La Stampa 26.6.15
La rivoluzione (incompleta) del divorzio cattolico
di Ferdinando Camon
Avrà grande influenza sulla società, il nuovo atteggiamento della Chiesa verso i divorziati-risposati. È una vera e propria rivoluzione. Inimmaginabile pochi anni fa, ma insufficiente fra pochi anni.
I divorziati sono una parte consistente della popolazione. L’unione fra un uomo e una donna «finché morte non li separi» è ormai non solo difficile da sostenersi, ma anche difficile da spiegarsi.
L’uomo cambia nel tempo, e con lui cambiano i sentimenti, e tra i sentimenti anche l’amore. Restare legato per vent’anni, trenta, quaranta, cinquanta, a una persona che amavi quando ne avevi venti, può portare l’uomo a vivere in contraddizione con se stesso. La Chiesa l’ha sempre saputo. Sposando un uomo e una donna, in realtà non lega lui a lei e lei a lui, ma lega ciascuno dei due a un terzo elemento, esterno alla coppia, eterno e immutabile. Per questo il matrimonio vien proclamato «indissolubile». Questa indissolubilità ha molte conseguenze. Una separazione dal coniuge diventa una separazione da questo elemento eterno. Come tale, non merita un’espulsione soltanto dalla famiglia, ma anche dalla comunità dei fedeli. I fedeli hanno un rito, umanamente sublime, per realizzare il contatto fisico con la fonte della loro fede, e questo rito si chiama «comunione». È logico e coerente che il separato, che con la separazione si era staccato da questa fonte, venisse escluso dalla comunione. Riammetterlo, adesso, è un’impresa dottrinariamente complessa. Perciò il documento cattolico (che per ora è soltanto un preannuncio) è reticente. Non parla di «ammissione», ma di «non esclusione». La Chiesa urta contro difficoltà nuove. Una separazione è una colpa? Sempre e comunque? Anche quando la convivenza è solo conflitto e il conflitto è un trauma per i figli? E se un coniuge non regge più il matrimonio e se ne va, e dunque fa un divorzio, la colpa non può essere dell’altro coniuge, che non lo fa? Spesso l’unione funziona come un contagio, un coniuge si ammala, ma a produrre la malattia può essere l’altro coniuge. La risposta a questa domanda non la danno preti e vescovi (che non conoscono il matrimonio e la vita coniugale), la danno Freud e la psicanalisi. Non è saggio per il Cattolicesimo tenere al bando Freud, come a suo tempo non è stato saggio bandire Galileo. Bandire Galileo significava chiudere la strada alla comprensione della Fisica. Bandire Freud significa chiudere la strada alla comprensione della psicologia.
Acutamente il Papa osserva che «ci sono casi in cui la separazione è inevitabile e a volte moralmente necessaria». Allora non è una colpa, ma un merito. Roma non ha mai usato un linguaggio così forte. Ma ecco la limitazione: il Papa cita i casi in cui «si tratta di sottrarre il coniuge più debole o i figli piccoli alle ferite più gravi causate dalla prepotenza e dalla violenza, dall’avvilimento e dallo sfruttamento, dall’estraneità e dall’indifferenza». Ma questi sono casi in cui una separazione s’impone per richiesta dei parenti, degli amici, dei vicini, perché l’insopportabilità della convivenza è palese a tutti. E se non è palese? Neanche a colui che la patisce? Se la produzione del malessere è compiuta con le armi silenziose del malessere, dell’infelicità, dell’insoddisfazione perenne, della ribellione inconscia? Se l’unione fa male a un coniuge, senza che l’altro faccia mai veramente del male?
Le parole del Papa preannunciano quello che si chiamerà il «divorzio cattolico», la separazione nei casi di violenza clamorosa ed eclatante. Resteranno i casi di violenza silenziosa. Quelli nei quali non si useranno le armi, ma il veleno. A piccole dosi quotidiane. Magari, e qui sta il vero problema, senza che chi somministra quelle dosi sappia che è veleno, e lo creda miele.