mercoledì 24 giugno 2015

La Stampa 24.6.15
Grecia
Non sarà una vittoria per tutti
di Alberto Mingardi


Tutto bene quel che sta finendo bene? La speranza di un accordo in extremis con la Grecia ha strappato un sospiro di sollievo alle Borse. Ci sono almeno due buone ragioni per essere contenti.
In primo luogo, un default e un cambio di valuta avrebbero, nel breve, l’effetto di uno tsunami per la popolazione greca.
In seconda battuta, la «Grexit» ci porterebbe in acque inesplorate. L’Unione Europea è un club dove ci sono regole per tutto, tranne che per uscirne. L’assenza di procedure nutre l’incertezza, che a sua volta atterrisce i leader politici, nessuno dei quali vuole legare il suo nome a un disastro epocale.
Tuttavia l’esperienza insegna che a un sollievo a breve termine può seguire un peggioramento della malattia.
Il patto che il governo Tsipras siglerà con Bruxelles si basa sulla promessa di risanare il bilancio inasprendo la pressione fiscale. Delle misure di consolidamento proposte, il 93% passa per aumenti di tasse e contributi, il 7% per tagli di spesa. L’Unione Europea guarda ai saldi e pertanto non ha nulla da eccepire. Ma è difficile che lo strangolamento fiscale della Grecia possa servirle a tornare a crescere. Tsipras e Varoufakis hanno in antipatia i tagli di spesa, per rispettabili ragioni ideologiche. Però aumentando l’Iva, inventandosi nuove tasse sui beni di lusso, tassando ulteriormente i profitti d’impresa è improbabile che il Pil faccia altro che contrarsi. Se i greci hanno problemi a pagare i loro debiti oggi, figurarsi cosa accadrà quando saranno ancora più poveri. Quindi, se le cose restano come stanno ora, il problema non è risolto: al massimo è rimandato.
C’è di peggio. Immaginiamo che si arrivi a un accordo. Quale lezione ne trarrebbero, classi dirigenti ed elettori degli altri Paesi? Molto probabilmente, penserebbero che il ricatto greco ha funzionato.
Ciò è vero per i politici: se a Tsipras è concesso di avere come obiettivo l’1% di avanzo primario (cioè di avere entrate maggiori delle uscite, al netto degli interessi, per l’1% del Pil), perché Renzi dovrebbe impegnarsi a fare il 3%? Perché dovrebbe essere preclusa ad altri governi la possibilità di costruire un po’ di consenso con aumenti di spesa?
Ancor più, però, saranno gli elettori a rifiutare ogni logica di lungo periodo. La credibilità dei governi di quei Paesi che hanno fatto riforme impopolari andrà in fumo. E’ improbabile che gli spagnoli possano farsi tanti scrupoli a votare per Podemos, o i portoghesi a svoltare a sinistra. A che pro accettare i sacrifici, quando vince chi urla di più?
Eppure neanche quello di una vittoria del fronte anti-austerità è uno scenario stabile. Nel momento in cui l’orientamento diventa «salvare tutti», l’incentivo a fare le riforme diminuisce. Ma chi prende l’obolo del re canta la canzone del re. E’ improbabile si possa andare avanti senza un «coordinamento» centralizzato della politica fiscale. L’Ue non potrebbe più limitarsi a guardare ai saldi: dovrebbe anche decidere a che età si va in pensione e quali farmaci passa la mutua e quali no. Gli spazi di manovra degli Stati nazionali, cioè gli spazi della politica, si assottiglierebbero enormemente. Con tutta probabilità, per reazione i movimenti populisti si irrobustirebbero ancora di più.
Aspettiamoci molti festeggiamenti e poche certezze. L’accordo sulla Grecia sarà una vittoria di tutti. Una vittoria di Tsipras e di Juncker, di quelli che vogliono mani libere per spendere e di quelli che vogliono più Europa. C’è evidentemente qualcosa che non va.