani per creare in Libia una zona sicura nella quale accogliere i rifugiati. Non sono sicuro che sia una buona idea. Ma bisogna ragionare su piccoli passi».
I campi di migranti evacuati nelle capitali, i piani Ue rifiutati, i muri anti-migranti ai confini. Qual è la differenza tra sinistra e destra sull’immigrazione?
«Magari non nelle azioni, ma almeno nelle parole. La destra non ha bisogno di trovare giustificazioni morali. La sinistra è costretta a fare dei gesti. La Francia è pronta a mandare coperte e cibo per dei migranti a patto che rimangano in Italia. Se il governo decidesse di aprire la frontiera a Ventimiglia, sa con matematica certezza che perderebbe le elezioni. E comunque la questione è complessa. Anne Hidalgo (sindaco socialista di Parigi, ndr ) ha chiesto di aprire un centro in cui accogliere i migranti. Ma per quanto tempo, e chi penserà al loro futuro? Non si tratta solo di accoglierli, bisogna anche sapere come integrarli nella società. Sono dilemmi umani che esistono dalla notte dei tempi. Caino si domanda se deve essere il guardiano di suo fratello. Di sicuro non deve essere il suo genitore ».
Perché si sente così poco la voce degli intellettuali?
«Prima erano battaglie politiche: dovevamo salvare vittime dei gulag, del regime in Cambogia o dell’apartheid in Sudafrica. Era facile. Si lanciavano campagne di boicottaggio, petizioni e manifestazioni. Erano battaglie da fare per persone che volevano la libertà. Oggi ci troviamo in una situazione imprevista: dobbiamo immaginare la condivisione della ricchezza del mondo. Certo, potremmo organizzare una manifestazione di solidarietà con i migranti a Ventimiglia. Ma sarebbe solo per darci una buona coscienza».

Repubblica 14.6.15
Perché vogliamo restare umani
di Adriano Sofri

IL MARE, quello vero, ha ingoiato tanti esseri umani e tanti ne ha spaventati, che la lingua rilutta alle sue meravigliose metafore. Tuttavia anche noi di terraferma, siamo in alto mare. Si incappa in un gorgo e ci si affanna a uscirne, fino a perdere le forze. Forse stiamo facendo così. Fermiamoci un momento, e facciamo il punto. Abbiamo due punti cardinali, noi.
IL PRIMO , la nostra stella, è il comandamento: restare umani. I migranti sono il nostro prossimo. Cercano la nostra mano per mettersi in salvo sulle nostre navi, per sbarcare sulla nostra terra. Questo è quanto. Coloro cui il nostro prossimo piace annegato, sono disgustosi. Noi vogliamo restare umani.
Coloro i quali si limitano ad ammonire che bisogna accogliere tutti, sono meravigliosi, purché vedano il costo. Cambiamenti così bruschi e drammatici, non si governano col richiamo alla fredda razionalità e alla calda morale. Il terreno manca, ci si sente sradicati e derubati — del proprio paesaggio famigliare, delle proprie abitudini, di sé. Quando quella soglia emotiva è superata, ricorrere all’appello alla razionalità, anche la più splendida, è come esortare alla calma una folla presa dal panico. Non importa quanto l’allarme — l’incendio, il naufragio — sia falso o vero. Quella soglia è stata in buona parte superata. Ci dividiamo fra un egoismo che si crede sacro e un altruismo che ignora come il travaso precipitoso di popolazione esasperi uno stato d’animo e minacci uno stile di vita.
Gli italiani, “brava gente”, erano andati per il mondo, e il mondo non era venuto da loro. Il ricambio è avvenuto dentro una globalizzazione che ha destituito classi — gli operai e gli artigiani, i ceti medi — che occupavano un posto riconosciuto nella gerarchia sociale e contavano su una promozione. E anche i più poveri hanno visto soppiantato il proprio titolo di ultimi da nuovi arrivati, e sono retrocessi al desolato rango di penultimi. Quelli che, davvero o in immaginazione, si vedono “ sorpassare dagli stranieri” nelle graduatorie… Nostalgia del passato e paura del futuro, non sono l’opera di neopopulisti xenofobi. (L’avvento del fascismo non fu l’opera dei fascisti). Costoro ne abusano, tanto più lucrosamente quanto meno lucida è la parte che confida di restare umana. La sinistra — chiamiamola così, per incoraggiamento — che emula la xenofobia della destra, facendole uno sconto, è destinata probabilmente a perdere, sicuramente a perdersi. Caccia agli scafisti, pescherecci affondati, il balletto sulle quote, sono un vivacchiare di espedienti.
Non che la crassa demagogia della Lega non meriti d’essere smascherata; l’ha fatto Enrico Rossi che conosce scabbia e treni pendolari. La Lega vota contro ogni partecipazione a missioni nei luoghi da cui fuggono i migranti, e però è pronta ad aprire il fuoco sui treni. Gridava che Mare Nostrum adescava i migranti. Con Triton aumentarono sia gli arrivi che gli annegati: sconfessione tragica, e hanno fatto finta di niente. Salvini ha la linea: il suo responsabile all’immigrazione, un signore nigeriano, lo accompagnerà ad Abuja, e lui chiederà “ai ministri di quel governo di che cosa hanno bisogno”: così si risolve il problema. In Nigeria: 180 milioni di abitanti, il nordest in mano a Boko Haram, mezzo paese governato dalla Sharia, petrolio e guerre civili a sud, la più forte economia africana, eccetera, e lui gli chiederà: “Di che cosa avete bisogno?”. Vorrei esserci, a vedere che faccia fanno.
Intervenire economicamente nei paesi dai quali nasce l’immigrazione, buona idea. In genere ci “interveniamo” per aiutare i dittatori a spogliarli delle loro ricchezze. L’idea è così invecchiata che viene da piangere: intervenire in Siria (quinto anno di guerra civile, 220 mila morti, 10 milioni e mezzo fra sfollati e profughi)? In Iraq? In Somalia? In Eritrea? Tali sono i paesi da cui ci arrivano gli scabbiosi.
Matteo Renzi può essere diabolicamente tentato di restare un po’ meno umano. Amato com’è, anche il Papa ha un problema. La Chiesa cattolica è il baluardo della solidarietà verso lo straniero, e però l’incupimento del sentimento popolare l’ha isolata, in questa degnissima causa, altrettanto che sui temi della sessualità o della fine della vita. Non c’è più un fondo cattolico che sorregga a sufficienza l’italiano brava gente.
Restare umani: ogni volta che ne incontriamo uno, di questi nostri simili che si giocano la vita per un sì o per un no. Intanto distinguere, e far leva sulle innumerevoli buone volontà che si adoperano nell’accoglienza, dissipatamente. Le assurde pratiche sull’asilo. Si può immaginare un Piano, e se paia troppo per i nostri tempi corti, tanti piani minori, invece di dilapidare gente nei Centri-galera e nei giardini delle giostre.
Questo movimento cesserà di essere febbrile se si addomesticherà la Grande Guerra nel vicino oriente. È quello il contagio, altro che la scabbia. Ormai ne parliamo come di un fenomeno di costume: come si passa a fil di lama senza schizzarsi, come si coprono le donne di un sudario nero. Il Califfato ha festeggiato il primo anniversario a Mosul. Là è la questione “epocale”, quello è l’altro polo del nostro impegno a restare umani. C’è una gara col tempo: se quelle guerre non saranno spente, l’Europa andrà in pezzi, e i pezzi saranno fascisti e razzisti. Andato al governo, Renzi poteva dire questo, e prima doveva convincersene. Le sorti di quelle guerre sono affare dell’Europa, quando le arriva ancora una minima risacca: milioni aspettano, nei campi di Libano, Giordania, Turchia, nei lager della Libia. Abbiamo lesinato fucilini di riporto ai curdi, e ventilato incursori subacquei al molo di Zuwara. È ridiventato un problema di Obama: il quale fa il minimo sindacale. L’Europa avrebbe qualcosa da raccontare a quei popoli martoriati: che anche lei ebbe la sua Grande Guerra fratricida, e che perché non tornasse più immaginò di federarsi, e che nonostante tutto la vita vi è ancora libera e dolce abbastanza perché gli scampati dal vicino oriente si mettano a un nuovo repentaglio per raggiungerla. I confini là non esistono più, e restaurarli è un’illusione. Un’Europa capace di queste due cose: contribuire a fermare le guerre di bande, e proporsi come un modo di convivenza rispettosa delle diversità, dovrebbe credere in se stessa. Dopotutto, lo farebbe per salvarsi.

Il Sole 14.6.15
Il Viminale e la gestione dell’emergenza. Quasi tutti spesi i 400 milioni in bilancio
Salgono a oltre un miliardo i costi dell’accoglienza nel 2015
di Marco Ludovico

ROMA L’emergenza immigrati sfonda le previsioni finanziarie sui costi per l’accoglienza: l’onere più immediato, di maggiore impatto. Senza contare i costi vivi del personale Ps e delle altre forze dell’ordine impiegate, la mobilitazione delle unità della Guardia Costiera, della Marina militare e della Guardia di Finanza, la mobilitazione degli enti locali, Comuni in testa.
Fatto sta che a bilancio dello Stato, per l’accoglienza immigrati, sono previsti quest’anno circa 400 milioni. Peccato che sono stati spesi tutti o quasi. Per forza: siamo già a quota 54mila sbarchi e c’è tutta l’estate davanti, la stagione più florida di viaggi della disperazione e della morte nel canale di Sicilia. L’anno scorso, a consuntivo, l’Italia ha speso circa 700 milioni per l’accoglienza e gli arrivi hanno registrato la cifra record: 170mila a fine 2014. Le previsioni 2015 del Viminale parlano di 200mila arrivi e la stima potrebbe essere perfino troppo prudente. Certo è che i 400 milioni di quest’anno - budget al ribasso calcolato dai tecnici del Tesoro in previsione di un ridimensionamento del boom di sbarchi - si rivelano una cifra del tutto inadeguata. Il rischio è che ce ne vogliano in più quasi il doppio: alcune stime al Viminale parlano di 700 milioni aggiuntivi necessari. Se fossero confermati dagli eventi e le necessità impellenti, saremmo a oltre un miliardo di costi per la sola accoglienza. Cifre, peraltro, credibili, visto che c’è da mettere in atto tutto un nuovo sistema allo studio dei tecnici del dipartimento Libertà civili del Viminale guidato da Mario Morcone. Con la realizzazione degli hotspot, i punti di sbarco così come li vuole l’Unione europea, con la garanzia assoluta di certezza dello svolgimento di ogni procedura: verifiche sanitarie, identificazione, impronte digitali e foto-segnalamento. Con la definizione e messa in opera degli «hub» regionali, centri di prima accoglienza da distribuire su tutto il territorio nazionale. E, infine, la destinazione allo Sprar, il sistema di ospitalità e integrazione per i richiedenti asilo e rifugiati in capo ai Comuni.
Intanto, subito, ogni giorno, il flusso di soldi per pagare alloggi e sistemazioni di prima accoglienza, dagli ostelli agli alberghi, produce un costo vivo e ineludibile per il ministero dell’Interno guidato da Angelino Alfano. Davanti a questo scenario i 60 milioni di euro proposti all’Italia dalla Commissione europea nel piano in discussione a fine mese sembrano una cifra quasi irrisoria.

Il Sole 14.6.15
Risposte rapide per scongiurare una disfatta a Bruxelles
di Marco Ludovico

C’è tanta, troppa confusione tra i ruoli e gli interventi in atto contro gli assembramenti di migranti nelle stazioni. Un fenomeno prevedibile, non da ieri, e oggi in crescita costante. Con tutti i rischi conseguenti. Eppure il problema è noto da tempo, comprese le implicazioni del degrado, dell’emarginazione, di zone persistenti di criminalità come quelle dei furti dei rom a Termini e nella metro di Roma.
La stretta ai confini con Francia e Germania alimenta le concentrazioni. Il deflusso dei migranti dall’Italia verso questi stati, per ora, è bloccato. La stazione ferroviaria, poi, resta comunque il luogo di partenza simbolico di un sogno del futuro prossimo. Ovvio che chi vuole andar via dall’Italia cerchi di non restare nel centro di accoglienza: i binari ferroviari hanno un fascino irresistibile. Se poi dopo lo sbarco sulle nostre coste l’immigrato ha avuto la fortuna di non essere stato identificato, tanto vale approfittarne per andare via dall’Italia. Senza la possibilità, per lo stato di arrivo, di riportarlo nei nostri confini benché il trattato di Dublino preveda l’obbligo di permanenza nella nazione di primo approdo. A tutto questo si può aggiungere un processo scontato di imitazione collettiva ed ecco che lo spettacolo delle concentrazioni di stranieri nelle stazioni ferroviarie, sotto gli occhi di tutti in queste ore, è destinato a non concludersi. Anzi ,diventa impressionante ogni giorno di più. Non risolvere in tempi brevissimi questo scenario implica conseguenze pericolose. Sul piano dell’ordine pubblico, le stazioni ferroviarie diventano luoghi sempre più critici. Sul piano politico-internazionale, è una figuraccia dell’Italia. Non è proprio il massimo davanti alla scadenza di fine mese a Bruxelles, con un piano contro l’emergenza immigrazione che già ci lascia in una posizione subalterna rispetto ai big - Francia, Inghilterra, Germania - dell’Europa.

Il Sole 14.6.15
Se i greci sono favorevoli sia all’euro che a Tsipras
di Vittorio Da Rold

Alexis Tsipras ha ancora il sostegno della maggioranza dei greci, e chi spera in Europa in un rapido cambio di governo ad Atene dovrebbe tenerlo bene a mente. Ovviamente dopo quattro mesi di convulsi negoziati con l’ex trojka in rappresentanza dei creditori internazionali, le percentuali nei sondaggi non sono più così robuste come dopo il voto di gennaio.
Ma ancora oggi il 54% degli elettori greci - secondo la società Public Issue - è favorevole alla seppur alternante strategia negoziale della maggioranza di governo, mentre Syriza, il partito del premier, è sempre saldamente al top delle preferenze con un ottimo piazzamento del 48% (12 punti in più dei voti ottenuti il 25 gennaio) davanti parecchie lunghezze rispetto al misero 21% del centrodestra dell’ex premier Antonis Samaras sempre più isolato nel suo stesso partito di Nea Demokratia come pure Evanghelos Venizelos che ha deciso di non candidarsi più alla segreteria del Pasok ormai a rischio estinzione.
I greci, dicono i sondaggi, se dovesse cadere Tsipras guarderebbero non al passato ma ad Alba Dorata, la formazione neonazista che potrebbe guadagnare da un ritorno alle urne consentito, però, dalla Costituzione solo dopo un anno dalle precedente tornata elettorale.
Solo un greco su cinque, in sostanza, rimpiange il precedente governo Samaras, accusato di essere stato troppo indulgente con le richieste della trojka. Come pure nessun ateniese vuole abbandonare l'euro visto che il 72% degli elettori, in caso di referendum ipotizzato, ma poi sempre escluso dal governo, voterebbe per rimanere nella moneta unica mentre il 24% è disposto a tornare alla dracma. Tra questi c’è anche Costas Lapavitsas, economista a Oxford ma militante di Syriza e consulente del premier Tsipras, che isolato nel suo stesso partito, continua nei talk show ad Atene a indicare la via dell’uscita dall’euro e del ritorno alla dracma come la più opportuna per la Grecia piuttosto che dover continuare a sopportare altre misure di austerity.
I greci sarebbero disposti a bere altre dosi di austerità (tagli alle pensioni e aumenti dell’Iva) solo nel caso venisse ridotto (si dice almeno del 17%) il debito pubblico che veleggia al 177% del Pil pari a 320 miliardi di euro.
Chi punta sulla debolezza politica di Tsipras o sulle divisioni interne a Syriza con il leader dell’ala sinistra del partito, Panagiotis Lafazanis, sbaglia i suoi calcoli. Anche la coalizione con i nazionalisti dei Greci indipendenti di Panos Kammenos finora ha retto alla prova dei fatti, tenuta insieme del collante dell’ostilità a nuove misure di austerità. In questo quadro anche un accordo “sporco”, cioè un ulteriore intesa ponte che porti dopo l’estate al varo di un terzo piano di salvataggio, sarebbe per Atene un compromesso accettabile.

La Stampa 14.6.15
Gitai: un film su Rabin perché la pace resti un sogno possibile
Il regista israeliano: il momento è triste, ma essere pessimisti significherebbe diventare immobili
intervista di Fulvia Caprara

Cinema e poesia, dice Amos Gitai, nato nel ’50 a Haifa da un architetto ucraino del Bauhaus e da un’insegnante di teologia ebraica studiosa di psicanalisi, non sono poi così distanti. Anzi, hanno molto in comune, soprattutto la «capacità di creare libere associazioni che, accostando linguaggi differenti, riescono a farci passare facilmente da un’emozione all’altra». I suoi film, da Kadosh a Kippur, da Free Zone a Ana Arabia, insieme realistici e onirici, politici e filosofici (celebrati in questi giorni nell’ampia retrospettiva della manifestazione «Poevisioni» a Genova) hanno sempre raggiunto l’obiettivo, muovendo sentimenti che aprono il confronto, ponendo interrogativi che stimolano la discussione.
Che impressione le fa sapere che saranno rivisti i suoi vecchi film, legati a epoche storiche e sociali diverse?
«Mi fa piacere, penso soprattutto a Esther, il mio primo lungometraggio, che era basato sul testo biblico e che io amo molto. Penso che, oggi più che mai, sia importante guardare indietro, per cercare di capire meglio il presente. La Bibbia può essere riletta come metafora della nostra attualità. Se restiamo bloccati, chiusi nel presente, non abbiamo nessuna speranza di progredire».
L’escalation di violenza legata all’espandersi dell’Isis fa pensare al peggio...
«Certo, il momento è molto triste, ma essere pessimisti significa diventare immobili. L’ottimismo è invece l’unico modo per reagire e andare avanti».
Infatti lei sta preparando un nuovo, importante film.
«Stiamo finendo il missaggio. È la storia dell’assassinio, avvenuto esattamente 20 anni fa, del premier Yitzhak Rabin, il titolo è Rabin the last date. Pensare oggi al suo progetto di riconciliazione contrasta terribilmente con la cronaca che ci circonda, ma, proprio per questo, è stato importante fare il film, anche per ricordare che c’è stato un tempo in cui si pensava che i conflitti potessero comporsi».
Parteciperà al dibattito intitolato «Il cinema come strumento di pace». È tuttora convinto che il cinema possa realmente migliorare la realtà?
«Sì, credo che i film possano riuscire a veicolare idee, anzi, mi preoccupa il fatto che buona parte del cinema contemporaneo stia virando verso la leggerezza più totale. E invece bisogna usarlo in un’altra maniera, per spingere la gente a riflettere».
In molti dei suoi lavori c’è un intreccio originale di piani realistici e fantastici, succederà anche in «Rabin the last date»?
«Non voglio parlare troppo del nuovo film, comunque assolutamente sì, anche stavolta ci sarà quel tipo di mescolanza».
La rassegna di cui è ospite è dedicata alla poesia, quali sono i suoi autori preferiti?
«Mi piacciono molto alcuni anglosassoni, come William Butler Yeats e Waltl Withman , ma apprezzo anche un nutrito gruppo di scrittori mediorientali».
Anche lei ha scritto un libro, «Monte Carmelo», in cui rievoca la sua storia personale intrecciandola con quella del popolo ebraico e del conflitto arabo-israeliano.
«Sì, e credo che in questi giorni se ne parlerà, nel libro ci sono anche lettere di mia madre».

La Stampa 14.6.15
Come l’Isis ha cambiato la guerra
Dalla Mesopotamia alle pendici dell’Indu Kush, (non si potevano scegliere posti più incantevoli per un disastro), la guerra di quarta generazione è dunque cominciata. 
di Domenico Quirico

L’artigianato dell’insurrezione globale islamista, auto segregata nell’odio come se fosse vittima di una malattia infettiva, capovolge i nostri luoghi comuni strategici, ne mette a nudo le scuciture: ora sono loro a imporre lo scontro nei termini tradizionali, l’avanzata, l’invasione, l’occupazione di città, presidiarle e difenderle. Tenere un territorio e occuparsi della popolazione che ci vive. 
La guerra non si ramifica con un andamento di epidemia, di alluvione senza logica. Hanno creato fronti come linee continue, le brigate babeliche per temperamento, costumi, incoerenti persino per azione e idealità della prima rivoluzione islamic a sono diventate un esercito. Alla guerra delle cantine e delle finestre, delle fogne e dei ruderi che ho visto ad Aleppo nel 2012, una battaglia diluita tormentosamente, sanguinosamente nel tempo, il Debole ha sostituito il linguaggio delle offensive, degli attacchi frontali. 
Non più il sanguinoso bricolage esplosivo fatto di camion bomba e vecchie armi anticarro, gli spettri della rivolta irachena contro i soldati di Bush, ma colonne mobili ben armate che squassano e annientano le armate sciite e l’esercito di Bashar. 
E dall’altra parte? Che strategia opponiamo noi, Occidente, il Forte? L’inesorabile nemico ci preclude i nostri accomodamenti da comari. Ci è rimasta la guerra asimmetrica, sì, quella delle guerriglie, indietreggiare, colpi di spillo, aggirare la potenza dell’avversario per logorarlo con i raid di piccole unità che poi fuggono; e i bombardamenti aerei e i droni: il terrorismo dei ricchi. Il Forte e il Debole si sono scambiati i ruoli. Il Califfato ha già cambiato il mondo. Davanti al fallimento delle armate napoleoniche in Spagna Hegel fece già la constatazione dell’«impotenza della vittoria» che gli americani provarono poi sulla propria pelle. Ma questo è il passato.
L’invasione del mondo 
I jihadisti di Abu Bakr non praticano più la guerriglia globale, sono diventati soldati, invadono il mondo. Ci hanno rubato la guerra. E la paura in noi si traveste da prudenza, è l’applicazione militare della constatazione iniziale islamista, l’alfa e l’omega del loro progetto: l’Occidente non sa più combattere se non le «piccole guerre», è debole e vile, preda di sibili di dubbio, ondate segrete di sfiducia, malinconiche stanchezze. La terra tra i due fiumi, la Silicon Valley della guerriglia islamista, svolge lo stesso ruolo che la guerra di Spagna ha avuto rispetto alla seconda guerra mondiale, un laboratorio dello scontro totale di domani. Il Pentagono aveva cercato contromisure alla guerriglia irachena del dopo Saddam, sanguinario aggiornamento della guerra terzomondista: non aveva centro di gravità né spesso leader carismatici, una specie di logica darwiniana faceva sì che i gruppi ribelli più forti e più feroci sopravvivessero e si imponessero, le città selvagge, le «feral cities», fatte di miseria cemento e acciaio, diventavano il nuovo campo di battaglia, un nuovo terribile urbanesimo militare fatto di check point, zone forse messe in sicurezza, attentati, infiltrazione. I generali americani ancora una volta non hanno capito nulla. Quella era la guerra precedente, non quella nuova. 
Uno scontro frontale nel Califfato, esercito contro esercito, sarebbe troppo oneroso. L’equipaggiamento di un uomo delle forze speciali costa 30, 40 mila dollari, per ogni soldato che va sul campo di battaglia ne occorrono altri cinquanta che devono provvedere a spampanare le necessità di guerrieri ricchi: Internet, pasti, bevande, energia, trasporti, logistica... La «produttività» in termini di creazione di nocività delle truppe del califfo è mille volte più redditizia.
Il prezzo da pagare 
Ma è soprattutto sul prezzo del sangue che bisogna pagare che siamo diventati insolventi. Chi politicamente può resistere alle immagini di soldati uccisi che scorrono nei telegiornali della sera, all’interminabile gemere delle vedove? Un esercito di combattenti che vogliono morire, i jihadisti, è molto più forte di una armata di professionisti ben addestrati, ma che vogliono vivere e tornare a casa. Sulla parete bianca di una mia prigione in Siria i miliziani di Al Nosra avevano scritto come su una lavagna due massime di al Muttaki che dall’India si trasferì nel Cinquecento a La Mecca dove divenne celebre per la sapienza: «Una spada è un testimone sufficiente» e «l’infedele e colui che lo uccide non si incontreranno mai negli inferi…».
Viviamo in un tempo nuovo. Il mondo è irriconoscibile, con Stati ormai sventrati e distrutti, Siria Iraq Libia Nigeria…, confini ridisegnati, scomparsa di antiche fedi e civiltà. L’apocalisse dunque è cominciata? La guerra, soprattutto la guerra, non è sfuggita alla distruzione di certezze e rituali che il califfato ci ha imposto. Alla guerra che inquadrava, regolava, bene o male, la violenza, è succeduta l’alba di un’altra violenza, un apparente mancanza di senso, che sfugge a tutti i nostri codici, di una stridente e nuova radicalità. 
Il califfato assai più che le guerriglie del Che Guevara e di Giap sta dimostrando che la potenza occidentale può girare a vuoto. In tempo reale, ogni giorno, milioni di musulmani, dall’Atlantico all’estrema Asia possono assistere allo spettacolo. Possono gioire di una rottura strategica essenziale, il capovolgimento della Forza. I più dotti tra loro ricorderanno l’avvento della loro Storia, gli eserciti dei califfi che umiliarono le invincibili superpotenze dell’epoca, Bisanzio e la Persia. Davanti all’avanzare brutale di un mondo di cui non comprendono quasi nulla gli occidentali si rivelano stranamente disarmati. Si barricano in una ritirata fatalista, cercano respiro dietro sempre maggiori misure di sicurezza, l’importante è che Loro non arrivino qui, alzano inutili muri nel mare. 
La tecnologia della morte 
La guerra al tempo del califfato, dunque. Vedrete spettacoli terribili da straziare l’anima, vedrete la guerra non nell’aspetto convenzionalmente bello e splendente, giovani guerrieri che sembrano robot, assistiti dall’infallibile tecnologia della morte, la guerra letta sui libri o vista al cinema che non si ha più da colorire e immaginare, ma si ode, si vede, si tocca, la guerra riportata alla sua espressione reale: sangue, sofferenze, morte. A Taftanaz ne ebbi un saggio sanguinoso, con gli uomini dei reggimenti jihadisti che andavano all’assalto di una base dell’esercito siriano. Al di là dell’ultima barricata le case ai due lati della strada erano vuote, non insegne di negozi, le porte sbarrate da tavole, le finestre sfasciate, qua è staccato uno spigolo di muro, là c’è un tetto sfondato. Gli edifici sembravano degli anziani veterani provati da ogni sorta di dolori e di stenti, che vi guardassero con una aria altera e un tantino sprezzante. Non lontano il tonfo dei proiettili di mortaio, e pareva di sentire da tutte le parti suoni diversi di pallottole: ronzanti come api, sibilanti rapide o stridenti come corde di violino. 
Il nuovo terreno di guerra 
Gli uomini vestiti nero spuntarono da ogni angolo. Iniziarono ad avanzare verso i reticolati della base e le ridotte dove i carri armati tacevano ancora sonnecchiando nei nascondigli sotto le reti coperte di foglie e aspettavano un cenno convenuto per uccidere. Eppure i miliziani non correvano, non strisciavano da riparo a riparo: camminavano. Come nelle antiche stampe delle guerre dell’Ottocento. Cominciate a interessarvi più di voi stessi che di ciò che vi accade intorno, prestate meno attenzione a ciò che vi circonda e uno spiacevole senso di incertezza si impadronisce di voi. Ma loro no: camminano. Ora tutto trema e romba continuamente, trema il cielo e trema l’aria. La corteccia della terra stessa spronata da un folle terrore si raggrinza, rabbrividisce come pelle viva. E’ allora che l’anima se ne va goccia a goccia insieme con lo sporco sudore, ti sembra che il cervello, scuotendo la testa, guizzi nel cranio e esca. Loro no: camminano, ogni tanto una raffica di mitra e il grido: Dio è grande. Dalle trincee nemiche di colpo volano elmetti, mitra e fucili, soldati escono, le braccia ben levate come in preghiera, si inginocchiano, chiedono pietà. 
Domenico Quirico

Corriere 14.6.15
Dagli Usa alla Grecia, il ritorno di Franklin D.
di M. S. Na.

Per il suo primo comizio Hillary Clinton ha scelto un’isola nell’East River e un parco dedicati a Franklin Delano Roosevelt, il presidente democratico che guidò gli Stati Uniti tra il 1933 e il 1945, fuori dalla Grande Depressione e nell’inferno della Seconda guerra mondiale. Un riferimento non immediato nell’America del 2015, ancora all’inseguimento delle «quattro libertà» rooseveltiane che danno il nome al «Four Freedoms Park»: libertà d’espressione e di culto, libertà dal bisogno e dalla paura. Concetti che già in passato Hillary aveva definito «stelle polari capaci di guidarci e spronarci ad andare avanti sfidando l’incertezza». Quell’incertezza diffusa all’origine di nostalgie «transatlantiche». A Franklin Delano si ispira anche il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis che, nel difficile passaggio affrontato dalla Grecia e dalla Ue, continua a invocare un «New Deal», un Nuovo Corso nella scia del piano socio-economico voluto da Roosevelt nel 1933-37 per risollevare gli Usa dalla crisi.
Il ritorno di Franklin D. Alla base di quel modello, dice Hillary, resta l’idea che «una prosperità autentica debba essere costruita, e condivisa, da tutti».

Corriere 14.6.15
Hillary Clinton
Elogio alla mamma che insegna a non arrendersi mai
di Maria Laura Rodotà

Lei l’aveva — forse costretta — anticipato. I suoi collaboratori/ comunicatori/ consiglieri l’avevano detto in tutti i modi in tutti i luoghi in tutti i social e in tutti i talk show: Hillary Clinton, nel suo primo discorso della campagna 2016, avrebbe parlato della mamma. Non all’italiana, di una mamma cuoca cameriera e consolatrice; di una madre come la sua, Dorothy Rodham, forte, assertiva, cresciuta affrontando fatiche e tragedie. E sempre pronta a dire a sua figlia di credere in se stessa. E Clinton si è comportata da erede di Dorothy, donna pragmatica del Midwest. Ha recitato con compunzione i passaggi da figlia ispirata composti dai suoi «speechwriter». Ma deve averli ridotti al minimo. Ha fatto un discorso serio, articolato, politico, pur fingendosi femminile e retorica. A pensarci, l’opposto speculare dei discorsi che portarono alla presidenza Barack Obama. Che erano apparentemente, baritonalmente politici e innovativi, ma volutamente non specifici; costruiti sul personaggio, sulla narrazione (sì, è colpa sua), e (lì sì) su babbi, mamme e nonne. Ora, Clinton voleva palesemente bene alla sua mamma. Nessuna delle due — sempre molto palesemente — ha mai amato le smancerie. Dorothy Rodham, quando era First Suocera in gita a Washington, andava volentieri a bere margaritas alla Cactus Cantina di Cleveland Park. Lo ricordava ieri il New York Times , e l’idea dell’anziana e solida signora in un bel bar tex-mex è un confortante epilogo alla sua storia dickensiana. Di bambina abbandonata dai genitori, affidata a nonni sadici, scappata a quattordici anni e finita a fare la colf; riscattatasi grazie alla sua forza d’animo e alla generosità di parte del suo prossimo. Era nata nel 1919 («l’anno in cui le donne hanno ottenuto il diritto di voto», ha ricordato sua figlia ieri a Roosevelt Island), era cresciuta tra Chicago e la California; raccontava l’importanza degli «atti di gentilezza» di molti quando lei era in difficoltà. Ma ripeteva a Hillary — che non è mai stata povera, però si è trovata spesso in difficoltà, in effetti — di non arrendersi e di non lamentarsi della vita. Perché la vita «non è quel che ti succede, è quel che tu fai di quello che ti succede». Guai inclusi. Opportunità politiche incluse. Clinton, ieri, ha fatto un discorso progressista e molto finalizzato a portare ai seggi tutte le elettrici americane, anziane come Hillary e anche no (e forse la narrazione di un rapporto decente e produttivo madre/figlia potrebbe essere un progresso culturale; e un modello da imitare, chissà, addirittura).

Corriere 14.6.15
Ciò che frena Hillary nel derby delle dinastie
di Alan Friedman

La settimana scorsa, a cena a New York City, mia madre, che ha novant’anni e ha votato per tutta la sua vita per il Partito democratico, mi ha spiegato perché ha deciso di non dare la sua preferenza a Hillary Clinton nel 2016. Che la signora Clinton sarà il candidato dei Democrats è scontato, vista la mancanza di rivali credibili. La sua nomina, in America, è considerata inevitabile. Ma come mai mia madre e milioni di altri elettori democratici dicono che non voteranno per Hillary?
«È una persona fasulla, finta», spiega senza mezzi termini mia madre. La quale, in effetti, fa parte di quel 52 percento di americani che ha dichiarato, in un recente sondaggio Washington Post-Abc, che di Hillary non si fidano, che pensano che l’ex first lady non sia una persona onesta. L’ultimo sondaggio mostra un calo senza precedenti nei consensi. Solo il 41 percento degli americani pensa che Clinton sia onesta e affidabile. Quando si pone la stessa domanda riguardo a Jeb Bush, il fratello dell’ex presidente George W., che domani formalizzerà la sua candidatura, almeno il 45 percento crede che lui sia onesto. Eppure, quando si chiede chi dei due capisca meglio i problemi della gente comune, la risposta è favorevole a Hillary per il 49 per cento, e solo per il 35 al candidato dei Repubblicani.
Al di là dei numeri, con l’arrivo di Jeb Bush nella corsa per la Casa Bianca si rischia di alienare ancora di più elettori americani, che non gradiscono lo spettacolo di una gara tra le due dinastie dei Bush e Clinton. Negli Usa, i politologi la chiamano « Dynasty-fatigue », l’«affaticamento da dinastie». E anche nel Partito repubblicano c’è chi non vuole Jeb Bush — non a causa del suo cognome, ma perché non è considerato abbastanza di destra sulle questioni sociali.
Per Hillary, lo scetticismo è il risultato di diversi fattori: la sua percepita tergiversazione sulla pubblicazione delle email inviate mentre era segretaria di Stato è un elemento; il fatto che abbia votato a favore dell’invasione dell’Iraq rappresenta per lei un altro problema. I presunti contributi alla Clinton Foundation da parte di Qatar, Arabia Saudita e altri Paesi, e la sua spettacolare raccolta fondi da due miliardi di dollari suscitano sospetti. La nota prossimità tra la famiglia Clinton e i capi di Wall Street, poi, è un altro fatto che non aiuta. E c’è infine una questione di simpatia umana — o, nel caso dell’ex first lady , della sua mancanza.
Quando Hillary Clinton va in giro per la campagna elettorale, non c’è nulla di naturale o spontaneo. Persino la trattoria in Iowa dove si ferma per un panino è scelta con molta cura. Spesso, in persona e nei suoi video spot super patinati e costosamente prodotti, Hillary appare come una politica cinica, senza principi e disposta a dire qualsiasi cosa a qualunque lobby pur di farsi eleggere. La signora ha cercato di rendersi più simpatica ieri, ad una grande kermesse sulla Roosevelt Island, a New York City. Ha anche cercato di delineare una linea politica abbastanza semplice ma populista, predicando contro i privilegi per pochi e attaccando «i miliardari» e i banchieri di Wall Street che sono, tra l’altro, fra i suoi più grandi supporter.
La questione della simpatia non va sottovalutata. Jeb Bush è molto meno preparato ma è più simpatico. Hillary dà spesso l’idea di vivere la campagna elettorale come un calvario, un male necessario per arrivare alla Casa Bianca. Talvolta si vede bene che si sforza di sorridere.
L’antipatia suscitata da Hillary deriva anche dal fatto che sta raccogliendo quasi due miliardi per alimentare una macchina da guerra con pochi precedenti: la macchina elettorale della famiglia Clinton. Questi soldi verranno in gran parte raccolti da Wall Street e da quella che viene definita «Corporate America», e cioè da quasi tutti i settori industriali e finanziari degli Stati Uniti. Le critiche a Hillary su questo tema arrivano dalla sinistra del suo partito, per cui il suo momento di demagogia contro Wall Street ieri sembrava una mossa ben studiata.
Ora, poi, arriva Jeb. Nel Partito repubblicano, a oggi, non è affatto sicuro che il fratello di Bush vincerà le primarie. Il campo è pieno di candidati alternativi e forse più attraenti, come Marco Rubio, il senatore della Florida. Ma alla fine credo che la spunterà Bush, anche perché avrà più soldi da spendere nella campagna.
Mancano però ancora più di 500 giorni al voto del novembre 2016, quindi qualunque cosa può ancora accadere.
Se l’anno prossimo Jeb Bush dovesse emergere come il candidato repubblicano, credo che sarà comunque Hillary, simpatica o meno, a vincere la gara per la presidenza. Di poco, però: e in una « horse race », in un fotofinish della politica americana. Sarà una specie di Derby delle Dinastie.

Corriere 14.6.15
Due chiese verso l’unità. Gli scogli lungo la strada
risponde Sergio Romano

In occasione della visita di Putin in Vaticano viene riproposto l’annoso problema del riavvicinamento delle due Chiese, quella ortodossa di Mosca e quella di Roma, cui sia Putin che il Papa terrebbero molto. In un breve intervento su Rai 3, l’esperto di questioni moscovite Fabrizio Dragosei ha accennato che fra gli ostacoli che si frapporrebbero al detto riavvicinamento, quelli dottrinari non sarebbero forse i più rilevanti. Di non minore portata sarebbero diversi contenziosi di natura economica. Potrebbe trattarne brevemente?
Giorgio Coccagna

Caro Coccagna,
Qualche anno fa un nunzio apostolico mi disse che il problema maggiore, nei rapporti della Chiesa cattolica con l’Ortodossia, fu sempre quello del primato del vescovo di Roma, vale a dire della posizione che il Papa avrebbe avuto nell’ambito di una Chiesa riunificata. Ma aggiunse che vi erano state alcune proposte e che la questione sembrava essere meno spinosa di quanto fosse stata in passato. Credo, tuttavia, che esista un altro problema, forse più delicato.
La storia della Chiesa cattolica è stata alquanto diversa da quella della Ortodossia. Mentre il papato romano voleva essere universale e cercò di non legare mai la propria esistenza a un rapporto fiduciario ed esclusivo con gli Stati in cui esercitava il suo apostolato, le Chiese ortodosse si proclamarono autocefale, e ciascuna di esse divenne l’autorità religiosa di una particolare comunità territoriale. Il mondo ne ebbe una dimostrazione quando Pietro il Grande, imitando alcune caratteristiche della Chiesa Anglicana, soppresse il Patriarcato di Mosca e creò un Santo Sinodo composto di ecclesiastici nominati dallo zar (fra cui il Metropolita di Mosca). Alla testa del Sinodo vi sarebbe stato, in rappresentanza dell’imperatore, un laico con la carica di Procuratore superiore. La rivoluzione del 1917 abolì il Sinodo e permise il ritorno al Patriarcato, ma le autorità sovietiche imposero alla Chiesa, per più di due decenni, misure fortemente restrittive e la rinchiusero in una sorta di sostanziale clandestinità. La situazione accennò a cambiare nel 1941, quando Stalin capì che la Chiesa russa poteva assicurare allo Stato, durante la Grande guerra patriottica, una maggiore partecipazione popolare. Pagò il debito, dopo la fine del conflitto, permettendo alla Chiesa ortodossa d’impadronirsi dei beni degli uniati (i greco-cattolici) in quei territori dell’Ucraina occidentale che erano stati per molto tempo polacchi o austriaci.
Qualcosa del genere accadde anche dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Boris Eltsin cercò di lusingare Roma restituendo agli uniati i beni perduti cinquant’anni prima; ma fu largo di concessioni, anche economiche, al Patriarcato e alla Chiesa ortodossa. La Chiesa moscovita gliene fu grata ristabilendo con lo Stato russo un rapporto simile, per molti aspetti, a quello instaurato da Pietro il Grande. I nuovi esponenti dello Stato russo, spesso usciti dai ranghi del partito comunista, divennero quasi tutti ferventi ortodossi dando prova di zelo religioso nelle pubbliche funzioni. Le ricordo, caro Coccagna, che i solenni funerali di Eltsin, nell’aprile del 2007, ebbero luogo a Mosca nella Chiesa di Cristo Salvatore, l’enorme edificio sulle rive della Moscova che era stato costruito agli inizi del Novecento in memoria della vittoria su Napoleone e che Stalin aveva fatto distruggere negli anni Trenta con una spropositata dose di dinamite.
Fra Chiesa e Stato in Russia vi sono quindi rapporti di reciproca convenienza non troppo diversi da quelli che nell’Impero bizantino andavano sotto il nome di «sinfonia». La Chiesa benedice lo Stato ogniqualvolta il regime ne ha bisogno, e lo Stato asseconda volentieri la Chiesa quando le permette di esercitare una sorta di monopolio religioso e di vigilare affinché la Russia non ceda ai costumi «immorali» diffusi ormai nel peccaminoso Occidente. Se il dialogo fra il Patriarcato di Mosca e la Santa Sede romana continuerà, sarà interessante scoprire quali siano i punti su cui le due Chiese possono accordarsi e quelli su cui continueranno a dissentire.

La Stampa 14.6.15
Waterloo
Così la “vittoria” francese divenne una disfatta
18 giugno 1815: alle sei del pomeriggio erano sicuri del trionfo, Wellington ribaltò la situazione
di Marco Zatterin

Passate le sei del pomeriggio, dopo oltre quattro ore di combattimenti senza quartiere, il maggiore inglese George Baring ordina ai suoi hannoveriani della «Legione tedesca del Re» di ritirarsi dalla Haie Sainte, la fattoria che sinora ha protetto il cuore dell’esercito alleato dall’offensiva imperiale. I fanti francesi avanzano, esultanti. Il maresciallo Ney annuncia al generale Desales, comandante dell’artiglieria, «stasera verrete a cena da me a Bruxelles». Il nemico gli pare sul punto di cedere, così invoca i pretoriani della Vecchia Guardia, senza sapere che sono già impegnati a Sud-Est, nel villaggio di Plancenoit. Napoleone prova ad aiutarlo con una menzogna, fa dire che il fido Grouchy si è finalmente ricongiunto all’Armée. Invece Grouchy è lontano, così quelli che arrivano sono i prussiani di Blücher che proprio Grouchy per tutto il giorno ha inutilmente cercato di raggiungere. E sono troppi perché lo scontro possa continuare senza trasformarsi in una fatale sconfitta per l’Aquila imperiale.
200 mila in 16 km quadrati
Qui finisce «la Battaglia» e si chiudono i conti del 18 giugno 1815, una domenica. Svaniscono le ambizioni dell’esercito che per vent’anni ha dominato il continente con poche eccezioni, e quelli di Napoleone Bonaparte, autoincoronatosi imperatore dei francesi a Notre-Dame undici anni prima. Non s’era mai visto scontro altrettanto feroce, teste mozzate e macelleria equina, mai tanto sangue in così poco spazio, né sarebbe più accaduto. Duecentomila uomini si affrontarono in un rombo di quattro chilometri per quattro: i blu e bianchi francesi; i rossi britannici, i grigioblù olandesi, i verdi hannoveriani, i prussiani blu notte. Il fumo che distorceva la vista. Il sangue che mescolava i colori.
Non si è combattuto a Waterloo. Bisognerebbe chiamarla Battaglia di Mont-Saint-Jean o di Braine-l’Alleud, ma è ormai troppo tardi. Dopo essere ritornato dall’Elba il primo marzo, Napoleone aveva riconquistato il potere con una facilità che non avrebbe ritrovato nel gestirlo. Rimesso sul trono dagli alleati, Luigi XVIII era fuggito a Gand lasciando un esercito ridotto dall’abbandono della leva obbligatoria seguito alla restaurazione. La vera minaccia veniva però da fuori, dalla Settima coalizione formata per cancellare «il piccolo caporale» dalla Storia: i 96 mila anglo-olandesi del Duca di Wellington erano in Belgio con 124 mila prussiani; 200 mila austriaci marciavano verso l’Alsazia-Lorena e 150 mila russi erano attesi sul Reno nell’estate. L’imperatore aveva in tutto 125 mila uomini.
La mossa di Napoleone
Napoleone decise di agire di sorpresa, prima che il nemico si riunisse e diventasse insuperabile. Il 6 giugno mosse verso il Belgio da Metz e Lille. Nove giorni più tardi sbucò da Charleroi fra gli anglo-olandesi e i prussiani. Il 16 giugno, in un pomeriggio, mise in fuga i primi a Quatre-Bras, e sconfisse i secondi a Ligny. Cominciava bene, tuttavia fu il 17 giugno a essere determinante. Perché Wellington riuscì a riorganizzarsi senza danni sulla strada per Bruxelles e Blücher si ritirò a Est, verso Wavre invece che Namur, dove il generale Grouchy - che aveva informazioni sbagliate - corse inutilmente a cercarlo.
Il fattore pioggia
Durante la notte piovve in abbondanza. Al mattino, il sole tornato a splendere nel cielo del Brabante trovò gli alleati ben disposti sul crinale di Mont-Saint-Jean, una posizione che offriva un punto di vista formidabile. La battaglia non cominciò subito. I due eserciti attesero che il fango si asciugasse per facilitare il movimento dei cannoni. I primi colpi furono sparati dopo le 11, quando l’imperatore ordinò al generale Reille di prendere a ogni costo la fattoria di Hougoumont che copriva la destra alleata: nonostante la carneficina e le bombe incendiarie, lo «chateau» non cadde. I francesi persero tempo e uomini.
La seconda mossa dell’Aquila imperiale fu l’attacco al centro delle linee alleate coi fanti di d’Erlon, coperti da un fitto cannoneggiamento. Giunsero a sentire l’alito dei nemici. Un feroce contrattacco britannico e una carica della cavalleria pesante li costrinse a ripiegare disordinatamente.
L’errore fatale di Ney
Fu allora che il generale Ney, pensando alla tavolata bruxellese con Desales, spedì la cavalleria francese a caricare la compagine nemica che riteneva indebolita e mal disposta, errore che pagò caro davanti ai quadrati alleati. Nulla poterono i cavalieri corazzati della Guardia. E neanche la fanteria sopraggiunta verso le sei.
Un lampo di speranza s’accese con la caduta della fattoria Haie Sainte. Erano le sei e mezzo. «Datemi la notte o datemi Blücher!», invocò Wellington. Gli diedero i prussiani che, gabbato Grouchy, apparvero da Oriente e ingaggiarono i francesi fra le case di Plancenoit. Impegnate sui due fronti, le truppe imperiali preferirono la fuga alla morte. La Guardia imperiale indietreggiò e sparì nel fumo da cui era emersa. «Merde!», è la risposta (apocrifa) del Visconte di Cambronne a chi gli chiedeva la resa. Napoleone era sconfitto, Napoleone era già su una vela per Sant’Elena, Napoleone usciva da un’Europa che non sarebbe stata più la stessa. Sul campo oltre 40 mila fra morti, feriti e dispersi. Ma i numeri sono incerti.
Andò davvero così? «Lascia perdere Waterloo - intimò il Duca vincitore a un suo biografo -. Nessuno può ricostruire l’ordine o l’esatto momento in cui le cose accaddero». Sir John Colborne, che comandava il 52° di fanteria leggera, dichiarò che «solo gli ufficiali a cavallo» potevano dare un resoconto della battaglia. Difficile avere certezze e, anzi, chi va a Waterloo oggi può esser tentato di pensare che il trionfatore sia stato Napoleone, perché solo di lui si parla a Mont-Saint-Jean e dintorni. Questo non è certamente successo. Sicuro come che Ney non cenò a Bruxelles con Desales quella sera del 18 giugno di duecento anni fa.

La Stampa 14.6.15
Il tracollo di Bonaparte è cominciato a Trafalgar
di Ernesto Ferrero

Le sconfitte e le vittorie arrivano da lontano. Si può dire che Waterloo, a un soffio dall’essere vinta ai tempi supplementari, comincia con la disastrosa sconfitta navale di Trafalgar (1805), con la scriteriata invasione della Spagna (1808-09) e con la disfatta di Russia (1812). Un’identica hybris può colpire gli imperi e le aziende: la presunzione di una crescita illimitata attenua l’accuratezza della progettazione, il calcolo dei rischi, di costi e ricavi. Nella fretta di conquistare nuovi mercati, non c’è tempo di preparare un management all’altezza, e un centralismo ossessivo finisce col riportare al Líder Máximo ogni minima decisione. Un’ambizione diventata irragionevole forza la mano al giocatore talentuoso, lo spinge all’azzardo che finirà col perderlo.
Napoleone sottovaluta la suscettibilità e l’orgoglio nazionale dei popoli che vuol sottomettere, non potendo credere che al suo ottimo modello amministrativo gli spagnoli o i russi preferiscano quello piuttosto arretrato dei loro sovrani. In Russia l’invasione del suolo patrio crea un fortissimo sentimento identitario e patriottico, il Paese è costretto a crescere in fretta sotto l’urgenza della sfida mortale. E poi il know-how napoleonico ha smesso di essere una novità. I vinti di ieri hanno imparato la lezione, le battaglie sono diventate incerte, costose, mai veramente risolutive.
Abituato a giocare tutto sulla carta della grande battaglia vincente, Napoleone non capisce che anche sul mare, elemento che non conosce e non padroneggia, sarebbe stata migliore strategia, di fronte a un avversario soverchiante, condurre una lunga guerriglia di logoramento in grado di intralciare i traffici inglesi ben più del Blocco Continentale. Senza il dominio dei mari non era possibile vincere una guerra che era in primo luogo commerciale. Così la Grande Vittoria Finale rimane un sogno di gioventù. Il gioco è diventato troppo grande e troppo complesso persino per uno statista e manager di immense qualità. E poi, incredibilmente, l’uomo proiettato nel futuro trascura l’innovazione tecnologica: i fucili sono ancora quelli modello 1777, l’artiglieria non è aggiornata da trent’anni, l’invenzione del battello a vapore è giudicata inapplicabile. Per lui resta primario il fattore umano, ma dopo vent’anni di guerre anche l’Armée è diventata un patchwork multietnico, raccogliticcio e impreparato, in cui si parlano troppe lingue diverse. Forse Napoleone è stato il primo a pagare il prezzo della globalizzazione forzata che lui stesso aveva avviato.

La Stampa TuttoiLibri 13.6.15
Waterloo, un trionfo che dimentica il genio prussiano
Lo scrittore Cornwell racconta ora per ora la sconfitta di Napoleone: attribuisce però l’intero merito agli inglesi di Wellington
di Alessandro Barbero

I luoghi comuni sono duri a morire. Nell’immaginario collettivo i tedeschi passano ancora per il popolo più militarista d’Europa, e chissà quanto tempo ci vorrà perchè quella nazione profondamente pacifica riesca a far dimenticare gli elmi chiodati del Kaiser e il passo dell’oca nazista. Non è affatto consueto, invece, associare l’Inghilterra al militarismo, eppure quello è oggi il paese dove il culto delle glorie passate è più vivo, e dove la storia militare è una passione collettiva coltivata con una punta di sciovinismo. Per molti sudditi di Sua Maestà amare la storia significa innanzitutto celebrare con compiacimento una serie ininterrotta di vittorie inglesi, dalle grandi battaglie della guerra dei Cent’Anni alla guerra delle Falkland, passando, naturalmente, per Waterloo. E non si tratta di un hobby per pochi, ma di una componente della cultura popolare: una delle serie televisive di maggior successo in Inghilterra, Sharpe, protagonista Sean Bean, racconta proprio le eroiche avventure di un soldato inglese durante le guerre napoleoniche.
Il creatore di Sharpe, Bernard Cornwell, è un prolificissimo autore di romanzi storici, la cui produzione ha raggiunto livelli addirittura industriali: la serie di Sharpe conta 24 volumi, ma ce ne sono altri 8 ambientati tra gli antichi Sassoni, 3 su re Artù, 4 sulla guerra civile americana, 5 sulla guerra dei Cent’Anni, e altri 11 ambientati in epoche diverse, per un totale di 55 romanzi – più un solo libro di non fiction, appena uscito, su Waterloo. Quest’anno cade il bicentenario della grande battaglia, migliaia di rievocatori in divisa si sono dati appuntamento per farla rivivere in quella che Victor Hugo chiamò la «triste pianura» a pochi chilometri da Bruxelles, e puntualmente le librerie si sono riempite di nuovi libri dedicati all’argomento. Com’era forse inevitabile, quello di Cornwell è l’unico ad essere stato subito tradotto in tutte le lingue, benchè non sia necessariamente il più bello: non mancano segni di una confezione frettolosa in vista dell’appuntamento. E lo stesso vale per la traduzione, affidata a gente beatamente ignara dell’argomento e del relativo lessico, per cui contiene un buon numero di spropositi: ma questo ormai succede regolarmente ai libri di storia militare tradotti in Italia, qualunque sia la casa editrice.
Ma il vero problema del libro di Cornwell è che sembra un pezzo di antiquariato, anziché un libro di storia scritto nel 2014. Negli ultimi anni una storiografia libera da pregiudizi nazionali ha mostrato i limiti della versione tradizionale, anglocentrica, della battaglia, sottolineando che Waterloo fu una vittoria tedesca almeno quanto inglese, e forse anche un po’ di più: c’erano molti più soldati tedeschi che britannici in campo, e senza l’arrivo tempestivo dell’esercito prussiano del vecchio feldmaresciallo von Blücher non c’è dubbio che l’esercito multinazionale del duca di Wellington, in cui si parlavano quattro lingue, sarebbe stato sconfitto. Ma la visione di Cornwell è convenzionale e anglocentrica. Fin dalla prima pagina ripete il vetusto luogo comune secondo cui l’ultimo assalto di Napoleone, la carica della Vecchia Guardia, s’infranse contro la linea inglese «quando i prussiani stavano per entrare in scena a sinistra»: come dire che gli inglesi hanno comunque vinto da soli. La verità è che i prussiani erano entrati in scena da ore, e che avevano combattuto la loro battaglia, separata da quella di Wellington, costringendo Napoleone a impiegare contro di loro quasi tutte le riserve ammassate quel mattino in vista dell’attacco decisivo: per cui la Vecchia Guardia dovette avanzare da sola, con il risultato che sappiamo.
Non è che Cornwell queste cose non le sappia: è che riesce a raccontare la giornata senza metterle in evidenza. Il duca di Wellington disse una volta che la battaglia di Waterloo era stata come un incontro di pugilato: «Mai visto un incontro fra due picchiatori così. Eravamo tutt’e due quello che i pugili chiamano dei ghiottoni» (un termine dello slang sportivo che designava chi non ha paura del corpo a corpo, e si lascia massacrare piuttosto che arrendersi). L’immagine è bellissima, ma la verità è che i pugili sul ring erano tre, e che il peso massimo, Napoleone, venne costretto a gettare la spugna da due pesi medi, con Blücher che lo lavorava ai fianchi impedendogli di usare tutta la sua forza contro Wellington. Ecco, il libro di Cornwell è scritto da un tifoso del pugile inglese, per un pubblico di connazionali: l’avversario e il socio sono messi sotto i riflettori solo quanto basta per celebrare ancor meglio la vittoria del loro idolo.
Pazienza: la storia è di per sé grandiosa, piena di suspence, di emozione, di brivido, soprattutto ora che gli storici hanno imparato a non nascondere gli aspetti più truci del macello. Quando riesce a dimenticare la compassione per quei poveri francesi, destinati a rompersi le corna contro l’invincibile fanteria inglese, e si ricorda che quel giorno Napoleone è stato fino all’ultimo sul punto di vincere, anche Cornwell riesce a tenere il lettore col fiato sospeso, come se non sapesse già dall’inizio come è andata a finire.
* Alessandro Barbero, storico e romanziere, ha pubblicato una storia di Waterloo (Laterza)

La Stampa TuttoLibri 13.6.15
Elena Croce e Zambrano, due donne per la libertà
di Angela Bianchini

Un libro bellissimo, a cominciare dal titolo, altamente simbolico, A presto, dunque, e a sempre. Lettere 1955-1990  (a cura di Elena Laurenzi) e, vorrei dire quasi unico nel suo genere. Abbiamo qui in forma integrale la lunga corrispondenza intercorsa tra due grandi donne che vissero per un lungo periodo nella stessa città: Roma o per lo meno in Italia e continuarono a scriversi anche nei periodi in cui María Zambrano dovette lasciare Roma per poi tornarci. Da una parte Elena, la figlia di Benedetto Croce scrittrice, fondatrice di riviste, e di circoli culturali, autrice di libri fondamentali sulla cultura italiana, e particolarmente su quella napoletana del dopoguerra, dall’altra María Zambrano, una delle figure più originali del panorama filosofico del 900, colei che ebbe parte attiva nella guerra civile spagnola e , dopo la disfatta repubblicana, prese la via di un lungo esilio durato 45 anni di cui 10 passati a Roma.
Queste due donne, che, di primo acchito, potevano sembrare diverse, avevano in comune il culto della libertà, l’anticonformismo, la tradizione liberale dalle radici umanistiche cristiane, dedicata al «valore della persona», come osserva Elena Laurenzi, l’attenta redattrice e studiosa di quella che chiama «una amicizia essenziale».
Per comprendere l’originalità e la profondità di questo rapporto occorre rifarsi non soltanto alla storia intellettuale di ognuna delle protagoniste, ma anche al clima particolare che accolse María Zambrano e sua sorella Araceli nel giugno 1953. Roma era una città , al tempo stesso, aperta e segreta, animata da uno «spirito vividamente internazionale». E di questo clima la rappresentante più vivace e più generosa era proprio Elena Croce. Per questo motivo si stabilì la solidarietà tra Elena e María. María Zambrano, che aveva appassionatamente difeso la libertà repubblicana dal franchismo e sentiva di essere destinata a un lunghissimo esilio, trovò proprio a Roma, come dice giustamente Elena Laurenzi «un porto - se non sicuro almeno accogliente – il calore di una sorta di famiglia».
A rendere unico il clima di questa amicizia era non soltanto la presenza di coloro che Elena Croce chiamava «gli spagnoli nostri», vale a dire il poeta Diego de Mesa, il poeta Enrique de Rivas, nipote del presidente repubblicano Manuel Azaña, il pittore e saggista Ramón Gaya e il poeta José Bergamín, ma anche di altri rifugiati provenienti dalla Germania hitleriana, dalla Grecia dei colonnelli e più tardi anche dall’Impero Sovietico e dalle dittature sudamericane. Per ricreare il clima di questa amicizia unica, che non conobbe mai alti e bassi, ma soltanto difficoltà dovute alla difficile posizione di esuli di María e di sua sorella, conviene ricordare le tante attività culturali promosse da Elena Croce che includevano individualità e anche luoghi molto vari. A contare era soprattutto la sua straordinaria vitalità che trovò riscontro in una persona come María seppur diversa.
Chi scrive ebbe la fortuna di conoscere da vicino la casa di Elena, che non fu mai un salotto bensì uno straordinario punto di incontro dove passato e presente si proiettavano sulle speranze dell’avvenire e dove i ricordi della «patria napoletana» sembravano rianimarsi e prendere nuova vita. Nessuna difficoltà, dunque, a immaginare la forza di un’ amicizia che dopo tanti anni ancora ci commuove e ci anima, ridandoci fiducia nella forza delle idee, nel libero scambio di pensieri e speranze. Un’amicizia che in ogni momento, anche i più difficili, sapeva di poter sopravvivere anzi di rimanere immortale.

Corriere Salute 14.6.15
La psichiatria contro i pregiudizi
di Claudio Mencacci
Past President Soc. It. di Psichiatria

È pesante come un macigno la vergogna e il marchio di disgrazia e di disagio che pesa sulle malattie mentali. Stigma, etichetta, stereotipo tutto a indicare una discriminazione, una svalutazione, un «noi diversi dagli altri». Questa ingiustizia crea sofferenza in molte persone affette da disturbi psichici, dai più severi (schizofrenia, disturbi bipolari, ossessivi-compulsivi, anoressia) ai più comuni (depressione, ansia panica e cronica). Una stigmatizzazione che impatta su diverse aree della vita, dalla condizione socioeconomica alle relazioni interpersonali, al ritardo o alla mancanza di diagnosi e cure adeguate, alla qualità e quantità di vita.
Tanti sono i pregiudizi sulle malattie mentali: pericolosità (nonostante i dati confermino che non vi sono correlazioni tra malattia e violenza), inguaribilità, incapacità di lavorare. Questa stigmatizzazione è un problema di salute pubblica che pesa sull’intera società.
Che cosa fare per ridurre questa discriminazione? Da un lato le Società scientifiche, come quella di psichiatria, devono segnalare rapidamente le violazioni dei diritti, porre enfasi sullo sviluppo di buone pratiche che facilitino il controllo di qualità delle cure e degli esiti, avere legami con altre Società scientifiche mediche e con la Medicina generale, collaborare con le associazioni di pazienti e familiari e con i volontari, rendere noti i progressi su cure e assistenza agli organismi istituzionali, e, soprattutto, dare informazioni aggiornate.
Va cambiata la mentalità della pubblica opinione e per questo bisogna far arrivare informazioni adeguate e corrette al pubblico attraverso i media. La bassa considerazione dei disturbi psichici si riflette anche sugli scarsi finanziamenti dedicati ai Servizi di salute mentale. Ridurre lo stigma è quindi importante per consentire alle Istituzioni di investire in questo campo riconoscendo quanti benefici può portare all’intera popolazione ( la salute mentale pesa oltre il 3% del Pil). Purtroppo manca ancora nel piano nazionale delle cronicità qualunque riferimento alla psichiatria e alla depressione. Va messo in atto in tempi rapidi un piano nazionale di sensibilizzazione e lotta alla depressione (prevalenza oltre il 13%, doppia nelle donne). Un programma che veda coinvolti tutti gli stakeholder istituzionali, in particolare la Commissione Igiene e Sanità del Senato, le Società scientifiche competenti, la medicina generale e l’Ong Onda , affinché la nostra sia l’ultima generazione a permettere che vergogna o stigma regnino al di sopra della scienza e della ragione.

Corriere Salute 14.6.15
Il ruolo dell’alimentazione sull’equilibrio mentale
di D. d. D.

Alla luce di quanto si sta scoprendo sulle proprietà del microbioma in chiave endocrina e di regolazione del metabolismo dei neurotrasmettitori cerebrali, è naturale che si possa pensare di provare a modulare lo stato psichico utilizzando specifici alimenti.
Si tratta di un ambito di ricerca, tuttavia, da considerare con cautela, perché è difficile valutare gli effetti di un alimento su condizioni psichiche soggette a molte variabili. Inoltre gli interessi commerciali potenzialmente in gioco possono indurre a sopravvalutare eventuali effetti.
Una riprova viene da quanto pubblicato dalle riviste scientifiche: diversi articoli di revisione degli studi condotti sull’efficacia dei probiotici oppure sull’efficacia di altri alimenti sono scritti da esperti collegati alle industrie produttrici.
Un’interessante linea di ricerca riguarda i cibi fermentati di uso tradizionale. Cereali, verdure, pesce, carne e latte, sono stati conservati anche prima dell’avvento delle tecniche di refrigerazione, ed è così che sono nati cibi naturalmente fermentati. Ma anche dopo lo sviluppo di tecniche di conservazione basate su additivi chimici oppure sul freddo, i cibi fermentati non sono stati abbandonati. Le bevande alcoliche e lo yogurt sono esempi di questo tipo di alimenti, che interagiscono con l’organismo non solo per influenza diretta sul microbioma intestinale, ma anche per azione antiossidante e antinfiammatoria, importanti per la prevenzione di stati depressivi.
«Sono molte le sostanze neuroattive di origine dietetica oppure batterica in grado di influenzare crescita e attività cerebrali — dice Federico Balzola, gastroenterologo dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino —. Così come abitudini alimentari e comportamentali moderne, compresa la maggiore igiene, possono alterare un equilibrio evolutivo immutato per milioni di anni. Il reciproco “farming” (allevamento) tra i batteri che colonizzano l’intestino sterile del neonato e il suo sistema immunitario nei primi 12 mesi di vita è condizione cruciale per lo sviluppo di molte funzioni fisiologiche metaboliche e cerebrali. Il tipo di parto e di allattamento, il tempo in cui è avvenuto lo svezzamento, un uso eccessivo di antibiotici o l’eccessiva igiene, l’appartenenza a una famiglia poco numerosa e così via, sono variabili che possono influenzare il microbioma e predisporre, anche ad anni di distanza, a malattie autoimmuni o degenerative».
È su questi presupposti che si basa la ricerca più recente.
«I cambiamenti ambientali degli ultimi anni — dice ancora Federico Balzola — hanno influenzato negativamente il microbioma, ma hanno consentito allungamenti della sopravvivenza e qualità di vita inimmaginabili dall’uomo primitivo. Alla luce delle ricerche sulle interazioni alimenti-cervello, l’intervento della medicina può essere di tipo preventivo. Si può agire nella fase di imprinting della flora batterica che avviene nel bambino nel corso del primo anno di vita, attraverso alimenti-farmaci oppure attraverso supplementi, mirati sulla base di un determinato background genetico».
«La farmacologia nutrizionale o batterica mirata — conclude il gastroenterologo torinese — potrà in futuro intervenire positivamente sui meccanismi alterati nei soggetti malati o nelle persone più fragili anche in età avanzata, utilizzando terapie più naturali se paragonate agli psicofarmaci che sono attualmente disponibili».

Corriere La Lettura 14.6.15
Tutti kantiani, anche a nostra insaputa
Il filosofo umiliò la ragione, ma solo per salvarla e liberarla: perché siamo noi a dar forma al mondo (senza crearlo)
di Donatella De Cesare

Si apre in Germania la «decade kantiana». Durerà fino al 22 aprile 2024, data in cui ricorre l’anniversario della nascita del grande filosofo di Königsberg (1724-1804). Numerosissime sono le iniziative previste in tutto il mondo. È andato infatti crescendo ovunque l’interesse per il suo pensiero, anche nelle università cinesi. Grazie all’Accademia delle Scienze di Berlino dovrebbe, fra l’altro, essere portata a termine l’edizione critica di tutta l’opera postuma. Per la prima volta si è mobilitato anche il mondo della politica, che promuoverà dibattiti e convegni.
Ma che cosa resta di Immanuel Kant a quasi trecento anni dalla nascita? Occorrerebbe congedarsi una volta per tutte dalle sue idee? Perché la sua «rivoluzione copernicana» divide ancora i filosofi? E che cosa ne è oggi della riflessione sulla «pace perpetua»?
Fu durante la consueta passeggiata per le vie di Königsberg che un giorno, distratto dalle speculazioni metafisiche, gli venne in mente il progetto del suo capolavoro: la Critica della ragion pura . Per anni si dedicò alla scrittura con quella costanza ossessiva e quella dedizione quasi maniacale così rispondenti ai ritmi ferrei della sua vita quotidiana. Quando l’opera uscì — nel 1781 — fu una rivoluzione per la filosofia.
Il nome di Kant non indica solo un’epoca, segna uno spartiacque nella storia del pensiero. C’è un prima e un dopo Kant. Pur senza saperlo, siamo tutti kantiani. Anzitutto perché leggiamo la filosofia, o meglio, la metafisica precedente, da Aristotele a Cartesio, già avvertiti e messi in guardia dalla critica implacabile di Kant. È possibile discettare sull’esistenza di Dio, sull’immortalità dell’anima, insomma su tutto quel che va al di là della nostra esperienza? O non si tratta di vacue visioni, castelli in aria, contrabbandati per filosofia?
Kant comprese quel che stava accadendo nel suo secolo. Mentre i suoi colleghi si arrovellavano intorno a illusorie costruzioni, e si compiacevano di sterili analisi, le scienze sperimentali, saldamente ancorate all’esperienza, avevano raggiunto risultati epocali. Al punto che, non solo si erano emancipate dalla filosofia, ma l’avevano lasciata in una posizione di retroguardia. Cominciò, anzi, a diffondersi scetticismo, se non ostilità: a che cosa avrebbe mai dovuto servire la filosofia? Se non voleva trasformarsi in scienza sperimentale, era destinata a restare nella ridondanza analitica. Da un canto, dunque, il torpido sonno dei dogmatici, dall’altro il borioso trionfo del sapere sperimentale. L’avvenire della filosofia sembrava ormai pregiudicato.
Non sarà un caso che Heinrich Heine, forse esagerando, abbia chiamato Kant il Robespierre della filosofia. Ma il tribunale istituito dal mite professore di Königsberg era quello dove aveva deciso di chiamare in causa la ragione. Si trattò, certo, di una circostanza tragica. Kant parlò di un «malinteso» della ragione con se stessa: quando abbandonava l’esperienza, avventurandosi nella metafisica, la ragione si ingannava, finiva per credere che fossero realtà le proprie chimere. Il tribunale di Kant dichiarò illegittime, una volta per tutte, le pretese della ragione umana incapace di accettare i propri limiti.
Il processo alla ragione non fu allora del tutto tragico, perché Kant riuscì, anzi, a rilanciare la filosofia. Ne ridisegnò, però, i confini; richiamò i filosofi alla modestia, li rinviò al senso comune. Solo su quel fondamento avrebbero potuto costruire un solido edificio.
Quell’ascesi del limite, a cui aveva improntato la sua esistenza, schiva e austera, diventò un modello filosofico. Se umiliò la ragione, fu solo per evitare che inseguisse ancora il sogno metafisico di un sapere totalizzante. La ragione umana doveva finalmente riconoscere di essere finita.
Questa grande lezione di Kant ebbe enormi ripercussioni. La più celebre è forse la rivoluzione copernicana nella conoscenza. Crediamo che sia il mondo a ruotare intorno a noi, che lo contempliamo immobili per scoprirne il segreto ordinamento; invece siamo noi, con il nostro moto ordinatore, a dar forma al mondo. Il che non vuol dire che il pensiero crei il mondo — come alcuni vogliono fraintendere. Kant non nega che il mondo abbia la sua realtà. Dice solo che noi non possiamo conoscerla in sé, nella sua interezza. Perché questa sarebbe di nuovo una presunzione metafisica. Conosciamo le cose solo attraverso i nostri schemi e solo nel modo in cui ci appaiono, in cui sono per noi.
Se la ragione deve ammettere i propri limiti, già nell’ambito della conoscenza, allora non è astratta, ma è situata nel tempo. Ecco che per la prima volta, nella sua storia, la ragione umana si accorge di avere una storia. È questa idea sovversiva di una ragione storica, cioè esposta all’errore, consegnata all’erranza, a inaugurare la modernità. Cartesio aveva preteso di dare inizio a una nuova epoca con il suo dubbio metodico; ma a ben guardare aspirava ancora a una filosofia perenne, definitiva, in grado di ergersi oltre il tempo e oltre la storia. Un abisso lo separa perciò da Kant che, con audacia senza precedenti, riconosce invece il carattere storico della propria riflessione. In tal senso Kant è il nome della nostra modernità.
« Sapere aude ! — abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!». In questo motto Kant sintetizza la sua epoca. Ma il suo saggio Che cos’è l’Illuminismo? non è solo il tentativo di delineare filosoficamente il proprio secolo. Come ha sottolineato Michel Foucault, è la prima riflessione critica sul proprio presente, è quella che, nella filosofia contemporanea, si chiama una «ontologia dell’attualità». Che cosa accade oggi? E che cos’è questo oggi, in cui siamo immersi, rispetto alle altre epoche, passate e future? Sta qui la preoccupazione della modernità.
Mentre la filosofia si immerge nel vortice della storia, e nei suoi avvincenti interrogativi, la ragione umana, rinviata al proprio limite, scopre la sua destinazione morale, guarda alla sua vocazione cosmopolitica. L’agire assume un rilievo che prima non aveva. Sarà allora la ragione pratica a guidare ogni essere libero, chiamato a rispondere di sé e delle proprie azioni. Con la rivoluzione di Kant l’etica diventa filosofia prima.
Non ci sembra oggi irrealizzabile il suo imperativo categorico? L’obbligo di agire in modo che la propria azione sia d’esempio, divenga anzi legge universale, è incondizionato, irriducibile, non può essere piegato a nessun calcolo. Perché ne va dell’umanità. Agire moralmente significa trattare l’umanità propria e quella altrui sempre come fine, mai come mezzo. Servirsi dell’altro come strumento vuol dire asservire anche se stessi, mancare quell’attimo in cui, con il rispetto dell’umano, irrompe la libertà. Non è un caso che Kant sia stato il pioniere dei diritti umani, che abbia delineato un ordinamento cosmopolitico, imperniato sull’ospitalità, e con il celebre saggio Per la pace perpetua abbia lanciato un monito volutamente ambiguo: se una «società delle nazioni» non avesse amministrato la pace tra gli Stati, a prevalere sarebbe stata una pace ben diversa, quella eterna della morte.
In un mondo segnato da due guerre mondiali e dai genocidi di massa, dominato dalle armi nucleari, attraversato da conflitti diffusi e imponderabili, il limpido universo di Kant, retto da una ferma fiducia nel progresso, appare incommensurabilmente lontano. Non si può rievocare, senza una inquieta nostalgia, il cielo stellato a cui il filosofo guardava con ammirazione. D’altronde la sua Königsberg non esiste più. Fu cancellata in pochi giorni, nella primavera del 1945; oggi si chiama Kaliningrad e non fa parte della Germania. Eppure Königsberg resta un luogo irrinunciabile della filosofia.
Le riflessioni di Kant sono pietre miliari, le sue idee sono insieme richiami e promesse all’umanità, da cui è impossibile retrocedere. Dopo Kant nulla è più stato come prima. Il congedo dalla metafisica resta il grande tema della filosofia contemporanea. E se c’è chi si fa tentare dall’illusione di conoscere la realtà in sé, c’è invece chi ha radicalizzato la sua critica, mostrando che la ragione è sempre già impura, perché non può fare a meno del linguaggio, anzi delle lingue, e perciò è estranea a se stessa, segnata dall’alterità, consegnata all’altro. Da Hannah Arendt a Emmanuel Lévinas: non si comprenderebbe, nella filosofia degli ultimi decenni, il primato dell’agire etico senza Kant. La sua rivoluzione non è ancora compiuta.

Corriere La Lettura 14.6.15
Il meticoloso Stalin : a casa, nell’orto, nel Gulag
Una nuova biografia del leader comunista che sottoponeva i suoi collaboratori ad ogni sorta d’umiliazioni tenendoli svegli sino a notte fonda
Conosceva poco l’economia che trattava come una fortezza da espugnare
E giustificava i suoi crimini come un frutto della legge della storia
di Tommaso Piffer

Gestiva direttamente e con pugno di ferro ogni aspetto della vita della sua dacia, la casa di campagna alle porte di Mosca, dove soggiornava sempre più di frequente. Controllava tutto, senza lasciare niente nelle mani dei subordinati, inviando quasi ogni giorno ordini dettagliati che spaziavano dalla coltivazione delle piante all’amministrazione della dispensa. Lo stesso «approccio patriarcale» lo avrebbe applicato, con esiti tragici, a una proprietà ben più grande: l’Unione Sovietica. È uno Stalin inedito quello che emerge dalla nuova biografia da poco uscita in Russia e negli Stati Uniti (Yale University Press) a firma di Oleg Chlevnjuk, già autore di una importante Storia del Gulag (Einaudi, 2006). Uno Stalin che è il centro della vita politica sovietica fino al 1953 e la chiave di volta per comprendere i cardini del sistema politico che porta il suo nome, lo stalinismo.
Il primo aspetto è la concentrazione assoluta del potere, che Stalin esercitava delegando di volta in volta compiti specifici, ma mantenendo un controllo diretto sui lavori di ripavimentazione di una strada di Mosca così come sui livelli della produzione industriale o sulle trattative con la Germania di Hitler. I membri del governo sopravvissuti alle purghe degli anni Trenta erano tenuti sotto stretta sorveglianza e sottoposti a ogni genere di umiliazione da parte di Stalin, che spesso li costringeva a intrattenersi fino a notte inoltrata nella speciale sala di 155 metri quadrati approntata a questo scopo nella sua abitazione privata.
Le decisioni si riversavano sul Paese sotto forma di «campagne»: l’intera popolazione veniva mobilitata per il raggiungimento di obiettivi per lo più irrealizzabili, che venivano perseguiti con metodi straordinari e la sospensione di ogni procedura legale. Seguivano inevitabilmente un periodo di crisi e una «ritirata», che assumeva la forma di una contro campagna, spesso di pari intensità, che non di rado eliminava i responsabili della prima iniziativa e stabilizzava la situazione. Ogni passo di questo processo, che comportava la perdita di molte migliaia di vite umane e di ingenti risorse, era seguito direttamente da Stalin. Solo durante la Seconda guerra mondiale, con il dittatore impegnato altrove nella conduzione delle operazioni militari, il sistema conobbe un certo allentamento, per essere rapidamente ripristinato dopo la vittoria del 1945.
Il secondo cardine del sistema era la paura, esercitata attraverso l’imponente sistema di sicurezza sottoposto direttamente al dittatore. Davanti al terrore, il singolo cittadino era impotente, così come lo era il più alto funzionario del partito, la cui esistenza poteva essere spazzata via da un minuto all’altro. Chlevnjuk calcola che tra il 1930 e il 1952 furono fucilate oltre 800 mila persone, e che almeno 60 milioni furono soggette a una qualche forma di repressione, dall’arresto all’invio al Gulag, da lunghi periodi di detenzione ingiustificata alla perdita del lavoro perché parenti di un «nemico del popolo». A questi vanno aggiunte le oltre 5 milioni di vittime della carestia indotta da Stalin per piegare la resistenza dei contadini alla collettivizzazione tra il 1932 e il 1933.
Nello Stalin di Chlevnjuk, invece, c’è meno spazio per l’ideologia. La concezione del mondo del dittatore georgiano era certamente improntata agli insegnamenti di Marx e di Lenin, e in particolare a un violento anticapitalismo. Stalin si nutriva di una concezione estremamente semplificata della realtà, ridotta alla lotta tra classi, tra socialismo e capitalismo, che gli permetteva non solo di ignorare ogni complessità, ma anche di presentare i suoi crimini come frutto ineludibile della legge della storia. Aveva inoltre una conoscenza solo approssimativa del funzionamento dell’economia, che trattava come «una fortezza da espugnare».
Ma sono soprattutto altri, secondo Chlevnjuk, gli elementi ai quali guardare per comprendere come l’Unione Sovietica scivolò nell’incubo totalitario. Uno è indubbiamente la competizione per il potere, che Stalin condusse in modo spietato attraverso l’eliminazione di tutti i suoi avversari. A questa dinamica, per esempio, va ricondotta in parte la prima fase del Grande terrore del 1937, che, prima di colpire indiscriminatamente la popolazione, prese di mira quanto era rimasto delle opposizioni interne e della leadership collettiva emersa dopo la morte di Lenin. Vi era poi indubbiamente una componente patologica, che portava Stalin a vedere ovunque nemici pronti ad attaccare alle spalle lo Stato socialista. Più di un indizio fa inoltre pensare che negli ultimi anni prima della sua morte il deteriorarsi delle condizioni di salute di Stalin ne abbia offuscato ulteriormente la capacità di giudizio, aumentando i sospetti verso chi lo circondava e spingendolo verso una nuova ondata repressiva che fu interrotta solo dalla sua morte, il 5 marzo 1953.
Il volume di Chlevnjuk ha il fascino della biografia, dove i grandi movimenti della storia, le ubriacature ideologiche, la lotta per il potere e le meschinità personali si mischiano fino a diventare indistinguibili, per poi dar forma concreta alla storia e alle decisioni degli uomini. Su quanto ciascuno di questi ingredienti abbia contribuito a determinare il risultato finale, il dibattito è aperto.

Corriere La Lettura 14.6.15
Gli zar Romanov non furono dispotici come i bolscevichi
di Ettore Cinnella

Nel febbraio 1613 l’assemblea della terra russa ( zemskij sobor ) elesse zar il sedicenne Michele Romanov. Si chiudeva così il «periodo dei torbidi», iniziato dopo l’estinzione della quasi millenaria dinastia dei Rjurikidi. Lotte intestine, falsi pretendenti al trono, un’invasione straniera e gravi carestie avevano prostrato il Paese, che agognava alla stabilità. La nuova dinastia avrebbe regnato fino al marzo 1917 (nelle foto: lo zar Nicola II e la sciabola di suo cugino il granduca Nicola, uno dei cimeli che la casa Bonino manda all’asta domani, 15 giugno, a Roma). L’elezione di Michele non significò l’immediata nascita di un regime autocratico, perché lo zemskij sobor seguitò a essere convocato durante il suo regno e nella fase iniziale del suo successore Alessio. L’assolutismo russo era ancora in via di formazione e sarebbe stato perfezionato in seguito. Ma Michele non reiterò la solenne promessa che nessuno sarebbe finito al patibolo senza regolare processo, strappata dai nobili per ben due volte, nel 1606 e nel 1610, ai precedenti sovrani. La dinastia dei Romanov fu, per circa un secolo, di sangue russo. Ma la seconda moglie di Pietro il Grande era una contadina lituana che, con il nome di Caterina I, salì sul trono nel 1725 alla morte del marito. E Caterina II la Grande era tedesca. L’apogeo dell’assolutismo si ebbe con il regno di Nicola I. Sarebbe tuttavia errato accostare l’autocrazia zarista al selvaggio dispotismo di Stalin. La monarchia dei Romanov, basata sul potere illimitato del sovrano, nell’800 promosse una vasta codificazione e, con le riforme di Alessandro II, garantì una certa indipendenza ai magistrati.

Corriere La Lettura 14.6.15
L’eretico
Tito, marxista con gusti da arciduca anche a tavola e in camera da letto
Oggi nelle repubbliche ex jugoslave c’è nostalgia del maresciallo che combatté i nazisti e si ribellò all’Urss
È visto come un padre severo ma giusto. Gioca a suo favore l’immagine da raffinato dandy, amico di attrici come Liz Taylor e Sophia Loren
Ma in realtà fu un dittatore spietato
di Patrick Krlsen

La Tito-nostalgia è una variante, distinta e ben riconoscibile, di quell’attitudine al rigetto e al rimpianto diffusa nelle società postcomuniste dell’Europa centrorientale, bloccate dentro una transizione irrisolta verso la democrazia e l’economia di mercato. Da Lubiana a Belgrado una messe di studi, sondaggi, mostre, romanzi, film ci raccontano il sentimento benevolo nei confronti del dittatore e delle due illusioni a lui associate: l’unità dei popoli slavi del Sud, cioè la Jugoslavia, combinata a un socialismo dal volto umano, non oppressivo come quello sovietico. Nei Paesi in cui ha «regnato», Tito è ricordato spesso come un padre severo ma giusto, rispettato in ugual misura da tutti i figli del suo Stato multinazionale. Inoltre continua ad affascinare l’immagine del dandy in completo bianco, amante del lusso e della dolce vita, a passeggio con Sophia Loren o Liz Taylor sui moli dell’isola di Brioni. Praticamente, una sorta di Francesco Giuseppe in versione patinata e glam .
In Italia, che pure ha intessuto con il vicino comunista relazioni intense e talora critiche, di questi umori filtra poco o nulla. E neppure sono state tradotte le opere di quegli storici (due nomi per tutti: Geoffrey Swain e il compianto William Klinger) che hanno iniziato ad approfondire la biografia del discusso leader jugoslavo. A partire dai capitoli da sempre più oscuri e temuti dagli agiografi, quelli della giovinezza e della prima maturità negli anni Venti e Trenta. Quando Tito non era ancora Tito, ma «Walter»: un funzionario del Comintern in rampa di lancio sospettato di collaborare con l’Nkvd, la polizia politica del futuro arcinemico Stalin.
Pertanto, giova sicuramente al pubblico italiano l’uscita del monumentale Tito e i suoi compagni dello storico sloveno triestino Jože Pirjevec (Einaudi). Tanto più se il volume è il risultato di una ricerca seria e documentata, fondata su un estesissimo apparato di fonti secondarie e d’archivio ex jugoslave e sovietiche, statunitensi, britanniche e italiane. E se l’intento è quello dichiarato nell’asciutta introduzione, cioè restituire il profilo di Tito «alla maniera di Rembrandt»: senza sconti, vale a dire, con le ombre a dominare su sporadici chiarori, come Marx ed Engels invitavano a ritrarre gli uomini di potere.
Alla fine è quanto il lettore si trova in mano, perché Pirjevec non risparmia le tinte forti nell’abbozzare il suo soggetto. E non potrebbe essere altrimenti. Nato suddito asburgico nel 1892 a Kumrovec, sulla frontiera tra il regno di Croazia e il principato di Stiria, molto presto Josip Broz «si compromise a livello morale». Precisamente quando, sopravvissuto alla Grande guerra nella Galizia ucraina e risucchiato nelle maglie del sistema bolscevico, fissò a sua norma di vita l’inesorabile «meccanismo di rivoluzione e potere» che è il marxismo-leninismo, convincendosi che il male serve al bene e confondendo così l’uno con l’altro. Ma adottò senza remore anche la logica e la prassi dello stalinismo, non rinnegando l’arma del terrore e anzi adoperandola «con gioia» per sistemare le faide interne al piccolo, rissosissimo Partito comunista jugoslavo prima della Seconda guerra mondiale. «Eravamo orgogliosi di essere fedeli al tiranno sovietico» avrebbe ricordato Milovan Gilas: uno dei «compagni» del titolo «più stalinisti di Stalin», il gruppo dirigente decimato nel tempo dalle lotte fratricide del quale erano membri anche Edvard Kardelj, Aleksandar Rankovic e Andrija Hebrang.
La spaccatura del 1948 con l’Unione Sovietica non ebbe dunque fondamento ideologico, ma piuttosto derivò dalla «superba arroganza» della politica estera jugoslava. Lungi dal segnare un allontanamento dai contenuti criminali dello stalinismo, avrebbe coinciso almeno sul breve periodo con un loro soprassalto. Così accadde nell’«inferno» del lager di Goli Otok: l’Isola Calva sull’Adriatico dove più di 30 mila comunisti leali a Mosca, o presunti tali, sperimentarono, secondo alcuni testimoni, supplizi peggiori di quelli inflitti nel Gulag siberiano. Oppure quando fu varata la collettivizzazione forzata della terra, con la distruzione della classe sociale degli agricoltori decisa nell’autunno 1948 per dimostrare a Stalin quanto fossero infondate le accuse di lassismo verso i kulaki (contadini ricchi) indirizzate a Tito e compagni nella scomunica.
Tuttavia lo stesso Stalin si era compiaciuto per come quel «ragazzo in gamba» avesse eliminato tutti gli avversari, collaborazionisti e generici «controrivoluzionari», nel grande massacro dopo la vittoria del 1945. Un «terribile spargimento di sangue» lo definisce Pirjevec, rimasto a lungo tabù e costato la vita a un numero imprecisato di persone, tra le 70 e le 100 mila. Le politiche repressive e di epurazione preventiva colpirono in diverse fasi e modalità anche gli italiani della Venezia Giulia, di Fiume e della Dalmazia contrari all’annessione alla Jugoslavia o giudicati ostili al comunismo. Ma di «foibe» e di «esodo», nell’edizione italiana del ritratto di Tito firmato da Pirjevec, purtroppo non si parla, neppure in chiave problematica: il che appare un incongruo vuoto sullo sfondo di un’opera equilibrata.
In ogni caso, il tasso di violenza politica connaturato al nuovo regime decrebbe in maniera significativa dalla metà degli anni Cinquanta. La stagione che avrà per capolinea la lunga agonia e infine la morte del dittatore nel 1980, inaugurata alla conferenza dei Paesi non allineati a Bandung (Indonesia) 25 anni prima, è quella che più ha contribuito a forgiarne il mito in patria e all’estero. Specie nel Terzo mondo, agli occhi del quale Tito potè presentarsi come il paladino dei Paesi oppressi dalle superpotenze e penalizzati dallo schema bipolare della guerra fredda. Ma la sua popolarità salì alle stelle anche nel movimento comunista internazionale, dove il socialismo autogestito degli jugoslavi parve un faro a quei partiti (il Pci soprattutto) interessati a un riequilibrio policentrico dei rapporti di forza contro il monolitismo dell’Urss.
Nell’opinione prevalente tra i «suoi» popoli, Tito restò lo stratega che, dopo avere sconfitto Hitler e Mussolini, osò ribellarsi a Stalin senza cedere alle sirene occidentali, guadagnando alla Jugoslavia prestigio nel mondo grazie a un’accorta politica multilaterale. Le efferatezze dell’immediato dopoguerra furono avvolte in un tacito oblio. I relativi progressi nella qualità della vita, frutto in gran parte di un’economia drogata dai prestiti internazionali, occultarono il completo fallimento dell’autogestione. La grandeur , le frontiere aperte e le seconde case che «crescevano come funghi» resero sopportabili anche gli aspetti illiberali del regime, allentati ma mai cancellati del tutto, così come gli eccessi di un uomo bramoso e ingordo che non rinunciava a uno «stile di vita da arciduca austriaco». Sia a tavola che in camera da letto, come riferisce Pirjevec nei capitoli dedicati al Broz privato.
Solo il suo carisma, solo il magnetismo sfuggente dei suoi occhi azzurro pallido, riuscirono a tenere in piedi l’edificio fatiscente dello Stato jugoslavo, dentro il quale covavano i conflitti etnici che l’avrebbero dilaniato pochi anni dopo la sua morte. Occhi da vecchio cospiratore, «che non sempre sorridevano insieme con il suo volto» secondo Henry Kissinger. Da Stalin, l’antico maestro poi ripudiato e odiato, aveva imparato questa lezione tra le altre: «Devi ridere con gli occhi. E poi piantare il coltello nella schiena».

Corriere La Lettura 4.6.15
Sei bella come un parallelogramma
I numeri sono meravigliosi e fondamentali. Vince il primo che capisce che tre è più di due
Scienze esattissime. Jonathan Swift aveva capito tutto quando descriveva i sapienti del regno di Laputa, nei «Viaggi di Gulliver», che utilizzavano la matematica per apprezzare il fascino delle donne. Lo confermano gli studiosi di oggi
di Giulio Giorello

Ingordi di matematica, gli scienziati del regno di Laputa «si aggirano sempre fra linee e figure. Volendo lodare la bellezza di una donna, la descrivono con rombi, circoli, parallelogrammi, ellissi», anche se le «vivacissime» signore «disprezzano i mariti e sono pronte a cornificarli con tutti gli uomini che vengono da fuori». Così Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver (1726) caratterizza i sapienti di quel Paese immaginario. Nonostante la loro scarsa popolarità col gentil sesso, i maschi laputiani riescono a vantare una grande scoperta, l’aver individuato «due satelliti che girano intorno a Marte», di cui specificano con buona approssimazione numerica periodo e distanza dal pianeta principale, in omaggio alle Leggi di Keplero e alla Teoria della gravitazione di Newton: fatto assai curioso, dato che i due satelliti del Pianeta rosso, Deimos e Phobos, saranno individuati dall’americano Asaph Hall solo nel 1877.
Come ci fosse arrivato Swift resta un mistero, a meno che — come ha sostenuto qualche brillante ufologo — il «decano pazzo di San Patrizio» fosse un marziano in missione segreta sul nostro Globo. Resta che l’ossessione per il dato numerico qualche volta paga, anche se a Laputa come altrove forse più sui testi di astronomia che in camera da letto.
D’altra parte, la mania dei numeri sembra aver contagiato, seppur secondo modalità differenti, tutti i popoli della Terra, dagli antichi mesopotamici agli abitanti dell’odierna città globale. E forse non ci si dovrebbe limitare all’ Homo sapiens , come si può sospettare scorrendo l’affascinante casistica presentata da Giorgio Vallortigara e Nicla Panciera nel loro Cervelli che contano . Come minimo, osservano a loro volta Claudio Bartocci e Luigi Civalleri in Numeri (nato come catalogo di una fortunata mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma su Tutto quello che conta, da zero a infinito ), l’aritmetica «è una facoltà molto diffusa, anche perché procura un ovvio vantaggio selettivo: per esempio, l’animale che capisce la differenza fra un ramo che contiene due frutti e un altro che ne ha tre ha più possibilità di alimentarsi con efficienza».
Ciò che davvero «conta» in fatti come quelli appena citati non è tanto che si tratti di due satelliti o di tre frutti, quanto della circostanza che tre è maggiore di due, qualunque sia la natura degli oggetti considerati. E tutto ciò «comporta un atto di astrazione, che tuttavia non è la stessa di quella che abitualmente porta da un aggettivo come bello al sostantivo bellezza », osserva il logico e filosofo della matematica Gabriele Lolli nel suo Numeri . La creazione continua della matematica , comparso in questi giorni presso Bollati Boringhieri: l’astrazione, almeno in matematica, «consiste nel vedere qualcosa che non si vede, non nel non vedere qualcosa che si vede, cioè nell’ignorare o trascurare alcune proprietà degli oggetti quali la forma, il colore, la consistenza», poiché essa generalizza una relazione (persino apparentemente banale come quella che tre è maggiore di due) che lo sguardo semplice coglie solo come appartenente agli oggetti che ha sott’occhio. In questo senso l’astrazione contiene già un elemento ineliminabile di arricchimento e di creazione.
Forse prima ancora della scrittura, il genio dell’aritmetica ha cominciato a introdurre segni per indicare conteggi e misure, e da allora non si è più fermato. Dai numeri interi «naturali», cioè 1, 2, 3, 4… ecc., e mettiamoci — con qualche sforzo intellettuale — anche lo zero, una sorta di nome per il nulla, si è così passati alle frazioni, ai numeri relativi (positivi e negativi), ai numeri reali (essenziali nella descrizione dei processi continui) come la radice quadrata di due e ai numeri immaginari come la radice quadrata di meno uno .
Tutto ciò è stato ottenuto — scrive Lolli — in una vicenda fatta di «sorpresa, incredulità, rifiuto, ripresa, trionfo». Una storia epica, talora anche drammatica, come mostra la follia di Georg Cantor (1845-1918), il creatore della teoria dei numeri transfiniti, con la quale intendeva domare il più elusivo concetto della matematica, quello di infinito, commettendo quello che Borges ha chiamato il massimo peccato d’orgoglio dell’umanità.
Che strano bestiario, quello evocato dai matematici. Anche loro sembrano tipi alquanto bizzarri quanto i laputiani. Come osserva Umberto Bottazzini in un altro bel libro, anch’esso dedicato ai numeri (ed edito dal Mulino), «c’è chi ritiene che i matematici siano di stirpe divina perché hanno la capacità di creare dei numeri per spiegare la natura del continuo; c’è chi Dio lo chiama in causa per averci dato i numeri naturali e chi si considera un fedele scriba della natura che trascrive per gli uomini i numeri transfiniti come verità rivelategli da Dio» — come Cantor diceva di sé. E c’è chi, infine, come l’americano John Conway «mostra che tutti quei numeri non sono altro che giochi… surreali, lasciando in pace Dio». Bottazzini preferisce concludere che a creare i numeri naturali non è stato il Signore onnipotente (era questa, invece, l’intima convinzione del grande avversario di Cantor, il matematico berlinese Leopold Kronecker, 1823-1891, che aggiungeva che «tutto il resto è opera dell’uomo»). Più umilmente «è stata l’evoluzione a creare i numeri reali, e l’uomo non ha fatto altro che riscoprirli partendo dagli interi», proprio per il carattere discontinuo del linguaggio, incapace di esprimere adeguatamente i processi continui dentro cui noi stessi siamo immersi. La difficoltà è stata anche un’occasione.
Oggi, scrivono Georg Glaeser e Konrad Polthier, a ogni invenzione numerica della matematica corrisponde ormai una raffigurazione nella computer graphics , e l’immagine sullo schermo consente «la visualizzazione di strutture matematiche la cui natura astratta potrebbe ostacolare la nostra comprensione». Basta sfogliare lo stupendo catalogo di Immagini della matematica , frutto della loro ultima fatica all’incrocio tra scienza e arte, per capire che non sbagliavano troppo gli sfortunati mariti di cui si faceva beffe Swift a ricorrere a linee e figure per rappresentare la bellezza.

Corriere La Lettura 14.6.15
Biologia.
In teoria la selezione naturale dovrebbe privilegiare gli egoisti. Non è così
L’altruismo (ma non troppo) fa bene
La solidarietà ha favorito l’evoluzione
Gli eccessi però rendono integralisti
di Telmo Pievani

Il rompicapo dell’altruismo angustiava già Charles Darwin. La selezione naturale, infatti, favorisce tratti che portano un individuo a sopravvivere e a riprodursi meglio dei suoi simili. Siamo di fronte a un processo individualistico e non preveggente: la variazione vantaggiosa deve premiare il singolo individuo nel corso della sua vita ed essere trasmissibile alla generazione successiva. Eppure Darwin, da buon osservatore, si accorse che la natura trabocca di comportamenti altruistici, di animali che sacrificano la loro vita (come l’ape che si suicida emettendo il pungiglione) e di milioni di individui (come le operaie e le soldatesse sterili in api, vespe e formiche) che addirittura rinunciano a riprodursi per servire la loro comunità. Un altruista non dovrebbe già essere estinto? Come si spiega il successo evolutivo di tutti quei gesti che aumentano le probabilità di sopravvivenza e riproduzione degli altri a scapito di quelle dell’altruista?
Il naturalista inglese abbozzò un’ipotesi esplicativa. In alcuni casi l’individuo preferisce cooperare con gli altri perché in questo modo il suo gruppo diventa più forte e coeso, vincendo la competizione con altri gruppi. Il singolo rinuncia ai propri interessi a favore del gruppo, che in cambio lo proteggerà insieme ai suoi parenti e ai suoi figli. L’idea è ingegnosa, ma si espone a un altro rompicapo non meno insidioso: se in un gruppo di cooperatori compare un egoista che inizia a fare gli affari propri, costui godrà di un doppio vantaggio darwiniano perché difende egoisticamente se stesso e al contempo beneficia dei comportamenti altruistici di chi lo circonda (un ottimo esempio è l’evasore fiscale). Si tratta del noto argomento del free rider , il battitore libero che dovrebbe sempre ribaltare la situazione e sbaragliare i cooperatori, disgregando qualsiasi gruppo di altruisti. Come mai, invece, in natura la cooperazione di gruppo vince così spesso sull’egoismo individuale e i free rider restano tutto sommato (fatta eccezione per gli evasori fiscali in alcuni Paesi) una piccola minoranza sotto controllo?
Evidentemente esiste qualche meccanismo che impedisce la sovversione interna da parte del free rider e fa prevalere l’altruismo. Alcuni grandi evoluzionisti del secolo scorso, come William Hamilton, pensarono di averlo trovato al livello della trasmissione dei geni. Nel gruppo, infatti, è probabile che vivano anche i nostri parenti stretti: fratelli e sorelle, figli, cugini, ognuno dei quali condivide con noi una certa percentuale degli stessi geni. Ciò significa che, se io sono altruista verso il mio gruppo, sacrifico sì i geni di cui sono portatore diretto, ma favorisco la sopravvivenza e la riproduzione di chi porta con sé una parte dei miei stessi geni. In altri termini: puoi anche rinunciare a trasmettere i tuoi geni se così facendo garantisci il successo di due o più fratelli, di quattro figli o di otto cugini. Si chiama «selezione di parentela» e sul piano strettamente darwiniano funziona.
Se questa è la chiave di lettura, significa che l’altruismo — termine coniato nel 1851 dal sociologo Auguste Comte e posto al centro della sua positivistica «religione dell’umanità» — in realtà non esiste. È soltanto una forma indiretta di egoismo genetico e in natura l’individuo risponde comunque e sempre ai propri interessi particolari. Non tutti gli evoluzionisti condividono però questa visione cruda. Molte ricerche mostrano che l’altruismo si manifesta spesso in gruppi in cui le probabilità di favorire un proprio parente stretto sono basse. Lo troviamo anche in situazioni in cui l’individuo agisce da altruista senza aspettarsi una ricompensa, cioè un atto reciproco di restituzione del favore. Essere altruisti conferisce autorevolezza sociale e reputazione. I battitori liberi, al contrario, vengono sanzionati. Qualcosa di nascosto nella logica stessa del gruppo, e non soltanto l’egoismo genetico, spiega l’evoluzione dell’altruismo.
Questa è la tesi del biologo statunitense della Binghamton University, David Sloan Wilson, esposta nel libro L’altruismo. La cultura, la genetica e il benessere degli altri (Bollati Boringhieri) . Tutto nasce da un calcolo matematico. Se una popolazione biologica è uniforme e ognuno gioca per sé, allora prevale l’egoismo individuale. Se invece una popolazione è divisa in gruppi che competono fra loro, può avvenire un fenomeno particolare: di generazione in generazione, all’interno di ciascun gruppo, gli egoisti tenderanno a prevalere (secondo il principio del free rider ), ma un gruppo pieno di cooperatori avrà successo sugli altri gruppi e crescerà di dimensioni, facendo aumentare quindi anche il numero dei cooperatori. Mettendo sulla bilancia egoisti e altruisti, alla fine i secondi saranno di più, nonostante la continua minaccia dei battitori liberi all’interno di ciascun gruppo.
Il segreto sta in un continuo bilanciamento fra la selezione a livello individuale all’interno dei gruppi (che favorisce gli egoisti) e la selezione fra gruppi, che premia la cooperazione. La selezione opera quindi a più livelli. Quando prevale la forza del gruppo, come nelle specie sociali quali la nostra, l’altruismo diventa una strategia vincente. I gruppi, diversi uno dall’altro per numero di egoisti e altruisti, competono fra loro e la cooperazione si diffonde.
L’altruismo quindi non è un esito accidentale dell’evoluzione. Il lavoro di squadra rappresenta l’adattamento distintivo della nostra specie, il che mostra peraltro quanto sia fuorviante la metafora della «sopravvivenza del più forte» (del tutto assente nell’ Origine delle specie di Darwin). In natura l’adattamento è sempre relativo a un contesto di relazioni: qualche volta sopravvive il più abile, il più flessibile, talvolta il più forte, talaltra il più opportunista, il più fortunato, e spesso il più altruista. Se visto nel contesto del singolo gruppo, l’altruismo è costoso, ma se alziamo lo sguardo alle dinamiche fra più gruppi che competono fra loro diventa molto remunerativo. In sintesi: all’interno di un gruppo l’egoismo batte l’altruismo, ma i gruppi altruisti battono i gruppi egoisti. Darwin, tutto sommato, c’era andato vicino.
Si può essere altruisti per le motivazioni più diverse (alcune delle quali, peraltro, egoistiche), ma ciò che conta secondo Wilson non sono le ragioni o i sentimenti che portano all’altruismo, bensì le azioni stesse che favoriscono gli altri. È il loro successo evolutivo antico che dobbiamo spiegare, tanto nell’evoluzione biologica quanto in quella culturale umana. Quando i componenti di un gruppo coeso e ben organizzato coordinano in modo funzionale le loro attività in vista di uno scopo comune, diventano più potenti di qualsiasi individuo (e anche più efficienti nel gestire i beni comuni, secondo le teorie di Elinor Ostrom, Nobel per l’economia nel 2009). Altruismo significa dunque diventare parte di qualcosa di più grande.
L’agile introduzione di Wilson a questi temi propone anche un’educazione sociale all’altruismo nella scuola e nella vita, sperimentata nei quartieri di Binghamton. L’obiettivo è favorire ambienti sociali che permettano all’altruismo di imporsi in un mondo competitivo. Non manca un duro attacco ai «fondamentalisti del mercato» e a coloro che considerano egoismo e avidità come spinte propulsive dell’economia. Il libro è un inno alla potenza dei gruppi organizzati, ritenuti persino capaci di esibire un’«intelligenza collettiva», concetto controverso in campo scientifico. Talvolta l’associarsi in gruppo ha un tale successo da trasformarsi in un tutt’uno, cioè in un «super organismo» che si comporta come se fosse un singolo anche se in realtà è composto da milioni di individui. La selezione egoistica all’interno del gruppo in questi casi recede (ma non scompare mai, come nel caso delle cellule tumorali che proliferano a scapito dell’organismo a cui appartengono) e così emerge un nuovo livello di cooperazione. Le società umane, secondo l’ottimistica visione di Wilson, rappresentano un nuovo stadio dell’evoluzione e devono ora avviarsi verso un «altruismo planetario» che consideri come suo obiettivo il benessere di tutto il mondo.
Forse non tutti però gradirebbero far parte di una società alveare su larga scala, o di un super organismo policentrico come quello prefigurato dall’autore. I gruppi umani (cementati secondo Wilson da una selezione culturale di gruppo, in cui le religioni hanno svolto un ruolo cruciale di collante) presentano anche patologie ed eccessi, come il tribalismo, il conformismo sociale e l’integralismo. Un altruista troppo zelante e mal indirizzato può fare disastri. Benché Wilson non ne parli, è una diretta conseguenza della sua teoria: la cooperazione che ha reso così forti i nostri gruppi non sarebbe stata possibile senza il conflitto tra i gruppi stessi. L’altruismo è una strategia vincente per il nostro «noi» (il gruppo dei nostri simili), ma trova in chi è «altro da noi» il suo potenziale nemico. La specie umana sarebbe cioè socialmente ambivalente: cooperazione e aggressività nascono da una matrice comune, ovvero la nostra evoluzione in piccoli gruppi in competizione. Così il conflitto, paradossalmente, potrebbe aver nutrito il nostro altruismo. L’impressione è che solo una lunga evoluzione culturale e sociale potrà liberarci da questo retaggio ambiguo e insegnarci a considerare come nostro gruppo di appartenenza l’intera specie umana.

Repubblica 14.6.15
Un fantasma si aggira in libreria: la figura paterna
di Simonetta Fiori

Sarà pure morto, ma del padre non si è mai parlato tanto come oggi. Quasi un’ossessione, che rimbalza dalle piazze teatrali al cinema e all’editoria prossima ventura, con una insistenza che è rive-latrice di qualcosa. La paura di perdersi. Come nella nave evocata da Kierkegaard, in cui il timone è in mano al cuoco di bordo. Ciò che trasmette il megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani.
Peggio del padre assente è solo il padre adolescente. Sembra questo il senso del nuovo saggio di Massimo Ammaniti che arriverà dopo l’estate in libreria (Laterza). La famiglia adolescente è il ritratto di queste nuove aggregazioni sociali contrassegnate da una osmosi e da una uniformità stupefacenti, dove non esistono linee di confine, dove il mondo dei genitori è anche quello dei figli nella condivisione di vestiti, abitudini, stili di vita, complicità sessuali e sentimentali. La trovata di Ammaniti consiste nell’immaginare un adolescente degli anni Cinquanta alle prese con un coetaneo di oggi in compagnia di mamma e papà. Uno shock culturale, dice lo psicoanalista. Come arrivare in un altro emisfero. A cominciare dalla scoperta che molti ragazzi ora sono figli unici. Ed è su di loro che si concentra l’investimento emotivo dei genitori, scalpitanti nel voler realizzare attraverso la progenie i propri sogni incompiuti. «Se in passato padre e madre erano abituati a suonare un pianoforte dai molti tasti», dice Ammaniti, «oggi è rimasto un tasto solo da cui far venire fuori tutti i suoni». Povero tasto. *** L’assenza del padre è anche il segnale di un disorientamento diffuso, alimentato da narcisismo ed egolatria, individualismo spinto e relativismo etico. Un territorio che padre Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, sa attraversare con sapienza, intrecciando letture bibliche – Abramo e San Giuseppe citazioni obbligatorie –, sinodi papali ma anche un’estesa bibliografia da Turgenev all’ultimo Sorrentino e allo spettacolo Father and son di Bisio. Padri e figli è anche il titolo del suo nuovo saggio che rintraccia anche nella eccezionalità demografica – siamo il paese con la più bassa natalità al mondo – una diffusa rinuncia a intraprendere la difficile professione di mamma e papà. La palma della battuta più bella spetta a Freud quando deve dare a una coppia con figli due notizie. Una cattiva e una buona. «Quello del genitore è un mestiere impossibile ». «Ma esserne consapevoli è un gran vantaggio». *** Chi l’ha detto che i padri sono inutili? Qualche volta fa comodo raccontarcelo, ma la realtà è un po’ più complessa. Un mediatore famigliare, Federico Ghiglione, s’è preso la briga di spiegare alle mamme l’unicità e la difficoltà del ruolo paterno. Uomini perigliosamente in bilico tra i richiami virili del passato e la tentazione costante di abbracciare il modello femminile delle compagne. I papà spiegati alle mamme esce tra poco da Einaudi (a quando il sequel delle mamme spiegate ai papà? Ma forse non ce n’è bisogno, sanno già che non possono farne a meno).

Il Sole Domenica 14.6.15
Riaccordiamoci col mondo
di Remo Bodei

Nella musica dall’antichità il bello e il vero coincidono sotto il segno della misura. La modernità ha cercato di infrangere tale armonia ma senza riuscirci del tutto
La musica congiunge il massimo di rigore formale con il massimo di emotività. Esattezza e indeterminatezza, ragione e passione non solo non si escludono, ma sembrano anzi potenziarsi a vicenda. Essa è forse rimasta l’unica arte (assieme all’architettura, “musica pietrificata” secondo la Schelling) in cui la struttura matematica appare chiaramente riconoscibile. Sono tuttora evidenti le impronte della tradizione istituita dai Pitagorici, da coloro che per primi analizzarono in Occidente la natura della musica e, insieme, trasformarono, in scienze i saperi pratici rappresentati dalla geometria e dall’aritmetica. La musica, al pari delle misure del cosmo, è in essi governata dal “numero”. Prima di diventare pallide astrazioni, come lo sono per noi, i numeri e le proporzioni in cui lo spazio e il tempo potevano essere divisi provocavano, infatti, stupore e pathos. Il miracolo per cui i conti ’tornano’ o le figure si articolano secondo leggi inesorabili generava l’impressione di trovarsi dinanzi a manifestazioni del divino. La matematica e la musica erano perciò considerate il riflesso dell’eterno movimento ritmico dell’universo e l’ascolto della musica era consigliato per la cura delle passioni, in quanto avrebbe dovuto riportare l’anima all’originario equilibrio di consonanza con il mondo.
Misura e armonia sono calcolabili e oggettive, simboli contemporaneamente di bellezza e verità. Anche perché i suoni, nel regno dell’udibile e le figure in quello del visibile, rinviano a strutture ideali non sensibili, oggettive, in quanto comunicabili e riconoscibili da tutti. Le forme ideali, i modelli possono certo essere riprodotti a livello sensibile, ma la loro somiglianza con le ’copie sensibili’ non è immediatamente mimetica. In termini moderni tali modelli sono paragonabili a strutture analogiche quali lo spartito rispetto a una sinfonia o il solco di un disco rispetto ai suoni che se ne possono ottenere.
La musica è armonia, perché nasce da un accordo tra suoni diversi, simultanei o successivi. Il termine “armonia” designa originariamente la connessione tra oggetti fisici, ad esempio tra assi di legno nella costruzione di una nave, oppure l’intervallo e l’intreccio tra voci, parti dell’anima e argomenti). Nella musica antica (la quale è generalmente melodica e non sinfonica) l’armonia indica, tuttavia, gli intervalli tra le note e non i loro accordi consonanti.
L’esempio di armonia più chiaro e implicitamente carico di conseguenze viene tuttavia offerto dalla costruzione geometrica di un triangolo formato da due triangoli con vertice in comune e basi contigue. Tracciando le bisettrici dal vertice di ciascun triangolo alla base composta dalla somma delle due basi, si ottengono tre segmenti, la cui rispettiva lunghezza corrisponde a quella delle corde da noi attualmente chiamate “do”, “mi” e “la”. La perfetta corrispondenza tra la lunghezza dei segmenti geometrici e l’altezza dei suoni dimostra l’esatta traducibilità reciproca del visibile nell’udibile e dell’udibile nel visibile, nonché di entrambi nell’intellegibile. Ma anche, al contrario, dalla possibilità di concepire figure e suoni per mezzo della mente e di renderle poi visibili e udibili. Si capisce qui perché il bello e il vero coincidano sotto il segno della misura.
Tale concezione ha esercitato per millenni un enorme ascendente sulla nostra cultura, fungendo da supporto non solo a tutte le concezioni ’matematiche’ della bellezza che si sono susseguite nei secoli nel campo dell’arte o dell’estetica, ma anche ad alcune teorie decisive della scienza moderna. Copernico e Keplero, ma in parte anche Galilei, non sarebbero ad esempio comprensibili, nelle loro realizzazioni, senza l’eredità del pitagorismo, senza la ricerca di forme e proporzioni armoniche ed ’eleganti’ nei fenomeni.
In età moderna questo specifico legame tra verità e bellezza si è generalmente dimenticato (con l’eccezione di alcuni moderni neo-pitagorici, quali H. Kayser e R. Haase). L’onnipervasivo paradigma della calcolabilità del bello tramonta, teoricamente, con la vittoria conclamata dei diritti del “giudizio” estetico. Il bello (non solo musicale) perde la sua oggettività, che rimane prerogativa del vero, ed entra nella sfera soggettiva del “gusto” e della relativa educazione ad esso, che ha bisogno di musei, di concerti e di trattati. Nell’arco di tempo che va dal Barocco all’età di Kant si spezza quel criterio di traducibilità reciproca tra il sensibile e l’intellegibile che aveva caratterizzato la tradizione pitagorica: il sensibile è ora attribuito all’«estetica» nel suo nuovo significato, a una bellezza che non rinvia più direttamente a un al di là ultra-sensibile, mentre l’intellegibile diventa dominio elettivo delle scienze.
Dopo questa separazione, la musica (specie con l’esperienza romantica e le sue appendici più tarde) appare sempre più segnata dallo slancio del sentimento o, caricaturalmente, dallo stereotipo del “genio e sregolatezza”, del direttore d’orchestra o del violinista spettinato e invasato. Sorge così l’idea che essa esprima passioni, manifesti il fondo ribollente e inquieto dell’animo umano, piuttosto che l’armonia “numerabile” dei movimenti perfetti delle sfere celesti. Il sensibile si limita ora ad alludere all’intellegibile, così che quest’ultimo si innalza verso l’alto e “decolla” rispetto al primo, privandolo di leggi che lo regolino. Le forme intellegibili divengono così irrappresentabili e i suoni si sviluppano sul piano del sensibile: non rinviano più ad altro, non dicono più altro. L’indistinto diventa perciò, in questa stagione culturale, l’elemento poetico per eccellenza, sia nella musica che nella letteratura, che tendono, soprattutto nel tardo romanticismo, a usare l’alternarsi di toni veementi e delicatamente sfumati.
Ma la musica esprime davvero tutte le varietà del pathos, come ritenevano Vico, Friedrich Schlegel o Nietzsche? Per Vico - come è noto e come dimostrano per lui gli «scilinguati» che, cantando, «spediscono la lingua» -, la musica precede il linguaggio ed esprime l’animo perturbato e commosso. Da calcolo rigoroso (come tornerà a essere, nelle intenzioni, con Stravinskij) la musica diventa, in Friedrich Schlegel, «un giocare intorno a tutte le passioni» o, in Nietzsche, un linguaggio «dionisiaco» con cui le passioni dialogano con se stesse.
Ma non è un’illusione pensare che la musica manifesti i nostri sentimenti o le nostre passioni? Può darsi che - in senso letterale - essa non significhi assolutamente nulla, che mostri un puro «caleidoscopio» o un «arabesco sonoro», come riteneva Hanslieck. O, al limite, che manifesti soltanto, simbolicamente, il “dinamismo” dei sentimenti attraverso il loro ritmo, ma certo non dei contenuti.
Quando il bello perde le proprie caratteristiche di misurabilità, il giudizio su di esso finisce inoltre, necessariamente, per sottrarsi a criteri prestabiliti. Si affida a regole soggettive o non preliminarmente definibili, facendo cadere la barriera tra la forma e l’informe tra il suono e il rumore (come nel caso della musica postweberniana o dei “concerti” di John Cage sulla spiaggia, quando tutti gli astanti possono sintonizzare le radioline su una stazione di loro gradimento o come quando, in Imaginary Landscape n.4, ventiquattro esecutori girano le manopole di 12 radio).
La musica è allora tutta nel fenomeno, inseparabile dalla propria sonorità: non significa se non quello che manifesta, senza alcuna intenzione, rappresentazione o pensiero recondito di cui sarebbe semplice tramite. Come osserva Jankélévitch in La musica e l’ineffabile, «la musica non dice che quanto dice, o meglio non “dice” niente, nella misura in cui “dire” significa comunicare un senso». Trasporre le sequenze di suoni in stringhe di concetti significherebbe stravolgerli e impoverirli. Anche perché la musica è una lingua, come è stato detto, formata di «aggettivi», piuttosto che di «sostantivi», una lingua che «intendiamo e parliamo, ma che ci è impossibile tradurre».

Il Sole Domenica 14.6.15
Il microscopio e la camera oscura
Nati nel 1632, Vermeer e il filosofo naturale Van Leeuwenhoek lavorarono a Delft quando esplose l’uso degli strumenti ottici
di Franco Giudice

L’idea, oggi così ovvia, che gli strumenti siano un aiuto dei sensi è una conquista relativamente recente nella storia dell’umanità. Risale a circa quattrocento anni fa, all’epoca della cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo, quando iniziò ad affermarsi un modo di “guardare” la natura del tutto nuovo.
Il canone percettivo, fondato sul primato degli organi di senso, si rivelò improvvisamente inadeguato, tanto da sconvolgere la rassicurante immagine che l’uomo aveva dell’universo e di se stesso. E a mostrare questa inadeguatezza furono appunto gli strumenti inventati in quel periodo, soprattutto il telescopio e il microscopio, che per la prima volta consentivano di trascendere i limiti imposti dalla natura ai sensi e alla conoscenza umana.
Tra resistenze e polemiche, a farsi strada fu l’idea che il mondo visibile non coincideva più con quello catturato dallo sguardo naturale, a occhio nudo, e che bisognava pertanto ripensare l’azione stessa del vedere. Una svolta cruciale insomma, che capovolgeva lo statuto dell’osservatore e inaugurava una stagione senza precedenti.
È di questa «rivoluzione dello sguardo» che Laura J. Snyder racconta nel suo libro, facendo immergere il lettore nell’Olanda del secolo d’oro, dove sembra che gli strumenti ottici abbiano esercitato un’attrazione irresistibile e contagiosa. Al punto che se gli scienziati, per scrutare la natura, non potevano più rinunciare al telescopio e al microscopio, anche gli artisti consideravano ormai indispensabile servirsi di lenti, specchi e camere oscure, sia per creare immagini straordinariamente dettagliate di fiori e insetti, sia per ottenere scene con effetti realistici di luce, ombra e colore.
Più che altrove, dunque, nella Repubblica olandese del XVII secolo il nuovo modo indagare la natura trasformò non solo la scienza, ma anche l’arte. E nessun luogo, secondo Laura Snyder, ne offre uno spaccato migliore di Delft. Due protagonisti assoluti di tale cambiamento furono infatti il più grande pittore e il più grande filosofo naturale di questa piccola città: Johannes Vermeer e Antoni van Leeuwenhoek.
Il loro rapporto costituisce da sempre un problema seducente, anzi uno splendido mistero. Poiché entrambi condividevano lo stesso interesse per gli effetti visivi delle lenti, si è ipotizzato che si conoscessero bene e si scambiassero informazioni sull’ottica o su altri argomenti analoghi. Tanto più poi che essi sembrano uniti da un’intricata ragnatela di fili: nacquero tutti e due nel 1632, addirittura nella stessa settimana; da adulti vissero e lavorarono nei pressi della Piazza grande del mercato di Delft; ebbero amici in comune; e quando nel 1675 Vermeer morì, Leeuwenhoek fu nominato suo esecutore testamentario. Purtroppo, però, non esiste alcuna testimonianza che dimostri una loro effettiva frequentazione.
Alcuni storici dell’arte hanno suggerito che lo studioso raffigurato in due famosi dipinti di Vermeer – L’astronomo (1668) e Il geografo (1668-69 ca.) – sia Leeuwenhoek, e che possa essere stato proprio lui a commissionarli al pittore. Anche in questo caso, però, non c’è alcuna prova documentaria. E non aiuta di certo il confronto con i ritratti noti di Leeuwenhoek che, essendo di epoca successiva, risultano poco rassomiglianti con quelli eseguiti da Vermeer.
L’impossibilità di stabilire se Vermeer e Leeuwenhoek si conoscessero è un fatto ammesso dalla stessa Laura Snyder, che lo considera perfino secondario, convinta com’è che «il vero fascino della storia delle loro vite e delle loro opere consista nel ruolo centrale che entrambi ebbero nell’affermazione dell’idea moderna di visione». È in questa idea che, a suo avviso, va ricercato l’autentico legame tra i due geni di Delft.
Mercante di tessuti e piccolo funzionario pubblico, Leeuwenhoek iniziò a far uso di lenti per motivi professionali: per esaminare le trame delle stoffe. Non aveva ricevuto alcuna istruzione universitaria, non conosceva il latino, e non aveva particolari cognizioni di storia naturale o di filosofia. Fu in tutto e per tutto un autodidatta, che nel tempo libero imparò a molare, lucidare e montare lenti con notevoli capacità di ingrandimento. Quasi un passatempo, che finì però per trasformarsi in un secondo lavoro e in un’insaziabile curiosità per ogni aspetto della natura. Così, questo semplice uomo di commercio, nell’estate del 1674, poteva annunciare alla Royal Society qualcosa che aveva dell’incredibile: analizzando al microscopio l’acqua di un laghetto vicino a Delft, era riuscito a vedere una miriade di piccolissimi organismi viventi, ossia i protozoi. Era la prima di una serie di straordinarie scoperte, tra cui quella dei batteri e degli spermatozoi.
Anche se altri avevano già ottenuto importanti risultati con il microscopio, Leeuwenhoek finì per superarli tutti. Le sue osservazioni rivelavano una dimensione della vita sconosciuta e non percepibile ai sensi, un nuovo mondo di cui nessuno prima aveva immaginato l’esistenza: il mondo microscopico. E con la pubblicazione delle sue ricerche sulle «Philosophical Transactions», la rivista ufficiale della Royal Society, Leeuwenhoek divenne uno scienziato di fama internazionale. Studiosi, dignitari di corte e perfino sovrani, come Pietro il Grande di Russia, si recavano a Delft per assistere allo stupefacente spettacolo di minuscole creature viventi che Leewenhoek preparava per loro.
Vermeer, invece, un successo del genere non lo assaporò nemmeno. L’artista che ha creato alcune delle opere più ammirate e celebrate di tutti i tempi – dalla Veduta di Delft alla Fanciulla con perla all’orecchio, dalla Merlettaia all’Allegoria della pittura – rischiò quasi di essere cancellato dagli annali della storia dell’arte. Certo, durante la maggior parte della sua carriera si conquistò una buona fama a Delft ed era conosciuto anche al di fuori della sua città. Ma dipingeva con estrema lentezza, la sua produzione fu piuttosto esigua, e non diventò mai una figura di spicco nel mercato dell’arte. Quando nel 1672, in seguito alla guerra con la Francia, l’Olanda precipitò in una drammatica crisi economica, Vermeer ne fu letteralmente inghiottito. Alla sua morte, lasciò la moglie, dieci figli minorenni e un’ingente quantità di debiti. I suoi dipinti andarono dispersi e in molti casi attribuiti a pittori più noti di lui. La rivalutazione critica della sua opera iniziò soltanto a Settecento inoltrato.
Laura Snyder ripercorre ogni tappa di questa tragica vicenda, ma la sua attenzione si rivolge soprattutto a una delle questioni più complesse e dibattute tra gli studiosi: il ruolo della camera oscura nella pittura di Vermeer. Questo dispositivo, che nel XVII secolo era diventato ormai di ampio uso, si basa su un principio alquanto semplice: la luce che passa attraverso un piccolo foro ed entra in una stanza immersa nel buio proietta sulla parete opposta un’immagine capovolta di qualsiasi oggetto o scena si trovi all’esterno. L’immagine viene poi messa a fuoco con una lente convessa collocata in prossimità del foro e può, con l’aiuto di uno specchio, essere raddrizzata. Poiché però la camera oscura non lascia tracce visibili nei dipinti, è sempre difficile stabilirne l’impiego da parte di un artista.
Nel caso di Vermeer, dopo l’importante studio di Philip Steadman (Vermeer’s Camera, Oxford University Press, 2001), che ha dimostrato come, nella composizione di almeno dieci quadri, il pittore si sia avvalso di una camera oscura, la discussione poggia ora su un terreno più solido. Laura Snyder è molto critica – e un po’ ingenerosa – nei confronti di questo libro. Ma anche lei, pur sottolineando che «Vermeer non era schiavo dell’ottica della camera oscura», è certa che l’artista di Delft ne facesse uso e riuscisse così, come ripete più volte, a vedere «cose nuove», cose non visibili a occhio nudo. Sfugge tuttavia quali siano queste “cose” che soltanto la camera oscura rende visibili.
Ovviamente, la camera oscura, l’abbiamo detto, mostra in scala oggetti e fenomeni che ci circondano, ma non come quelli veramente invisibili, in quanto troppo lontani o troppo piccoli, rivelati dal telescopio e dal microscopio. Le suggestive descrizioni che fa Laura Snyder di alcuni effetti di colore, luce e ombra presenti nei dipinti di Vermeer, non bastano quindi a spiegare quale fosse, in concreto, il supplemento visivo che la camera oscura offriva all’artista. Il ricorso a questo dispositivo scaturiva infatti dalla sua capacità di trasformare scene tridimensionali in immagini bidimensionali, che potevano essere studiate in dettaglio e perfino ricalcate. Ma ciò che Vermeer apprezzava di più era che la camera oscura produceva immagini con un sensibile aumento del tono e del colore, permettendo di vedere, o di vedere meglio rispetto alla scena originale, le sfumature di luce e ombra.
Il libro di Laura Snyder è scritto con un’efficacia narrativa che non ha nulla da invidiare a un romanzo come quello che Tracy Chevalier ha dedicato a Vermeer (La ragazza con l’orecchino di perla, Neri Pozza). Questo pregio, che ne rende piacevole la lettura, non sempre però si concilia con il rigore storico che ci aspetterebbe da una studiosa. A stupire quindi non sono tanto certe sue interpretazioni, su cui si può essere d’accordo o meno, quanto alcuni scivoloni. Anche perché, soprattutto in epoca di Wikipedia, erano facilmente evitabili, come la sede dell’Accademia dei Lincei, che l’autrice colloca a Firenze e non a Roma, o come la traduzione dell’«occhialino» di Galileo con un improbabile little eye, anziché con il più appropriato small eyeglass.
Laura J. Snyder, Eye of the Beholder: Johannes Vermeer, Antoni van Leeuwenhoek, and the reinvention of seeing, W. W. Norton, New York, pagg. 432, $ 27.95

Il Sole Domenica 14.6.15
Una virtù normale
Il coraggio ce lo si può dare
Come vivere in pieno la vita senza cedere alla paura, senza dimenticare gli altri, coltivando i giusti valori e la leggerezza
di Carola Barbero

«Coraggio» viene dal latino «coraticum» o «cor habeo», derivanti da «cor, cordis» (cuore) e da «habere» (avere): ho cuore. Il coraggio prima che un moto razionale e il frutto della volontà è quindi un moto del cuore. Ha coraggio chi butta il cuore oltre l’ostacolo nonostante la paura che fa tremare le gambe e toglie il fiato. Ha coraggio chi va avanti senza cedere ai ricatti, alle intimidazioni e a gesti più o meno efferati, certo che nell’esempio e nella responsabilità civile ci sia quanto di più prezioso un uomo può offrire a chi ha intorno. Attenzione però, come ci ricorda Umberto Ambrosoli – in un libro in cui sono raccolti alcuni esempi di persone del mondo dell’imprenditoria, della politica e della giustizia che, in questi anni e nel nostro Paese sono state capaci di incarnare questa virtù – il coraggioso non è il temerario, l’eroe, bensì una persona normale che vuole lavorare e vivere la propria vita in pieno, guardando dritto, senza cedere alla paura (che pur avverte) e senza dimenticare la responsabilità che ha verso la collettività.
Don Abbondio ne I Promessi sposi di Alessandro Manzoni diceva che «il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare» e si sbagliava, perché nessuno è caratterialmente destinato ad avere paura e ad esserne sconfitto: si può sempre imparare, prendendo esempio da coloro che hanno scelto il coraggio. Sul fatto che il coraggio si possa trovare dentro di sé (anche quando si pensa di esserne sprovvisti), si soffermano anche Uber Sossi e Valeria Zacchi nel loro saggio la cui prima parte è dedicata, a partire dalla storia della parola «coraggio», a quelle pagine di letteratura, filosofia, psicologia, antropologia e sociologia che cercano di individuarne la natura; mentre la seconda parte propone riflessioni sul coraggio come stile di vita, come modo di stare al mondo. Il testo propone interessanti domande che hanno l’obiettivo di condurre il lettore in un percorso di riflessione personale alla ricerca delle tracce e degli esempi di coraggio che ognuno di noi può trovare nel proprio vissuto. Le risposte a tali interrogativi che via via si potranno
individuare non saranno verosimilmente mai definitive, ma potranno accompagnare in quella continua ricerca di consapevolezza di sé e di senso che è la vita. Poco alla volta riusciremo forse così ad allontanarci da quella rassegnazione mista a paura, sconforto e sfiducia che sembra essere diventata il sentimento più diffuso nel nostro presente. Forse riusciremo a recuperare un po’ di quella leggerezza che si sprigiona quando si segue la forze del cuore. Sì, perché se si ha il coraggio di non farsi guidare dalla paura, la vita come costrizione e pesantezza scompare e diventa leggera, dove però la leggerezza non deve essere vista come superficialità, bensì come il non avere pesi sul cuore.
Laura Campanello nel suo libro spiega molto bene quale sia l’utilità di tale leggerezza e come la sua acquisizione possa aprire la vita al cambiamento, alla creatività e alla possibilità di immaginare una vita migliore. È dotato di leggerezza chi riesce a ricercare e coltivare, chi si propone come obiettivo di arrivare a trasformare il quotidiano, accettando i propri doveri e le proprie responsabilità, aggrappandosi ai giusti valori e alle buone radici e rifiutando tutto ciò che vincola, soffoca, inaridisce o fa marcire. La leggerezza si può imparare ed è auspicabile che ciò avvenga perché leggeri (in questo senso), si vive meglio. Vivere con leggerezza vuol dire, in fondo, essere selettivi: prendendo a prestito le parole di George Eliot, «teniamo quello che vale la pena di tenere e poi, con il fiato della gentilezza, soffiamo via il resto». Liberiamoci dei pesi e delle costrizioni e usiamo la nostra intelligenza per lasciare spazio a una dimensione più autentica e responsabile del vivere, in cui il futuro sarà diverso perché noi avremo avuto il coraggio e la forza di cambiare il nostro presente. Italo Calvino, nella prima delle sue Lezioni Americane – il ciclo di lezioni che avrebbe dovuto tenere nell’utunno del 1985 all’Università di Harvard (e che non tenne perché morì nel settembre 1985) – dedicata al tema della Leggerezza, commentò il famoso libro di Milan Kundera spiegando come «L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere è in realtà un’amara constatazione dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere [...] Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. […] Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna».
Umberto Ambrosoli, Coraggio , Il Mulino, Bologna, pagg. 112, € 12,00;
Uber Sossi, Valeria Zacchi, Coraggio , Mursia, Milano, pagg. 118, € 10,00;
Laura Campanello, Leggerezza , Mursia, Milano, pagg. 146, € 12,00

Il Sole Domenica 14.6.15
Diventare adulti
Obbedire o ribellarsi?
di Francesca Rigotti

Nel 1784 Immanuel Kant pubblicò un opuscolo dal titolo Was ist Aufklärung? destinato a diventare il manifesto della ragione illuminata. È un’esortazione all’uso della propria intelligenza, un elogio del rischiaramento dei nuovi tempi, un inno al coraggio e all’azione. Tale «rischiaramento» coincide con l’uscita dalla autocolpevole minorità, che viene premiata col passaggio alla condizione di adulto caratterizzata da libertà, autonomia e indipendenza soprattutto economica.
Da questa particolare uscita prende le mosse Curi, nella sua personale e originale ricognizione del transito alla maggiorità quale processo mai concluso ma che si rinnova, si potrebbe dire, ogni giorno. Per assumere la nuova postura priva di sostegni e abbandonare il girello per bambini di cui parla Kant occorre «osare sapere», ovvero rapportarsi al padre. (Ben consapevole del carattere sessista del linguaggio, Curi lo demolisce subito chiarendo fin dalle primissime pagine che non terrà conto della distinzione di sesso). Si esce dalla minorità disobbedendo al padre o uccidendolo, commettendo dunque parricidio, come farà Edipo, colui che risolve l’enigma dei piedi perché ha il piede nel nome. La nostra tradizione è ricca di eroi giovani che instaurano il nuovo ordine distruggendo il vecchio, e ricavano da questo atto la legittimità del pensare con la propria testa e agire di propria iniziativa. La faccenda sembra lineare, la soluzione univoca. Si uccide il padre e si eredita il regno, vedi, con le varianti del caso, Amleto, o il Prigaioniero de I Fratelli Karamazov.
Ma con Curi le cose non sono mai semplici e lineari e soprattutto non univoche, perché è proprio Curi che da tempo ci ripete che la condizione dell’essere umano è di essere uno e molti, di avere i tanti piedi di cui parla l’indovinello della Sfinge. E infatti, ecco che il passaggio alla maggiorità segue un altro modello, antitetico al primo: non la ribellione ma l’obbedienza al padre. L’obbedienza di Abramo, Gesù, Francesco d’Assisi, Giovanni della Croce. Obbedienze attive condotte in piedi guardando in faccia il padre con amore. Eppure nemmeno questa è la soluzione, dal momento che la porta di Curi rimane, per quanto stretta, sempre aperta. Anche davanti a chi a uscire dalla minorità non ci pensa nemmeno; è il caso di Bartleby, lo scrivano del racconto di Melville, che alla proposta di modificare la sua banale mansione, risponde pacatamente: «Preferirei di no», affermando la sua libertà di non obbedire né uccidere.
Umberto Curi, La porta stretta. Diventare maggiorenni , Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 223, € 16,00.

Il Sole Domenica 14.6.15
I misteri dei neutrini/1
Enigmatici come Majorana
Oggi si fanno grandi investimenti in ricerca per verificare la teoria del geniale scienziato scomparso nel 1938 in modo misterioso
di Sylvie Coyaud

In febbraio si è appreso dal tribunale di Roma che tra il 1955 e il 1959 Ettore Majorana viveva in Venezuela in base a una foto che stando ai familiari non gli somiglia per nulla. In aprile, Il Giornale riferiva che dal 1958 fino alla morte nel 2005, all’età di 99 anni, Majorana costruiva insieme a Rolando Pelizza un generatore di antimateria o «raggio della morte»: alimentato con una pila da 12 volt, raggiunge i 5 miliardi di gradi in pochi «fermisecondi», dice l’ing. Cappiello di Milano che ne ha acquisito la proprietà intellettuale... In altri paesi la stessa leggenda metropolitana ha per protagonista Nicola Tesla o una celebrità locale. In Italia, era toccato a Guglielmo Marconi fino a Il raggio della morte, un libro degli agenti della finanza Gerardo Severino e Giancarlo Pavat uscito nel 2013, in cui l’inventore è sempre Marconi però Franco, il genio ventenne che prima di morire nel 1944 consegnò i piani del generatore al signor Pelizza. Ai cronisti giudiziari, il seguito è noto dagli anni Settanta come il «raggiro della morte» per i miliardi di lire girati in paradisi fiscali europei grazie all’interesse manifestato da governanti italiani e statunitensi e da membri dei rispettivi servizi segreti. Il signor Pelizza che ne deteneva l’esclusiva - a suo dire di allora la doveva a documenti di Marconi fu Guglielmo – era pregato di dimostrarne l’efficacia distruggendo un vecchio satellite americano. Purtroppo una nuvola s’intrometteva ogni volta tra il raggio e il bersaglio.
Fuori dalla fantascienza, Majorana aleggia sulla fisica odierna come in una citazione di Carlo Marx. Enti di ricerca investono milioni di euro, dollari, yen e yuan per verificare una sua teoria che dovrebbe chiarire i misteri del neutrino - i più importanti per la fisica del 21mo secolo secondo molti fisici – e che si scontra dal 1937 con quella di un altro gigante del Novecento, P.A.M. Dirac.
La fisica dei neutrini è nell’infanzia, scriveva Tommaso Dorigo in occasione di una conferenza dei «Neutrino Telescopes» (anche se gli strumenti non somigliano affatto a telescopi). Dal 1998 però, ha scoperto che oscillano tra un stato elettronico, uno muonico, uno tauonico e forse uno “sterile”. Che conservano l’impronta della loro origine, centro del Sole, galassia vicina o lontana, acceleratore di Ginevra o di Chicago. Siccome nulla li devia, se escono al Polo Sud è certo che sono entrati nel pianeta dal Polo Nord un attimo prima.
Lucia Votano, la prima donna a dirigere i laboratori dell’Infn sotto il Gran Sasso e ora in pensione, ha appena pubblicato Il fantasma dell’universo. Che cos’è il neutrino, breve e vivace fin dal titolo allusivo: uno dei ghost-buster del Gran Sasso si chiama Opera… «La domanda se il neutrino abbia le caratteristiche ipotizzate da Dirac o piuttosto da Majorana è ancora attualissima – dice - e la prova è che per risponderci si stanno costruendo apparati di sensibilità sempre maggiore. Gli esperimenti cercano un decadimento nucleare molto raro e ancora mai osservato: il decadimento doppio beta senza neutrini». Se questi fossero “di Majorana” sarebbero la propria antiparticella e svanirebbero, i neutroni del nucleo atomico si trasformerebbero in due protoni con l’emissione di due elettroni soltanto.
Anche le non osservazioni sono preziose. Nel luglio scorso, i fisici che da due anni lavorano con il rilevatore Exo-200 senza vedere nulla hanno posto alcuni vincoli al decadimento: il neutrino avrebbe una massa di 0,2-0,4 elettronvolt. Energia positiva poca, ma deve conservarsi e saltar fuori da qualche parte nelle briciole delle collisioni. Da teorico, Gaetano Salina dell’Infn è soddisfatto di questi risultati: «se sperimentalmente si trova un chiaro segnale di massa, la teoria di Majorana è più fisica di quella di Dirac», che prevede un’energia negativa. E poi «neutrini massivi danno speranza di nuova fisica oltre il modello standard. E si può andare oltre il funerale della fisica delle particelle celebrato con il Nobel a Peter Higgs».
A Lucia Votano viene in mente una culla al posto di una bara. «La questione Dirac o Majorana è importante anche per capire l’evoluzione dell’universo. Se il neutrino è di Majorana può avere contribuito a creare una disimmetria tra materia e antimateria. Al momento del Big Bang particelle e antiparticelle erano in uguale numero, ma durante l’evoluzione successiva è intervenuto qualcosa che ha favorito l’una rispetto all’altra».
Sotto l’Antartide sono stati intrappolati neutrini venuti dai confini del cosmo. E sulla stazione spaziale un mese fa, un esperimento del Cern al quale partecipava Samanta Cristoforetti ha raccolto nuovi dati sul rapporto tra protoni e anti-protoni nei raggi cosmici. Altri tasselli da incastrare, ma nell’ipotesi Dirac o Majorana? Abbiate pazienza, i neutroni sono «enigmatici quanto Majorana», onnipresenti eppure tremendamente schivi, dicono i fisici di Exo-200, di Orca, Minerva, Cuore, Icarus che insieme a Carlo Rubbia e al suo gruppo ha traslocato dall’Abruzzo al FermiLab di Chicago. Ignorano i campi magnetici, non interagiscono quasi mai con altre particelle. Nei ghiacci antartici o del lago Baikal, in fondo a miniere in Giappone e negli Stati Uniti, al largo della Sicilia o di Daya Bay in Cina, giganteschi rilevatori cercano di registrare almeno il lampo turchino - la «luce di Cerenkov» - del loro passaggio. Nell’esperimento Opera che provava a fermarne uno ogni tanto tra i miliardi di miliardi spediti dal Cern al Gran Sasso, lungo un percorso ormai noto come il «tunnel della ministra Gelmini», tra il 2008 e il 2012 si sono trovati quattro candidati a un’interazione da neutrino sterile che si mescola con uno tau. Un successo.
Decine di esperimenti a varie profondità terrestri e marine vorrebbero vedere se capita alle particelle di decadere come Dirac o Majorana comanda. In realtà non si occupavano di neutrini in sé, ma di fermioni non fermionici (i fisici sono negati per la filologia!), con una carica né positiva né negativa, ma neutrale, come il fotone, prive di alcune proprietà dei fermioni normali o con quelle opposte. Majorana semplificò le equazioni di Dirac, un bel regalo per gli sperimentalisti di oggi, anche quelli che studiano le proprietà di nuovi materiali.
Negli isolanti topografici, configurazioni che nessuno immaginava negli anni Trenta, si misurano – con probabilità statistica - dei quasi elettroni di Majorana, effimeri segnali in nanofili di metallo dopati, in materiali superconduttori o superfluidi. Manca però la prova definitiva, quel decadimento senza se e senza ma. Verrà dal Cern di Ginevra, dove il grande collisore di adroni ha raggiunto recentemente l’energia ideale, come pensano Goran Senjanovic e i suoi colleghi? O dall’Oriente?
Per non sentirsi disoccupata, Lucia Votano ha deciso di collaborare a un colossale acchiappa-fantasmi cinese di nome Juno, Giunone in inglese, ma l’acronimo sta per Jiangmen Underground Neutrino Observatory. Con una precisione quaranta volte maggiore, somiglia parecchio a Borexino, sotto il Gran Sasso, così non si sentirà spaesata. In gennaio ha assistito alla posa della prima pietra, tra cinque anni comincerà a fare la pendolare tra Roma e Jiangmen. Non vede l’ora.

Il Sole Domenica 14.6.15
I misteri dei neutrini/2
Una finestra sulla nuova fisica
di Vincenzo Barone

Ogni minuto, milioni di miliardi di neutrini (provenienti perlopiù dal Sole) attraversano il nostro corpo senza lasciare traccia – e senza ovviamente che ce ne accorgiamo. Queste misteriose particelle sono così riluttanti a interagire col resto del mondo che non hanno bisogno – come pensava una nostra ministra dell’istruzione – di un apposito tunnel per andare dal Cern di Ginevra, dove sono prodotte in collisioni subnucleari, fino ai laboratori del Gran Sasso, dove vengono osservate: compiono tranquillamente il viaggio tra la Svizzera e l’Abruzzo in due millisecondi e mezzo, attraversando indisturbate uno spicchio del nostro pianeta.
Ma non ci sono soltanto i neutrini solari e quelli degli acceleratori: ci sono anche i neutrini dei raggi cosmici e delle supernovae, quelli generati nei primissimi istanti dopo il Big Bang, che pervadono tutto lo spazio, quelli di altissima energia che arrivano chissà da dove, quelli provenienti dall’interno della Terra, e persino quelli «a kilometro zero», che produciamo noi stessi, circa 5000 al secondo – un po’ di più se mangiamo banane, perché sono emessi da un isotopo del potassio che abbonda in quel frutto. Tutti i neutrini che giungono fino a noi recano preziose informazioni sulle loro sorgenti e sui processi che li hanno originati - in definitiva, sul funzionamento dell’universo. Per osservare questi straordinari, ma elusivi, messaggeri, bisogna ricorrere a mezzi estremi: laboratori costruiti sotto terra per schermare i raggi cosmici (il più grande al mondo è quello dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare sotto il Gran Sasso) e giganteschi “telescopi”, costituiti da reti di rivelatori disseminati in chilometri cubi di materia – ghiaccio in Antartide, acqua nelle profondità del Mediterraneo (uno di questi apparati è in costruzione al largo di Capo Passero in Sicilia).
La storia dei neutrini – che è legata a doppio filo a quella della fisica italiana, ed è ora raccontata, assieme all’attualità della ricerca, in un piacevole librino scritto da una delle nostre maggiori esperte, Lucia Votano – ha inizio negli anni Trenta del secolo scorso, quando i fisici si trovarono di fronte a un enigma: nel decadimento beta, un processo in cui un nucleo radioattivo si trasforma in un altro nucleo emettendo un elettrone, l’energia degli elettroni prodotti risultava in completo disaccordo con quella prevista. Il grande Niels Bohr, sempre pronto a soluzioni rivoluzionarie, ipotizzò che nei processi nucleari l’energia non si conservasse. Un altro genio della fisica, Wolfgang Pauli, ebbe un’idea diversa: suggerì che nel decadimento beta, oltre all’elettrone, venisse generata un’altra particella, neutra (cioè priva di carica elettrica) e non osservata. La chiamò “neutrone” (i veri neutroni, costituenti dei nuclei assieme ai protoni, non erano stati ancora scoperti), ma Fermi gli fece notare che in italiano il suffisso “-one” fa pensare a qualcosa di grosso, mentre alla nuova particella, che doveva essere estremamente leggera, si adattava meglio il diminutivo “neutrino”. Fu questo il nome che si impose e che è oggi usato in tutte le lingue. L’idea di Pauli, oltre a rivelarsi corretta, rappresentò anche una pietra miliare sul piano metodologico: per la prima volta, infatti, derogando al principio di parsimonia che vieta di far proliferare le entità naturali, veniva postulata l’esistenza di una nuova particella – una strategia teorica ripetuta poi più volte con successo (si pensi al bosone di Higgs, “inventato” mezzo secolo prima della sua scoperta).
Fermi costruì la teoria del decadimento beta e della forza che lo determina – la forza debole – aprendo la strada al Modello Standard, la moderna teoria delle particelle e delle interazioni fondamentali. Il neutrino di Pauli fu scoperto sperimentalmente solo nel 1956 da due ricercatori americani, Cowan e Reines. Negli stessi anni, il panorama si ampliò: l’ex allievo di Fermi Bruno Pontecorvo, uno dei «ragazzi di via Panisperna», trasferitosi in Unione Sovietica, suggerì l’esistenza di un secondo tipo di neutrino, e ipotizzò che i neutrini potessero “oscillare”, cioè cambiare periodicamente da un tipo all’altro. Il neutrino predetto da Pontecorvo fu osservato nel 1962, e un terzo tipo di neutrino venne scoperto nel 1975.
Negli ultimi decenni l’interesse per i neutrini è progressivamente aumentato, perché si è capito che essi portano dritto al cuore dei meccanismi fondamentali della natura. Una delle loro proprietà su cui si concentra maggiormente l’attenzione dei fisici è la massa. Se fino a qualche anno fa si pensava che i neutrini fossero particelle di massa nulla, oggi si sa invece che hanno masse piccolissime, milioni o miliardi di volte più piccole di quella dell’elettrone, che deteneva il record precedente di leggerezza. Lo si è scoperto proprio studiando il fenomeno dell’oscillazione previsto da Pontecorvo (che avviene solo se i neutrini hanno massa). Ma non sappiamo perché queste masse – ancora non precisamente determinate - sono così piccole, e non è chiaro come incorporarle nel Modello Standard, che originariamente non le prevedeva. La natura stessa dei neutrini rimane enigmatica. Una domanda che ci si pone è se siano particelle come le altre, con un’antiparticella associata (l’antineutrino), o particelle del tutto differenti, come quelle immaginate nel 1937 da Ettore Majorana, il geniale fisico siciliano misteriosamente scomparso. Un neutrino di Majorana coincide col proprio antineutrino (il che lo farebbe sparire da certe reazioni di decadimento, che i fisici sperano di osservare) e acquista massa con un meccanismo diverso da quello delle particelle ordinarie. È stata inoltre ipotizzata l’esistenza di un’ulteriore varietà di neutrini, i neutrini “sterili” (così chiamati perché non sentono nessuna delle forze subnucleari), che potrebbero essere tra i componenti della materia oscura, quella materia che non si può osservare direttamente ma che è quattro-cinque volte più abbondante della materia nota.
Il fatto che le particelle più leggere e più sfuggenti che conosciamo racchiudano così tanti segreti dell’universo non può non affascinare. E il bello deve ancora venire. Molti ritengono infatti che i neutrini rappresentino la più promettente finestra sulla “nuova fisica”, quella che ci si aspetta che esista al di là del Modello Standard. Il loro studio - che vede in posizione di primissimo piano i ricercatori italiani - potrebbe nei prossimi anni cambiare radicalmente la nostra visione del mondo fisico.
Lucia Votano, Il fantasma dell’universo. Che cos’è il neutrino , Carocci, Roma,pagg.166, € 13,00

Il Sole Domenica 14.6.15
Storia d’italia. Una Resistenza civile
Lettere, testimonianze, memorie e discorsi dedicati da Norberto Bobbio e Claudio Pavone alla lotta per la liberazione
di Raffaele Liucci

Norberto Bobbio (1909-2003) e Claudio Pavone (1920): un filosofo del diritto e uno storico che, dopo avervi partecipato, non hanno mai smesso di interrogarsi sulla Resistenza. Lo attestano tre recenti libri. Il primo racchiude scritti di entrambi, a cura di David Bidussa, con un’appendice di sedici lettere (1983-2001) dal loro carteggio. Il secondo è una silloge di testimonianze e discorsi del solo Bobbio, redatta da Pina Impagliazzo e Pietro Polito. Il terzo è uno stralcio delle memorie inedite di Pavone, incentrato sul 1943-45. In tutte queste pagine si rispecchiano le speranze e le inquietudini di quella minoritaria galassia terzaforzista che scorse nella Resistenza una felice eccezione italiana.
Diciamolo subito: nel confronto, Pavone brilla più di Bobbio. Il filosofo torinese è spesso convenzionale e a tratti persino retorico, nonostante il proverbiale pessimismo. Pavone, invece, ragionando sempre da storico, è più penetrante. È vero che un lontano intervento di Bobbio del 1965 sembra quasi prefigurare la tripartizione della Resistenza in guerra patriottica, civile e di classe, introdotta da Pavone nel suo ormai classico tomo del 1991 (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza). Ma è anche vero che il miglior scritto di Bobbio sul tema è proprio una densa recensione del volume di Pavone, spartiacque nel campo degli studi storici. Quel libro monumentale sdoganò fra gli antifascisti il termine «guerra civile», verso il quale il filosofo s’era mostrato a lungo tiepido, come risulta anche dal loro epistolario («la guerra partigiana – scriveva ancora nel 1987 – non è una guerra civile, perché è una guerra contro lo straniero, se pure interno»). Del resto, l’antifascismo sabaudo è rimasto per anni appiattito su un lavoro di Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia (1976), che, riletto oggi, si rivela quantomeno datato.
Furono entrambi resistenti senz’armi, Bobbio e Pavone: separati non soltanto da undici anni d’età, ma anche da due biografie intellettuali non sovrapponibili. Quando il 6 dicembre ’43 il trentaquattrenne Bobbio fu arrestato a Padova, dove insegnava, e trattenuto in carcere per un paio di mesi, era già un professore affermato. Invece Pavone conoscerà la celebrità solo a settant’anni suonati, grazie alla citata monografia sulla guerra civile, dopo una vita come archivista di Stato. Nemmeno in queste asciutte Memorie di una giovinezza rinuncia all’abito schivo. La sua Resistenza – prima a Roma, poi a Milano – diventa un’attività clandestina «molto modesta», in cui «è più facile essere uccisi che uccidere». Spiccano gli incontri con uomini del calibro di Eugenio Colorni e Delfino Insolera, senza dimenticare il sofferto addio al cattolicesimo, proprio in quei mesi. All’epoca simpatizzante del Partito socialista, dopo il ’45 Pavone si definirà «azionista postumo». Alcuni lampi sui nodi più scabrosi – l’8 settembre, il dilemma della scelta, la moralità della violenza, l’«acquiescenza passiva» dei burocrati, Piazzale Loreto con la sua folla «non degna della tragicità di quello spettacolo» – sono un distillato delle sue future ricerche al riguardo. A riprova di quanto, per lui, studiare la Resistenza abbia significato «fare i conti con la mia esperienza in essa».
Non mancano i momenti involontariamente grotteschi. Una sera d’ottobre del ’43, Pavone si disfa di alcuni fogli compromettenti, gettandoli all’interno di una grossa auto nera parcheggiata con il finestrino aperto. Ma l’auto è sorvegliatissima, essendo quella di Guido Leto, già capo dell’Ovra e poi vice-capo della polizia repubblichina. Una leggerezza che gli costerà l’arresto e lunghi mesi di prigione, tra Regina Coeli (dove conosce Leone Ginzburg, portato via dai tedeschi sotto i suoi occhi) e il penitenziario di Castelfranco Emilia.
Il carcere è un abisso di ozio e brutalità. I geloni, la presenza «disgustosa e umiliante» del bugliolo, la paura dell’insonnia (vinta recitando nella sua mente vasti brani della Divina Commedia), i dialoghi con i detenuti comuni, «espressione di un mondo a me ignoto». Un giorno, le autorità fasciste prelevano venti prigionieri, da fucilare in rappresaglia ad un’azione partigiana. Pavone è uno dei cinque risparmiati. Fu straziante: «sperare di non essere scelto e sapere che questo significava la morte di un altro al posto mio».
Liberato a fine agosto ’44, approda fortunosamente a Milano, scaricato da una camionetta davanti a Palazzo Reale, «proprio dove molti anni dopo sarei passato tante volte per andare all’Istituto Nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia». Il successivo 25 aprile la città si risvegliava in una bolla d’euforia, con il nostro narratore finalmente fuori dalla clandestinità e felice di «non aver ammazzato nessuno».

Il Sole Domenica 14.6.15
Riflessi nel grande schermo
Ingiustizia sotto il vulcano
di Roberto Escobar

Ingiustizia e follia, questo fu la conquista del mondo nuovo scoperto da Cristoforo Colombo. Lo sostiene Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni. Ingiusto fu prendere la terra ai nativi, spiega poi, folle fu depredarli d’ogni bene, santificando il tutto con il «pio proposito» di convertirli alla vera fede. Quasi 240 anni dopo, le conseguenze dell’una e l’altra, dell’ingiustizia e della follia, tornano a mostrarsi in Vulcano – Ixcanul (Ixcanul, Guatemala e Francia, 2015, 93’).
Cresciuto in una regione del Guatemala abitata dai discendenti dei Maya, che ancora ne parlano la lingua e ne vivono costumi e riti, Jayro Bustamante racconta una storia non solo vera, ma alla fine anche terribilmente normale. A 17 anni, María (María Mercedes Coroy) sta per sposare Ignazio (Justo Lorenzo), il sovrintendente della piantagione di caffè dove lavora il padre Manuel (Manuel Manuel Antún). Pare dunque che la aspetti un futuro meno misero del suo presente. Ignacio ha una bella automobile, è ricco, parla lo spagnolo, conosce il mondo lontano della città...
Quello di María è un misero villaggio maya sulle pendici di Ixcanul, il vulcano che sta al centro delle credenze della piccola comunità e di tutta la sua esistenza. Nonostante il pio proposito dei conquistatori, la religione degli antenati non è morta. Si è solo adattata a quella venuta da occidente, e si è ammantata dei suoi nuovi riti, sotto i quali restano gli antichi. Soprattutto, restano il senso e il culto della vita, della sua luce e della sua forza che, salendo dal cuore della terra, si esprimono nel fuoco di Ixcanul.
Con María, protagonista del film è tutto il villaggio. Bustamante lo percorre e lo racconta con la sua macchina da presa. Ne mostra i volti, il lavoro, forse anche le speranze, di certo la disperazione. Disperata e tuttavia piena di speranza è anche María. Il suo mondo le appare troppo chiuso, rinserrato nel poco che resta di una cultura vinta. Vorrebbe andarsene, sia dal villaggio sia dal uatemala. Per sedurla, El Pepe (Marvin Coroy) le parla di un altro mondo: del mondo meraviglioso dove si parla inglese, su nel Nord. Lì lo spinge un sogno che da illusione potrebbe trasformarsi in incubo. Basta passare la frontiera, le dice. E quasi dimentica che, per arrivarci, occorre attraversare il Messico.
María crede al sogno di El Pepe, e crede anche a lui, pronta a pagare il prezzo che le chiede. Poi il ragazzo se ne va davvero verso nord, ma da solo, e a lei resta una figlia che si sente crescere dentro. Che cosa ne farà? Se ne libererà, per salvare il suo matrimonio, salvando così il lavoro del padre e la loro casa? O la terrà? In questa scelta cerca di aiutarla la madre Juana (María Telón), prima con i poveri rimedi di una tradizione antica, poi con la stessa forza e la stessa luce che escono dalla bocca del vulcano.
Non c’è colpa, non c’è vergogna a interrompere l’amore che lega le due donne. Bustamante ce lo fa vedere e sentire nella splendida sequenza in cui Juana si prende cura di María, lavando e accarezzando il suo corpo gravido. Per Juana quel che conta è María, ben più della loro casa e del lavoro di Manuel. E anche per Manuel, in fondo, è solo la figlia che conta. Tutti e due, madre e padre, accettano con tenera dolcezza quello che la vita ha deciso. Dal cuore profondo della terra, ma ancora vicina, in loro parla la voce degli antenati. Ed è come se mai fossero stati depredati del loro mondo né di se stessi.
D’altra parte, scendendo verso la pianura e la città – morsa da un serpente, María sta per perdere la vita che è in lei –, tornano ingiustizia e follia. L’ingiustizia di una povertà che nessuno difende, e di cui ognuno si approfitta, la follia della depredazione più disumana.
Perché nella piccola bara chiara che in ospedale consegnano a María non c’è il corpo di sua figlia? E perché nessuno vuole renderle giustizia? Assicura Bustamante che, in Guatemala, questa storia vera si ripeta migliaia di volte ogni anno, e che la sua verità stia su nel Nord, al di là del Messico.