venerdì 19 giugno 2015

La Stampa 19.6.15
Neonazisti, skinhead e anti-gay
Così l’ultradestra Usa va alla guerra
Non solo il Ku Klux Klan: “Il razzismo sta diventando sistemico”
di Paolo Mastrolilli


Una foto su Facebook mostra Dylann Storm Roof arrabbiato, con un giubbotto dove aveva cucito la bandiera del Sudafrica all’epoca dell’apartheid, e quella della Rhodesia, uno Stato razzista che aveva smesso di esistere prima ancora che lui nascesse. Gli investigatori non hanno stabilito un collegamento formale fra il giovane killer di Charleston e i gruppi estremistici della South Carolina: lo zio dice che era un introverso, era stato arrestato due volte per droga, e forse prendeva antidepressivi. Però quelle bandiere di due realtà lontane un oceano e diversi decenni da lui, dimostrano quanto meno l’ambiente intollerante e ottuso in cui è cresciuto, e la responsabilità che molte altre persone condividono per la strage della Emanuel Methodist Episcopal Church.
Nella South Carolina, secondo il Southern Poverty Law Center, operano almeno 19 «hate groups», cioè i gruppi che fanno dell’odio la propria cifra. C’è il Ku Klux Klan, naturalmente, che qualche mese fa aveva lanciato una campagna di adesioni esplicita, facendo trovare caramelle davanti alle porte dei cittadini. Qui sventolare le bandiere confederate sugli edifici pubblici è ancora legale: non può sorprendere che ci siano sei gruppi ancora determinati a non riconoscere la sconfitta nella Guerra Civile. La League of the South sul proprio sito avverte: «Se ci chiamerete razzisti, la nostra risposta sarà: e allora?».
«Afroamericani favoriti»
Parlando nel 2012 al giornale di Charleston «Post and Courier», Kyle Rogers, uno dei leader del Council of Conservative Citizens, aveva detto: «Gli afroamericani sono i membri più privilegiati della loro razza. Non vedo un’eredità di oppressione. I neri hanno sempre tratto benefici dal fatto di vivere negli Stati Uniti». Tra i gruppi dell’odio della South Carolina ce ne sono tre neonazisti, uno chiamato apertamente Movimento Nazionalsocialista, uno anti gay, gli skinhead confederati, e anche i neri separatisti della Nation of Islam.
Gli Usa sono nati da una rivoluzione contro l’oppressione coloniale britannica, e il primo emendamento della Costituzione protegge la libertà di espressione, inclusa quella dell’odio. È giusto non toccarlo, ma l’uso richiederebbe una certa responsabilità, che spesso manca.
In questo senso, la strage di Charleston ha capovolto il dibattito razziale avvenuto finora. Quando un ragazzo nero come Mike Brown andava in giro per Ferguson a rubare sigari e litigare con i poliziotti, i benpensanti si chiedevano: dove sono i suoi genitori? Perché i padri hanno abdicato all’educazione dei loro figli? Che fine hanno fatto i leader responsabili, tipo Martin Luther King, capaci di denunciare i violenti?
Ecco, ora tutte queste domande si devono porre anche ai bianchi. Come è venuto in mente al padre di Dylann di regalargli una pistola per il suo ventunesimo compleanno? Non sapeva dei suoi problemi, gli arresti per droga? Dove sono i leader bianchi responsabili, che invece di continuare ad alimentare l’estremismo, alzano la voce per denunciare il razzismo e magari ammainare le bandiere dello schiavismo? Volete davvero un’altra guerra civile nelle strade, per separare il Sud dal Nord?
L’elezione di un Presidente nero, per paradosso, ha provocato la reazione inversa dei bigotti. L’aumento dei gruppi dell’odio. Ce l’ha spiegato Sue Monk Kidd, la scrittrice di Charleston che con «L’invenzione delle ali» ha raccontato la storia di Sarah Grimke, ragazza bianca bandita dalla South Carolina perché era diventata un’attivista contro lo schiavismo: «Il razzismo in America è sistemico, non solo al Sud. Ora è più difficile riconoscerlo, perché è più sottile, ma abbiamo un problema di privilegio dei bianchi, integrazione, polarizzazione razziale. È più sotterraneo, ma riemerge sempre».