La Stampa 23.6.15
Otto secoli in fuga per i calvinisti francesi rifugiati in Piemonte
Una lunga alternanza di accordi e spedizioni punitive
di Alessandro Barbero
Sono passati più di otto secoli dalla prima volta in cui i Valdesi si sono incontrati ufficialmente col papa. Correva l’anno 1179 quando una delegazione del movimento valdese si presentò a Roma per chiedere a papa Alessandro III l’autorizzazione a vivere in povertà, come gli apostoli, e a predicare la parola di Dio. Erano pieni di buone intenzioni, ma quando si scoprì che non sapevano nemmeno il latino, e che si erano fatti tradurre il Vangelo in francese, tutti risero di loro; e vennero cacciati via. Ma il Valdesi, già allora, erano gente testarda, e continuarono a predicare in pubblico; per il resto, dichiaravano di essere fedelissimi alla Santa Chiesa, ma su quel punto non sentivano ragioni. Finì che il papa li scomunicò, e i Valdesi, senza averlo affatto voluto, scoprirono di essere eretici.
Il movimento, all’epoca, non aveva nessuna connotazione alpina; era nato in una grande città come Lione, una delle capitali dell’industria tessile medievale, e nelle città continuò a diffondersi e a prosperare. Ma quando la Chiesa, che imparava in fretta dai suoi errori, cominciò a far loro concorrenza appoggiando movimenti come quello francescano, e dotandosi di una struttura repressiva come l’Inquisizione, gli spazi in cui riuscivano a muoversi i Valdesi si restrinsero. Alla fine si trovarono ridotti alle valli piemontesi, che ancora all’inizio del Cinquecento erano divise fra tre stati: i Savoia nelle valli di Luserna, di Perosa e di S. Martino, i Saluzzo nella Valle Po, il re di Francia nella Val Pragelato. Lì, dopo l’assemblea di Chanforan che nel 1532 decise l’adesione alla riforma calvinista, quello che era stato un movimento semiclandestino e tenuto vivo da predicatori itineranti cominciò a trasformarsi in una Chiesa territoriale, con i suoi pastori e i suoi templi.
Che fosse difficile cacciare i Valdesi dalle valli non c’è dubbio, ma non era impossibile, se ci fosse stata la volontà politica. Anche i Valdesi di Calabria vivevano in luoghi abbastanza impervi, ma quando, nel giugno 1561, il viceré di Napoli decise di sterminarli, le loro comunità vennero annientate. Negli stessi giorni, invece, Emanuele Filiberto firmava con i Valdesi del Piemonte il trattato di Cavour, concedendo loro la libertà di culto all’interno delle valli; cosa inaudita in un paese cattolico, e che non nasceva da spirito di tolleranza, ma da un calcolo di opportunità – tant’è vero che dopo l’annessione del marchesato di Saluzzo i Valdesi della Valle Po, non coperti dal trattato, vennero sradicati con la forza.
La grande crisi economica del Seicento peggiorò le cose. I Valdesi delle valli, col loro attaccamento alla lingua francese, erano visti con ostilità dai contadini cattolici della pianura, e più di una volta il governo di Torino decise che era ora di farla finita: sono rimaste famose la spedizione punitiva del 1655, le “Pasque Piemontesi”, e quella del 1686, quando Vittorio Amedeo II, andando a rimorchio del Re Sole che aveva abrogato l’editto di Nantes, occupò le valli a mano armata. I morti furono migliaia, migliaia i deportati nelle risaie vercellesi, i superstiti espatriarono in Svizzera. Ma dopo appena tre anni il pastore Arnaud organizza la Glorieuse rentrée e riprende possesso delle valli, passando a fil di spada i presidi sabaudi; l’anno seguente il duca dichiara guerra alla Francia e autorizza il ritorno dei Valdesi. I tempi stanno cambiando, l’epoca dei Lumi non vedrà più persecuzioni, anche se bisognerà aspettare Napoleone perchè i cittadini di fede riformata abbiano in Piemonte gli stessi diritti degli altri.