mercoledì 10 giugno 2015

Repubblica 10.6.15
Il tarlo che usura il partito democratico
di Massimo L. Salvadori


CORRE insistente la voce che, se in un partito la maggioranza contesta o anche soltanto biasima la pretesa della minoranza o di più minoranze di avere il diritto non già di criticare la linea della prima e di proporre linee diverse, persino opposte, ma di votare in sede legislativa contro il governo espresso dal partito stesso, ciò equivale a imporre, in violazione della democrazia interna, il principio del famigerato “centralismo” detto democratico ma in realtà autocratico: il centralismo imposto da Lenin al partito sovietico nel 1921. È questa una concezione dei diritti della minoranza secondo cui, per essere propriamente democratico, un partito ha da essere aperto sino a consentire che, al di là della comune appartenenza ridotta ad una sovrastruttura formale, agiscano al proprio interno in via di fatto uno o più diversi partiti liberi di perseguire strategie e obiettivi alternativi. Chiunque usi il solo buon senso non fatica a comprendere che, quando e dove ciò accade, l’unità di un partito tende a dissolversi poiché l’uno diventa molti; e che il pluralismo partitico in quanto sistema della società politica nel suo complesso viene trasferito all’interno di un partito introducendovi elementi di potenziale dissolvimento.
Perché un partito possa funzionare occorre la contemporanea presenza di due fattori in grado di cementare la comune appartenenza: l’uno è la disposizione a mantenere attivo un vincolo solidale nutrito da finalità di fondo condivise sui problemi di governo della società; l’altro è il libero confronto sui mezzi per meglio conseguire un tale governo, accompagnato dall’accettazione da parte della minoranza o delle minoranze che i deliberati della maggioranza impegnino l’insieme. Se le parti minoritarie si sottraggono a un tale impegno — il che è ovviamente un loro sacrosanto diritto —, cede il patto fondativo di qualsiasi partito. Tanto nei parlamenti quanto nei partiti il principio di maggioranza ha la sua ragione nella necessità di mettere al riparo dal pericolo che il pluralismo politico degeneri in debolezza o addirittura paralisi decisionale. È questo un tarlo che da tempo usura il Partito democratico.
Ritenere che la richiesta della maggioranza interna al Pd alle minoranze di non spingere in sede parlamentare il proprio dissenso al punto di votare contro le scelte della prima implichi niente di meno che il ritorno al “centralismo democratico” è, prima ancora che una assurda esasperazione polemica, una distorsione della storia. I punti che costituivano l’essenza di quel centralismo erano, nel contesto di un sistema totalitario che andava consolidandosi, l’attribuzione alla leadership del monopolio di proposta e di decisione, il divieto di formare minoranze entro il partito e la proibizione a queste di agire pubblicamente per acquistare consenso: l’imposizione, insomma, di una incontrastabile pratica oligarchica che è tutt’altra cosa dal rispetto della regola del prevalere della maggioranza.
Il Pd si trova in affanno su diversi versanti: per il protrarsi di una conflittualità interna che non conosce tregua; per l’indeterminatezza della sua identità politico-culturale; per il tipo di organizzazione che intende darsi; per l’abbraccio del malaffare nella gestione della cosa pubblica. Se la conflittualità interna non dovesse comporsi, è difficile non pensare che non sfoci in una o più scissioni, invocate a gran voce da Vendola e al margine già avvenute. Quanto alla sua identità, che il Pd affronti la questione appare non rinviabile a fronte di componenti che si definiscono reciprocamente false sinistre. I Fassina e i Cuperlo denunciano i renziani per essere una sinistra verbale che camuffa una passione moderata, centrista, contrapponendosi agli interessi dei lavoratori, del popolo della scuola, ai sindacati; i renziani definiscono i loro oppositori una sinistra vetero-ideologica, meramente protestataria e retorica. Che poi l’attuale struttura di partito attuale faccia acqua, è evidente. La formula innovativa delle primarie si presenta ormai stanca. Irrisolti e densi di ambiguità sono il ruolo degli iscritti e dei non iscritti e il loro rapporto; e il reclutamento avviene con la pesante palla al piede costituita dalla mancanza di uno sforzo adeguato per fornire a iscritti, simpatizzanti ed elettori quel riferimento che può essere dato unicamente dalla elaborazione di una cultura politica i cui tratti appaiono oggi indistinti e affidati a sortite estemporanee. Gridare: sinistra così, sinistra cosà non funziona e danneggia. Se la sinistra vuole avere un volto riconoscibile, deve dimostrare di essere capace di darselo. Infine, come tutti i soggetti investiti di molto potere a partire dal governo del Paese, il Pd è terreno ambito di penetrazione da parte dei centri della corruzione. È negare la verità (lo fanno con sfacciataggine partiti ben più inquinati) sostenere che il Pd non abbia messo e metta in atto decise azioni di contrasto; ma l’onda della polemica lo sta ora investendo con violenza ed esso è tenuto a mostrare di avere la più ferma energia nell’amputare quello che va amputato.