martedì 16 giugno 2015

La Stampa 16.6.15
La scomparsa sul territorio del vecchio Pci
di Luigi La Spina

È inevitabile, è intrigante, ma è inutile partire da questa doppia tornata di amministrative per prevedere il risultato del prossimo voto politico. Le variabili, a partire da una scadenza temporale prevista per il 2018 ma che potrebbe anche essere anticipata, sono numerose per azzardare pronostici. È vero che il metodo dei ballottaggi, adottato per le comunali, può richiamare quello dell’Italicum, il sistema col quale si dovrà votare per la Camera, ma c’è una differenza importante.
In sede nazionale, al duello finale va un partito, non una coalizione. Vista la tendenza storica, poi, le astensioni saranno sì in crescita, ma è difficile che, in elezioni politiche, raggiungano il picco straordinario a cui si è arrivati domenica scorsa. Infine, la variabile più importante. Quale sarà, al tempo del voto nazionale, la salute del governo in carica? E, soprattutto, quale sarà la salute della nostra economia e dei portafogli degli italiani?
I meteorologi del voto, perciò, rischiano di essere come quelli che, in pieno inverno, annunciano una estate caldissima. Se ci azzeccano, passano per profeti; se sbagliano, saranno assolti, perché «a lungo termine, non si può essere sicuri di nulla». Meglio, allora, invece di guardare al futuro, guardare in profondità e cercare di capire i mutamenti strutturali del sistema politico che le ultime votazioni hanno indicato.
Le elezioni di domenica hanno confermato la perdita anche dell’ultima eredità della prima Repubblica: il radicamento territoriale dell’unico superstite di quel periodo, il grande partito della storica sinistra italiana. Il Pd, figlio un po’ degenere, ma legittimo, del Pci, ha completato la sua metamorfosi ed è divenuto un partito d’opinione, con tutte le caratteristiche, nel bene e nel male, di tutti gli altri partiti dell’Italia d’oggi.
Il disconoscimento di quella eredità ha travolto tutti i miti di una lunga e anche gloriosa tradizione. A partire dall’universale rispetto, sempre confermato dai risultati elettorali, per la capacità di ben amministrare gli enti locali, per cui il voto delle comunali e delle regionali avvantaggiava regolarmente quel partito rispetto a quello politico nazionale. Adesso, gli scandali nelle giunte di tutt’Italia, comprese quelle di sinistra simbolicamente rappresentate dal caso di Roma, «mafia capitale», hanno sepolto quell’«alterità morale», vera o presunta, di cui i dirigenti locali di quel partito si vantavano. Insomma, l’antica e forte presenza territoriale del più grande partito della sinistra o è in disfacimento o viene utilizzata da satrapi di tessere e di consensi che, in piena e incontrollata autonomia, usano il simbolo nazionale in «franchising», piegandolo nelle forme e nei contenuti più convenienti al loro personale successo.
L’erosione elettorale delle fortezze della sinistra nelle cosiddette «regioni rosse» del centro Italia, ormai traballanti in Emilia, in Umbria e, in parte, nella Toscana, come dimostra il caso di Arezzo, è certamente significativa di questo mutamento nella «natura» di quel partito. Ma ancor più indicativo di questa trasformazione è, al contrario, il recente successo del Pd nel Sud d’Italia. Territorio dove la sinistra, in generale, non poteva vantare grandi risultati e dove, ora, fa addirittura il «pieno» di giunte regionali, evidentemente nella stessa logica elettorale per cui il meridione votava prima Dc e poi Berlusconi: la speranza che l’adeguamento politico al potere nazionale aiutasse la generosità del governo per le esigenze di assistenza e di finanziamento locale.
Renzi, così, subisce l’andamento classico del consenso a un partito d’opinione ed è costretto a subire i condizionamenti tipici di un partito d’opinione. Innanzi tutto, la volatilità di un suffragio che dipende dagli umori dei cittadini più che da quelli dei militanti. Un voto che va riconquistato ogni volta e che non è più conservato in cassetto sicuro dal quale attingere nei momenti difficili. Poi, l’indisciplina cronica e irriducibile dei dirigenti del Pd, proprio perché, in un partito del genere, appunto, non può esistere una «linea» alla quale tutti debbano uniformarsi. Anche perché la «linea» del Pd renziano è, anch’essa, piuttosto volatile.
Un partito con caratteristiche simili, però, non accetta neanche di diventare «un partito personale», la forma che, nell’era berlusconiana, si pensava fosse il modello del futuro pure per le altre formazioni politiche. Renzi è riuscito a «rottamare» la vecchia dirigenza ex Pci ed ex sinistra Dc, ma ha «rottamato» pure la struttura che, sull’intero territorio italiano, riconosceva l’autorità del leader nazionale. Magari, per obbligo e non per convinzione. Ecco la necessità, per lui, non solo di convincere, giorno per giorno, gli italiani della bontà delle sue politiche, ma anche di assicurare che, con lui, il partito vince sempre Perché è stato lui a legittimare la leadership del Pd solo dal timbro del successo elettorale.
Tempi duri si annunciano per il premier e segretario del «nuovo» partito della sinistra italiana. Ma sarebbe davvero paradossale che un personaggio come Renzi, in questi giorni amari, cedesse alla tentazione della nostalgia.

La Stampa 16.6.15
Dai renziani alla minoranza
Sconfitta trasversale nel Pd
Battuti i candidati di tutte le correnti. I bersaniani lanciano l’allarme sull’Italicum Pesano il caso migranti e Mafia Capitale. Sulla scuola si va verso la fiducia in Aula
di Carlo Bertini

Se c’è una novità in questo secondo turno delle Comunali è che i ballottaggi rispetto al passato non premiano il centrosinistra, ma la destra che si riunisce contro i candidati del partito di governo. Brucia la sconfitta di Venezia, per vent’anni roccaforte in terra leghista, perduta malgrado un candidato gradito ai grillini come Felice Casson. Che pur in testa al primo turno, viene battuto dall’imprenditore Luigi Brugnaro con il pieno dei voti di Fi e Lega. «Da ora si lavora per la città, io sono per dare una mano a Zaia come a Renzi», tende la mano il sindaco vincente che non aveva nascosto simpatie per il premier. Ma brucia nel complesso l’esito di questa tornata di ballottaggi, da cui il Pd ne esce perdendo Arezzo, Fermo, Matera e Nuoro pur essendo riuscito a tenere Lecco, strappando agli avversari Mantova e Trani. Un bilancio che consegna la fotografia in cui «il Pd è il primo partito anche nel numero dei sindaci, ma non è sufficiente a farci brindare», dice con un eufemismo il numero due del Pd, Guerini. In realtà dietro le quinte molti nel Pd ammettono che a pesare sono stati numerosi fattori, dall’immigrazione, su cui «Salvini è stato bravo cinicamente a tenere alta la polemica», a “mafiacapitale” che ha danneggiato l’immagine del partito, fino alle polemiche interne della sinistra sulla scuola. Un partito diviso fin dal caso Liguria e in grande difficoltà a Roma, dove non si sa quanto possa reggere la difesa a oltranza del sindaco Marino.
I risultati
Per il Pd dunque sconfitta sonora a Nuoro, dove il sindaco uscente Alessandro Bianchi è stato più che doppiato dallo sfidante Andrea Soddu (68,4%), a Matera, dove Salvatore Adduce soccombe a Raffaello De Ruggieri sostenuto da liste civiche di centrosinistra e centrodestra. Ma la sconfitta che fa più male al «giglio magico» renziano è quella in casa della Boschi, cioè ad Arezzo, dove il match fra il renziano Matteo Bracciali e Alessandro Ghinelli si chiude per un soffio (50,8%) in favore del candidato di centrodestra. Confermato il sindaco di centrosinistra a Macerata, sconfitti invece a Fermo e Chieti. Nota rosa in Lombardia, dove Mattia Palazzi strappa un 62,6% a Mantova e Virginio Brivio vince a Lecco. Ma nubi arrivano dal sud, dove in Sicilia le cose vanno male: a Enna Mimmo Crisafulli perde nel suo feudo, dopo le polemiche sulla sua candidatura, vince Maurizio Dipietro con i voti di centrodestra. Ma fanno rumore le vittorie dei grillini ai ballottaggi di Gela e Augusta, che si sommano alle vittorie del M5S a Venaria in Piemonte, a Quarto in Campania e a Porto Torres in Sardegna.
I contraccolpi
E se nessuno può brindare nel Pd, perché perde il candidato civatiano a Venezia, quello bersaniano a Matera, quello renziano ad Arezzo, di sicuro questo voto provoca un riflesso che si farà sentire. Dalle parti di Bersani risuona forte la critica all’Italicum, perché questo voto dimostra che le preoccupazioni sui suoi possibili effetti erano più che fondate. I più duri dicono che se si è perso a macchia di Leopardo qualche responsabilità sarà pure del leader che ha sottovalutato i temi del lavoro e della scuola, sbagliando a mettersi contro un pezzo dell’elettorato. Neanche a dirlo Renzi la pensa in modo opposto, il premier è intenzionato a battere più di un colpo: oggi verrà eletto alla Camera il nuovo capogruppo, Ettore Rosato, che incarna la linea decisionista del renzismo. L’uscita dal governo di Lapo Pistelli porterà poi alla nomina di Enzo Amendola, uno dei nomi di punta della minoranza lealista dei «responsabili», come sottosegretario degli Esteri, in un riassetto di governo che potrebbe segnare altre novità. E sulla scuola per stringere i tempi non esiterà a mettere la fiducia in aula sul testo che verrebbe approvato in commissione dopo un faticoso accordo che i suoi stanno provando a chiudere con la sinistra.

Corriere 16.6.15
Certezze perdute e illusioni
di Luciano Fontana

I ballottaggi nei Comuni e il risultato nelle sette Regioni che hanno votato quindici giorni fa consegnano un panorama politico nuovo. È accaduto qualcosa che era molto difficile prevedere nei mesi in cui si discuteva in Parlamento di nuova legge elettorale e riforme costituzionali. La sfida al Pd, al suo 40,8 per cento conquistato alle Europee, sembrava impossibile: per l’opposizione di centrodestra e per ogni altra.
Cosa ha fatto cambiare il vento così rapidamente? Perché il centrosinistra ha perso Regioni storiche come la Liguria, ha sofferto in Umbria, è stato sconfitto in Veneto, ha abdicato in città come Venezia, Arezzo ed Enna? Perché, soprattutto, la guida del Paese è tornata improvvisamente «contendibile» da parte di un’opposizione ancora molto frammentata e venata da pulsioni antieuropee e populiste?
Un primo elemento di riflessione riguarda direttamente il Pd, la sua strategia, il suo radicamento nel territorio. Matteo Renzi è un solista determinato, che in pochi mesi ha cambiato l’agenda politica, i programmi e il profilo del partito a livello nazionale. Ne ha fatto qualcosa di completamente diverso rispetto alla «ditta» di Pier Luigi Bersani sconfitta nelle elezioni del 2013. Ma i titolari della «ditta», piegati con qualche difficoltà al centro, dominano ancora a livello locale. Hanno imposto, quasi dappertutto, i loro candidati alle primarie (dove vincono spesso personaggi legati solo ai militanti o collezionisti di interessi e voti), hanno presentato le stesse politiche e gli stessi vecchi volti ripetutamente respinti dagli elettori.
L a vicenda di Casson a Venezia esemplifica perfettamente questa situazione: un candidato della sinistra interna, un ex magistrato a un passo dall’uscita dal Pd, vince le primarie, imposta la campagna elettorale sul tema del Mose e delle inchieste che hanno travolto l’ex sindaco Orsoni. Punta tutto sul passato, senza un messaggio rivolto all’intera città, scegliendo più di escludere che di includere i cittadini che non si riconoscono nella sua parte politica. Con il risultato di non riuscire nemmeno ad attrarre il voto dei grillini, teoricamente i più vicini alla sua impostazione. È bastato uno sfidante con un volto nuovo, capace di infondere entusiasmo nel destino della città, aperto addirittura alle parole d’ordine renziane, per infliggere ai democratici una sconfitta bruciante.
Le primarie (lo ha scritto Antonio Polito sul nostro giornale) selezionano spesso una classe dirigente ostile a un programma riformatore capace di superare gli antichi recinti della sinistra. Gli apparati locali sono dominati dai signori delle tessere, quando non da personaggi coinvolti in inchieste giudiziarie che dimostrano la permeabilità del partito alla corruzione. La conquista di ceti produttivi, liberali e moderati, essenziali per la ridefinizione del profilo del Pd, è ridiventata un’impresa molto difficile. Se Renzi vuole restare, come ha dichiarato, alla guida del Paese fino al 2018 dovrà rapidamente (accanto al varo di misure su questioni cruciali come l’immigrazione e il rilancio dell’economia) porsi la questione di costruire un partito e una classe dirigente all’altezza del compito.
Le difficoltà del Pd non devono però generare illusioni nell’opposizione. Forse la fase dell’irrilevanza è passata, ma la definizione di una proposta politica, di un’alleanza e di una guida competitiva non si vedono ancora all’orizzonte. Le parole d’ordine della Lega possono far crescere il bottino elettorale, facendo leva sulle paure giustificate degli italiani, ma difficilmente costituiscono una piattaforma alternativa di governo. L’affermazione di esponenti nuovi del centrodestra, che riescono a competere per il governo delle città e delle Regioni, è un primo segnale nel deserto degli ultimi anni. Ma sarà tutto inutile se, anche da queste parti, non si aprirà una vera lotta per una leadership fondata sul merito, sui programmi e sull’indicazione di una proposta di governo per il Paese.

Repubblica 16.6.15
Matteo senzaterra
di Ezio Mauro

MATTEO senzaterra. Questa la nuova immagine del presidente del Consiglio e soprattutto del segretario del Pd, man mano che i Democratici cedono terreno a Grillo e alla destra perdendo Nuoro, Fano, Arezzo, Gela, Augusta, Enna e soprattutto Venezia, capitale simbolica di questa sconfitta incubata nei municipi e nei territori, proprio dov’era nata la sfida renziana.
Avevamo avvertito che le regionali erano una vittoria numerica, ma una chiara sconfitta politica. Adesso la crisi del Pd, nonostante i successi a Mantova, Lecco, Segrate, Trani e Macerata, è anche numerica ed è davanti agli occhi di tutti: negarla è impossibile per cinque ragioni evidenti.
L’astensione che supera il 50 per cento anche in elezioni comunali conferma che l’incantamento è rotto e il renzismo si deve guadagnare il pane nella lotta di tutti i giorni, senza rendite di posizione: diventa uguale agli altri. L’inseguimento del partito della nazione ha lasciato sguarnito il fianco di sinistra, e la disaffezione si vede e soprattutto si conta. La rincorsa al centro arranca perché il cambiamento ristagna.
Il Pd è il luogo del conflitto e non delle idee, del risentimento e non del sentimento di una sinistra moderna.
SEGUE A PAGINA 37
LO SCANDALO ininterrotto di Roma e gli impresentabili ammucchiati attorno all’impresentabile De Luca in Campania entrano in contraddizione con la retorica della rottamazione e la annullano: soprattutto quando il vertice tace, e come dice il proverbio in qualche modo acconsente.
O Renzi fa il Capo del governo e libera l’autonomia del Pd, trasformandolo in quel soggetto politico che non è, oppure deve occuparsi del partito, dotandolo del fondamento culturale che ancora manca, e che è la base e la fonte sicura di ogni scelta politica consapevole: com’è possibile ad esempio che sui migranti non sia ancora nata una moderna cultura di sinistra, capace di coniugare la domanda di sicurezza con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, lasciando invece il campo libero al pensiero unico e feroce di Salvini? E non sarebbe questo il miglior terreno di protagonismo e di sfida per la sinistra interna, invece del ruolo meccanico e subalterno che si limita a dire no a ogni proposta del premier?
Il test amministrativo conferma che la destra è ormai una presenza fissa sulla scena italiana — così come l’antipolitica grillina — anche quando è allo stato gassoso, senza un recipiente e un’etichetta. Berlusconi non lascia un erede perché non lascia una cultura, ma ha evocato un mondo, che continuerà ad essere abitato a destra dopo di lui.
Ma a ben guardare, il test dice qualcosa di più. Paradossalmente gli sfidanti in crescita, M5S e destra, oggi non hanno leadership nazionale ma hanno un’identità politica e la radicalità di una proposta, due elementi che in politica creano un “campo” riconoscibile e riconosciuto. Il Pd ha leadership, e poco altro. In un Paese frastornato, non basta più.

Repubblica 16.6.15
Il tallone di Matteo a un anno dal 40% cade il mito dell’invincibilità
La scorsa estate il leader celebrava la storica vittoria alle Europee ora è alle prese con le prime sconfitte
di Filippo Ceccarelli

OH, insidia beffarda degli anniversari! Giusto un anno fa (14 giugno del 2014), quando all’hotel Ergife venne riunita l’Assemblea nazionale del Pd, qualcuno ebbe la scenografica ideona di piazzare al posto d’onore, stampata a caratteri televisivi sul fondale del palco, la cifra magica della recente vittoria europea: quel 40,8 per cento che per dodici mesi è poi risuonato in ogni possibile sede come il dogma dell’invincibilità di Matteo Renzi.
Il giovane leader volle quel giorno definirlo: «Una sconvolgente attestazione di speranza ». Sempre alle sue spalle si leggeva risolutamente: «Adesso tocca a noi» e, preceduto dall’immancabile cancelletto, «#Italiariparte».
Vero è che insieme a una memoria a scartamento piuttosto ridotto, gli italiani hanno una storica tendenza a esaltare i vincitori, talvolta fino alla divinizzazione. Ma nel giugno dello scorso anno, per il premier, tutto andava molto meglio di oggi - anzi troppo.
Qualche giorno prima, al Festival dell’Economia di Trento, Renzi si era abbandonato all’enfasi inscrivendo il risultato europeo nello statuto del Prodigioso: «C’è un allineamento di fattori astrali irripetibili». Messi anche così a tacere i gufi, in un costante tripudio di selfie e « gimmefive » raccoglieva ovunque lodi e ammirazione. Un giornò benedì la folla affacciandosi in maglietta bianca da una finestra di Palazzo Chigi; di lì a poco quei simpaticoni del Pd di Roma annunciarono la Festa dell’Unità con un manifesto che ammiccava studiatamente a Fonzie; e sempre in quel mese, per restare al trionfo dello stile Renzi, venne notato che a Pitti Uomo molte linee della kermesse fiorentina sembravano «ispirate al premier, prevalendo i suoi colori preferiti, il blu e i toni dell’azzurro, le giacche di lino, le camicie extra slim per fisici allenati, i pantaloni a sigaretta ma non troppo corti»... e vabbè.
Sembrava di cogliere un che di fanciullesco, ma insieme di già visto e torvo, in questo correre « in servitium », come scriveva il professor Zagrebelsky, del vincitore. Però era quasi indiscutibile che su di lui, più di ogni altro nella politica italiana, si fosse posata l’ala della vittoria: «Veni, vidi, Renzi - titolava Le Monde - Un sogno di Rinascimento italiano». Evvài.
Si potrebbe continuare a lungo, con malizia tanto più allegra quanto mesta risulta l’odierna atmosfera sia al Nazareno che a Palazzo Chigi (oltre che a Genova, a Venezia, in Sicilia, eccetera). Rimane appena da dire che nella realtà, o se si preferisce nella storia anche recente, nessuno è per sempre invincibile.
Non lo fu Craxi, battuto prima dal diabete e poi dalla scoppola referendaria («Io i miracoli non li faccio»); non lo fu Andreotti i cui portenti, teorizzava Baget Bozzo, «apprenderemo nella Valle di Giosafat»; e poi fu sconfitto Bossi e infine anche Berlusconi, che diceva: «Ogni volta che perdo, triplico le mie forze». Quanto all’invulnerabilità, con un salto al tempo stesso ragionevole e temerario, si può concludere che perfino Achille aveva il suo proverbialissimo tallone.
La mitologia, al riguardo, è tortuosa. Omero, Igino, Stazio, le Etiopiche , l’ Eneide , le Metamorfosi di Ovidio al libro XII... Quasi certamente c’entra il Fato, oppure un dio - Apollo? - che comunque deviano il corso della freccia avvelenata di Paride, e zàcchete , addio Achille!
Ora, più la politica si rivela inconcludente e più si alimenta di miti, di suggestioni e di chiacchiere. La mimetica indossata dal premier ad Erat non ha funzionato. Così, specie dopo il secondo turno, lo storytelling renziano sembra di colpo in debito di fantasia e creatività.
In questi casi i capi concedono di solito il minimo indispensabile: il vecchio e caro «errore di comunicazione», il «non siamo riusciti a trasmettere» e così via. Ma quando la dea Nike, la Vittoria, comincia a fare i capricci, beh, in un tempo di procurati incanti, visioni artificiali e leaderismi carismatici, il guaio è più serio di quanto i numeri e gli spin doctor si sforzino di dimostrare.
Ecco, c’è davvero qualcosa che non va più nel renzismo, quando si placa il sindaco Marino nominando un «coordinatore » invece che un «commissario » del Giubileo; così come l’aver «asfaltato» la minoranza democratica sull’Italicum lascia all’improvviso il tempo che trova di fronte alle ingenuità, alle incertezze e agli errori messi in vetrina per l’emergenza immigrazione - a parte il ruolo non proprio influente esercitato da Federica Mogherini in sede europea.
La Buona Scuola impantanata; quella della Pubblica amministrazione quasi dimenticata; le unioni civili ormai in ritardo; il fisco amico che amico non è; la Rai te la saluto... Ridotto a ornamento scenografico e a litania da talk- show, il 40,8 per cento è durato come un sospiro.

Il Sole 16.6.15
Un Pd lontano dal «centro» e la destra a caccia di Un Brugnaro nazionale
di Lina Palmerini

Il voto, oltre le sconfitte del Pd, dimostra che il centro-destra ha un problema nuovo e il centro-sinistra uno vecchio. Il partito di Renzi resta “vecchio” sulle proposte, come immigrazione o sicurezza, per vincere e conquistare i voti di centro. La destra ha un nuovo dilemma: vince a Venezia ma non ha un Brugnaro nazionale.
Queste elezioni amministrative hanno un po’ spazzato via tutta una serie di conclusioni a cui si era arrivati sul partito di Renzi. Primo: non è vero che non ha avversari. Li ha e si sono visti a Venezia o ad Arezzo così come in realtà minori dove hanno vinto i 5 Stelle. È quindi falsa la tesi per cui il campo dell’avversario è libero e a disposizione del leader Pd. Secondo: non è vero che il partito renziano ha cambiato il Dna del centro-sinistra e gioca anche nell’area moderata. Non è avvenuto. O come dice Arturo Parisi: «È un’operazione fattibile ma non è fatta». Terzo: è mancato il Renzi segretario di partito e sui territori le scelte non sono state coerenti con un’idea di cambiamento.
Tirando le somme, l’avversario c’è e si chiama centro-destra perché quando la coalizione si ricompatta e trova un leader è in grado di riprendersi quei voti che in altre tornate e per svariati motivi erano rimasti nel freezer. Non c’è invece quello sfondamento al centro del Pd renziano di cui si era avuta l’illusione con le europee dello scorso anno. Lo spostamento del baricentro non c’è stato per alcuni motivi. Innanzitutto perché la piattaforma del Pd resta “vecchia” su alcuni temi come immigrazione e sicurezza. Si è visto bene in questa campagna elettorale che il partito non è più in grado di fronteggiare né programmaticamente né concretamente un’emergenza. Non basta lo slogan dell’accoglienza, non basta appellarsi all’Europa. Serve una nuova proposta. E partendo da un nuovo presupposto: non è vero che chi vota a sinistra vuole accogliere senza limiti e a ogni costo. La sicurezza è una necessità trasversale in tutti gli elettorati.
Dunque il problema di Renzi è di essere rimasto a una fase pre-rottamazione su alcuni temi cruciali per vincere le elezioni. Questo voto amministrativo ha mostrato quelli dell’immigrazione e sicurezza ma il premier è rimasto indietro anche su altre questioni altrettanto fondamentali. Che si chiamano tasse e taglio di spesa pubblica. Perché se sul lavoro e sui sindacati il leader Pd si è spinto oltre le colonne d’Ercole della sinistra tradizionale, sul fisco e sulla spending review la musica è la stessa, anzi, è rimasto tutto fermo. Tutto come nelle ricette di sinistra con la paura di toccare quella spesa pubblica che è il nuovo totem della minoranza dopo l’articolo 18. E quindi ripetendo le parole di Parisi, «lo sfondamento al centro è stata un po’ una chiacchiera, il momento magico del 41% è passato e ora Renzi deve gestire una nuova fase facendo le riforme».
Ma, sporgendoci dalla parte degli avversari, si vede che cantano vittoria su Venezia ma tacciono il vero problema. Un problema che per loro è nuovissimo e si chiama leadership. Per 20 anni non si è mai posto visto che Silvio Berlusconi troneggiava come unica opzione. Ora non è più così, le amministrative dimostrano che i voti di centro-destra ci sono ancora ma che serve uno come il neo sindaco di Venezia, un Brugnaro nazionale, per scongelarli e rimotivarli. Una figura moderata in grado di aggregare una coalizione che, come si vede in Liguria o a Venezia, può battere il Pd di Renzi a un futuro ballottaggio secondo le regole dell’Italicum. Negli ambienti di centro-destra già si fanno due nomi: Luca Zaia e Alfio Marchini. Uno ha la controindicazione di non essere gradito al Sud, l’altro di non riuscire a parlare al Nord ma rispondono comunque a un profilo moderato. È, insomma, indicativo che non si parli di Salvini. Per la stessa ragione che salda il vecchio problema del Pd con il nuovo del centro-destra: non cattura i moderati.

Repubblica 16.6.15
“Un suicidio politico forse si sveglieranno”
Cacciari:si poteva vincere da soli, con un candidato nuovo,con una campagna elettorale che non si riducesse a una battaglia nel Pd
intervista di Alessandra Longo

ROMA. . «Un suicidio politico che viene da lontano. Forse questa sberla servirà a svegliarli». Massimo Cacciari è durissimo con chi ha consegnato Venezia alla destra. Tutto scritto, tutto previsto. Non è colpa di Renzi, «si poteva vincere da soli, con un candidato nuovo, con una campagna elettorale che non si riducesse ad una battaglia dentro il Pd contro alcune persone del Pd». Si poteva vincere e invece ecco lo tsunami: «Il gruppo dirigente del Pd veneto è azzerato. Dopo una botta così, non esiste più. Ma una ripartenza è possibile ».
Cacciari, lei sostiene che Casson era il candidato sbagliato.
«Il mio è un senno di prima, non di poi. Casson è un senatore della Repubblica, ha fatto una legittima battaglia dentro il Pd con le primarie ma non aveva il phisique. Glielo ho detto mille volte: lascia perdere, facciamo i padri nobili. E’ il momento di facce nuove, di gente che rappresenti il rinnovamento, estranea a tutte le puntate precedenti. Ma lui niente: ha deciso che il rinnovamento era lui, non avrai altro rinnovamento che me...».
Ed è arrivata la batosta.
«Intendiamoci: l’altra componente del suicidio è la situazione che si è venuta a creare con la vittoria di Zaia in Regione. Forse Casson ce l’avrebbe fatta se non ci fosse stata la disfatta regionale. Colpa anche della direzione generale del Pd. Non basta il Capo e la Corte dei fedelissimi ».
Forse è troppo fare il presidente del consiglio e il segretario del partito. Qualcosa finisce per sfuggirti di mano.
«Guardi, Renzi non ha nella zucca cosa possa essere il partito nuovo, quanto sia necessaria la collegialità come struttura portante dell’agire politico, non ha una visione del partito federale. Ma questo è un discorso in generale. A Venezia la certezza è una: potevamo farcela da soli, scegliendo anche noi un candidato giusto come ha fatto il centrodestra con Brugnaro che è stato vissuto come nuovo e trasversale. Ma il gruppo dirigente Pd non ha voluto mollare ».
Casson, magistrato, uno fuori dai giri, dopo lo scandalo Mose,poteva avere il suo appeal.
Mica è un titolo di merito essere fuori dai giri! Il 90 per cento del Pd era fuori dai giri del Mose. L’enorme scandalo ha mobilitato l’opinione pubblica di centrosinistra creando una pulsione fisiologica di rivolta: basta tutto, basta con questa merda. E anche qui è stato commesso un errore. Il Pd, invece di razionalizzare e governare quest’impulso emotivo, lo ha seguito. Il lutto non è stato metabolizzato. Sono andati avanti cavalcando le pulsioni».
Al ballottaggio sono mancati i voti dei Cinque Stelle...
«Ma chi è quello scemo che parla di “tradimento”? Mi dice per quale c. di motivo i grillini dovevano votare Casson al secondo turno? Finché Renzi non va a Canossa da Grillo e fanno un accordo nazionale non voteranno mai uno del Pd».
Brunetta sibila che anche lei ha le sue colpe nello sfascio del Pd perché ha governato 12 anni.
«Sono dei poveracci. Forza Italia a Venezia ha preso il 3 per cento. Brunetta sa che se mi fossi presentato per la terza volta avrei vinto io».
Non sarebbe stata una candidatura nuova.
«Infatti sarebbe stata una follia, una cosa del tutto insensata, la certificazione di una stasi totale».
A cose fatte, un commento sullo strumento delle primarie.
Ride. «L’attuale logica è perversa: non scegli il candidato che ha più appeal presso tutto il corpo elettorale ma il personaggio che riesce a farsi sponsorizzare da una parte minoritaria-Le primarie hanno bisogno di essere normate. Uno strumento indisciplinato diventa uno strumento mortale con il quale ci si suicida» Com’è Brugnaro?
«Un imprenditore abituato a comandare. Conosco almeno quattro o cinque persone di cui non farò i nomi che hanno votato Pellicani alle primarie del Pd e poi sono passate con lui. Spero farà una buona squadra. La macchina del Comune è dissestata ».
E adesso?
«Nonostante tutto nonostante la botta, si può ripartire. Ci sono persone che hanno salvato la faccia. Ci sono 4 o 5 consiglieri comunali che conoscono benissimo la città e possono fare un’opposizione seria. Non occorre nemmeno invocare le dimissioni del vecchio gruppo dirigente veneto. E’ azzerato, morto, non esiste più».

Repubblica 16.6.15
L’amaca
di Michele Serra

Capitasse mai che Renzi e il suo stato maggiore (primo tra tutti il reggiano Delrio) volessero fermarsi un attimo a riflettere, la riflessione potrebbe/ dovrebbe partire da un giorno preciso: il 23 novembre 2014. Elezioni regionali in Emilia Romagna: affluenza alle urne 37 per cento. Per dare un’idea dello sconquasso politico, storico, culturale, umano che quel dato fotografa, basti pensare che circa vent’anni prima, nel 1995, in quella regione aveva votato l’88 per cento degli aventi diritto, e Bersani era stato eletto presidente con il 53 per cento. Mettete a raffronto i due dati, 88 per cento contro 37 per cento, considerate che quella è la regione simbolo della sinistra italiana (la più innovativa, quella dei piani regolatori, degli asili nido, dei servizi sociali) e ditemi se il segretario del Pd fece bene o fece male a dichiarare “abbiamo vinto” e a liquidare come un trascurabile dettaglio l’epocale tracollo dei votanti in una terra nella quale la partecipazione alla vita politica era stata, per generazioni, appassionata e al tempo stesso capillare.
Che la politica si possa fare senza popolo è un’idea forse gradita da qualche lobby di tecnocrati. Ma Matteo Renzi, votato alle primarie da milioni di elettori di sinistra e di centrosinistra, se vuole fare il mestiere per il quale è stato scelto non può pensare una corbelleria del genere. Il populismo è una malattia della politica, non meno patologico è il suo contrario, che è l’autismo delle classi dirigenti.

Corriere 16.6.15
«Basta mediare. Io tornerò a fare Renzi»
Il bilancio del premier: c’è chi mi vorrebbe spianare, a Venezia la sinistra ha perso
di Maria Teresa Meli

ROMA «La sintesi è questa: abbiamo perso dove ci siamo fermati a mediare. Adesso Renzi deve tornare a fare Renzi». Pensare che il premier torni indietro dopo quello che lui stesso ha definito «un insuccesso» significherebbe non conoscere bene di che pasta è fatto il presidente del Consiglio.
«So — dice il premier — che c’è gente che vorrebbe spianarmi e vorrebbe approfittare di queste Amministrative per farlo, ma mi dispiace per loro, vinceremo anche questa battaglia».
Eppure la situazione è quanto mai delicata e Renzi lo sa bene. Basti pensare alla questione della scuola al Senato. È sufficiente che il governo vada sotto in Commissione per rendergli impossibile il giochetto di mettere la fiducia in Aula e sveltire la pratica. «Sarebbero dei pazzi irresponsabili — ripete il premier ai collaboratori — se la riforma viene rinviata ci saranno centomila persone che non verranno assunte a settembre per colpa della minoranza del Partito democratico, e grazie anche al sindacato, bella vittoria per loro».
Renzi non sembra scoraggiarsi. Anche se i suoi avversari dentro e fuori il Partito democratico sono pronti a scommettere che dopo le elezioni amministrative, con un doppio turno che ha penalizzato il centrosinistra, «sarà costretto a cambiare l’Italicum». Il bersaniano Gotor e il berlusconiano Minzolini sono i più accesi sostenitori di questa tesi. «Cambiarlo? Non ci penso nemmeno», ha spiegato lui a tutti i parlamentari che ieri glielo hanno chiesto.
Il presidente del Consiglio continua a ritenere che «Forza Italia non tirerà la corda», a «meno che non voglia finire sotto Salvini». Insomma, sembra essere sicuro che il primo a garantirgli in qualche modo i numeri al Senato sarà proprio Silvio Berlusconi, perché l’immagine dell’ex Cavaliere che si acconcia all’idea di fare il numero due del leader leghista non gli sembra proprio verosimile.
E, del resto, «anche la minoranza interna», è il ragionamento che va facendo il presidente del Consiglio con i fedelissimi a Palazzo Chigi, «deve stare molto cauta, perché a questo giro non possono sottovalutare il risultato di queste elezioni: loro hanno perso». Il riferimento è a Felice Casson, il candidato che già nel 2005 si era scontrato contro Cacciari per la poltrona di sindaco ed era stato sconfitto. Ma anche a Mirello Crisafulli, battuto ad Enna, a cui Renzi, alle Amministrative, ha negato il simbolo del partito.
Morale della favola, il premier è convinto, anche se non lo dice ad alta voce e lo sussurra solo nelle orecchie dei più fidati collaboratori che «non ci sono alternative» al suo governo. A meno che qualcuno «non preferisca andare a votare».
Il che, precisa Renzi, «sarebbe da irresponsabili», da «politici che pensano solo a loro stessi e non al bene del Paese che gradualmente si sta riprendendo».
Ma, è il ragionamento che fa l’inquilino di Palazzo Chigi con i suoi, «se quelli che vogliono spianarmi pensano che questa sia la strada, allora...».
Allora che? «Allora se andassimo alle elezioni anticipate oggi io vincerei a mani basse. Basta guardare i dati generali per capirlo e non fissarsi su questa o quella vittoria o sconfitta. Anzi dirò che ogni tanto mi prende quasi la voglia di sfidare gente come Matteo Salvini o Beppe Grillo alle urne, però poi mi trattengo perché so quale deve essere il mio ruolo, il fatto è che, a quanto pare, gli altri leader politici non sanno quale debba essere il loro e pensano che si debba stare in campagna elettorale permanente, accada quel che accada, tanto del Paese chi se ne frega».
Il premier, con i fedelissimi a Palazzo Chigi, passa in rassegna tutte le possibilità: «Che possono fare? — ironizza —. Abbattermi e mettere su un governo Salvini-Bersani-Brunetta e Grillo? Forse nemmeno in quel caso avrebbero i numeri. E, comunque, nel Partito democratico la maggioranza assoluta l’ho io. In direzione e nei gruppi parlamentari».
Come a dire: la minoranza pd può abbaiare, persino mordere, ma non è in grado di costruire nessuna alternativa e non tornerà mai più a tenere in mano le chiavi della «ditta».

Corriere 16.5.15
Un risultato che esaspera i problemi del governo
di Massimo Franco

I lividi elettorali si sommano ad un’emergenza dell’immigrazione che si sta drammatizzando. E pongono al governo e al Pd un problema che non è solo di gestione di una crisi scaricata cinicamente dall’Europa sull’Italia, Francia in testa. Per quanto le elezioni locali non possano essere paragonate al voto politico nazionale, qualche dubbio sugli effetti della riforma dell’Italicum comincia a spuntare. L’idea di un Matteo Renzi che vince da solo deve fare i conti con percentuali più prosaiche dopo il trionfo alle europee del 2014; e con avversari che sanno stringere alleanze.
Tra il 31 maggio, data delle regionali, ed i ballottaggi di ieri, non è solo scomparsa la prospettiva di un «partito della Nazione» a guida renziana. Si è anche dissolta la strategia di una conquista dei consensi moderati, in olimpica solitudine. A guardare bene, il modello dell’ Italicum , col premio alla lista e non alla coalizione, assecondava questa ambizione. Prefigurava un Pd così forte da non avere bisogno di alleati ma di satelliti; e un Parlamento nel quale una Camera legata a filo doppio con palazzo Chigi rendeva il Senato un residuo irrilevante del bicameralismo.
Il quadro, di colpo, sta cambiando. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, rivendica «il ruolo di garanzia» di palazzo Madama come «essenziale»: una presa di posizione che forse qualche mese fa non sarebbe stata così netta. E nel Pd si chiede un’analisi «vera» della sconfitta. D’altronde, l’onda lunga del governo si è infranta contro un esito nel quale i fattori locali non possono spiegare per intero il risultato deludente per il Pd. C’è «disaffezione degli elettori», osserva l’economista Fabrizio Barca alludendo all’astensione. E palazzo Chigi si ritrova impantanato nello scandalo di Mafia Capitale e nella gestione dell’accoglienza agli immigrati.
Sono due temi per i quali non si può certo puntare il dito contro Renzi, perché non li ha provocati lui. Ma vengono fatti ricadere inevitabilmente sul suo esecutivo: tanto più nel momento in cui il premier cerca di arginare i contraccolpi e condividere le responsabilità con altri.Forza Italia, che cala verticalmente ma si sente ancora in gioco, comincia a ipotizzare che il governo «non resisterà a lungo». «Il vento è cambiato», dice Silvio Berlusconi. «La poltrona di Renzi traballa», annuisce il capo leghista Matteo Salvini. In realtà, il problema di una crisi non è alle viste: ad essere palpabile è il logoramento del governo, figlio di uno schema andato in frantumi.
Le ironie avversarie sul «piano B» di Renzi sugli immigrati sono feroci.Vengono favorite sia dal cinico «no» francese ad aprire le frontiere ai migranti a Ventimiglia; sia dalla risposta dell’Ue, che si dice all’oscuro dei progetti italiani. Il presidente del Consiglio avverte che «i toni muscolari» usati da Parigi «non giovano»; e che se l’Ue latita, l’Italia farà da sola. Ma non ci sono soluzioni rapide, né facili. E Salvini incalza: «Renzi scopre che cosa è l’Europa. Straordinario. È un anno che lo diciamo prendendoci solo insulti». Non solo insulti ma anche voti, in realtà, perché, osserva il premier, fare campagna elettorale così porta facili consensi. Il problema è come usarli senza acuire una tensione sociale che andrebbe governata e non fomentata.

Corriere 16.6.15
Ora la sinistra riapre il fronte Italicum Le primarie in discussione
La minoranza si interroga sul doppio incarico del leader
di Monica Guerzoni

ROMA L’epicentro della scossa è Venezia. Ma il terremoto che investe il Pd attraversa l’Italia intera fino alla Sicilia, colpisce duro in Toscana e scatena la «grande paura». Al Nazareno minimizzano, ma la minoranza avverte che un partito diviso e litigioso lascia a casa i suoi stessi elettori e che l’Italicum, fortissimamente voluto da Renzi, potrebbe rivelarsi un boomerang per il Pd.
La sberla di Venezia brucia, al punto che il bersaniano Davide Zoggia parla di «sconfitta epocale» e vede profilarsi una «questione meridionale grande come una casa». La débacle di Arezzo interroga i fedelissimi di Renzi e il «cappotto» siciliano dei cinquestelle genera altra inquietudine. «Serve una riflessione seria», è l’invocazione di Rosy Bindi.
In questo quadro di confusione e sbandamento, le tensioni si riaccendono, rischiando tra l’altro di inasprire lo scontro con l’ala sinistra sulla scuola. Sulla linea Nazareno-Palazzo Chigi si studiano le contromosse. C’è da mettere a punto le scelte del governo sul fronte dell’immigrazione e del fisco e c’è da riformare il partito.
Debora Serracchiani fa autocritica: «A causa della difficoltà di controllare alcuni territori e di scelte che gli elettori non hanno compreso abbiamo subìto sconfitte anche pesanti, che ci spingono a reagire». La vice di Renzi ammette che a Roma il partito ha «molte responsabilità» e conferma l’urgenza di riformare le primarie: «Dobbiamo dire dei no. Non possono essere una resa dei conti, né lo strumento a cui ci si affida quando non si è in grado di fare una scelta».
Umori che suggeriscono alla minoranza la tentazione di buttare nel campo di Renzi la mina del doppio incarico: può il capo del governo essere al tempo stesso segretario, senza trascurare il Pd? Zoggia ricorda il mantra di Bersani: «Se fosse andato a Palazzo Chigi, avrebbe immediatamente lasciato la guida del Nazareno. Il partito ha bisogno di una attenzione fortissima, il che non vuol dire indebolire il premier, ma ricostruire una forte presenza sul partito». La minoranza si prepara a chiedere al leader di rinunciare alla guida del Pd? «Data la situazione — risponde Zoggia — la commissione Statuto dovrebbe aprire una riflessione». Su Venezia è il momento delle accuse incrociate e delle recriminazioni. I renziani rimproverano a Casson di aver provato a trasformarsi in un candidato civico, rifiutando il supporto dei «big» del partito. «Il suicidio perfetto», secondo Massimo Cacciari. E se Guerini non brinda, anche la minoranza non stappa bottiglie e però sprona Renzi a cambiare. «Abbiamo fatto campagna pancia a terra e certo non festeggiamo» assicura Roberto Speranza, che al segretario chiede un bagno di umiltà: «Renzi dovrebbe capire la differenza tra essere preoccupati ed essere “gufi”. Non facciamo gli struzzi». Metafore ornitologiche per dire che la sinistra è stufa di prendere bastonate: «Perché attaccarci continuamente invece di dialogare? È sconcertante affermare che dove si perde è colpa nostra. Quando c’è un pezzo di Pd che pensa di uscire dal partito bisogna interrogarsi...».
Il tema della scissione riaffiora e Stefano Fassina legge Venezia come la certificazione «che una parte del popolo Pd ha rotto con il partito». Si litiga sulla scuola, perché la minoranza vuole cambiamenti sostanziosi al Senato.
«L’exit strategy» di Corradino Mineo è sganciare le assunzioni dal resto della riforma: «Ero convinto che Renzi andasse a sbattere, ma non così presto... L’avevo detto a Matteo che il partito della nazione si sarebbe squagliato ai ballottaggi». E si rischia qualche fibrillazione anche nella Giunta del Senato, che dovrà decidere sull’arresto di Antonio Azzollini (Ncd).
La sinistra spera che l’esito infelice delle Comunali convinca il premier a ripensare la legge elettorale. Per il bersaniano Federico Fornaro, il Pd ha mostrato «l’incapacità di attrarre nuovi consensi al ballottaggio», un limite che con l’Italicum rischierebbe «di produrre effetti devastanti per il Pd».
Qualche maldipancia potrebbe affiorare anche oggi, quando Renzi proporrà al gruppo della Camera il nome di Ettore Rosato come presidente: grazie alle sue qualità di mediatore, il vicecapogruppo vicario dovrebbe farcela. E ancora: Enzo Amendola, l’ex dalemiano responsabile Esteri del Pd, andrà alla Farnesina al posto del viceministro Lapo Pistelli, il quale ha lasciato il governo (tra le polemiche) per andare all’Eni, con un ruolo da top manager. Il suo scranno a Montecitorio passerà a un transfuga del Pd, Andrea Maestri.

Repubblica 16.6.15
“Stiamo perdendo radici a sinistra Italicum rischioso”
Cuperlo: “È ingeneroso prendersela con i candidati per il popolo non ci sono renziani o eretici ma il Pd”
intervista di Giovanna Casadio

ROMA. .«Solo i titoli nell’inchiesta su Mafia Capitale farebbero smarrire la fede a un santo...Però le urne dicono che il Pd sta perdendo una parte delle sue radici sociali». Gianni Cuperlo, leader di Sinistra dem, non “gufa” sulle sconfitte dei ballottaggi, ma a Renzi chiede di cambiare rotta e in fretta.
Cuperlo, il risultato dei ballottaggi è un segnale d’allarme per il Pd di Renzi?
«Qua l’allarme è suonato per tutti. Governare 10 regioni contro 2 conta, e molto. Ma la realtà dice anche che abbiamo perso due milioni di voti rispetto a un anno fa. E dai ballottaggi è venuta la conferma che un pezzo della sinistra ha scioperato. Chiedersi il perché mi pare il minimo, non per una resa dei conti ma per cambiare rotta».
Venezia è la sconfitta che brucia di più. Però il candidato che ha perso, Casson, è della sinistra, connotato come anti renziano. Forse anche la minoranza del Pd deve fare autocritica?
«Scaricare la sconfitta su Casson può consolare qualcuno ma credo sia ingeneroso. Come era poco credibile sommare il giorno dopo i voti di Pastorino a quelli della Paita».
E la sconfitta ad Arezzo, città della ministra Boschi, è un altolà al renzismo?
«Vale il discorso su Venezia. E’ arrivata una sferzata che dovrebbe far riflette tutti e trovo misero scomunicare questo o quel candidato sulla base della sua appartenenza. Davanti al popolo sovrano non ci sono renziani o eretici. C’è il Pd. Io dico, usciamo da una bolla dove in cielo c’è solo l’arcobaleno perché le urne dicono un’altra cosa. Che stiamo perdendo una parte del nostro radicamento sociale.
“Gufare” contro il governo ha danneggiato il partito?
«Non perdi così tanti voti per le polemiche interne. Hanno pesato piuttosto alcune scelte, come sulla scuola o sul mercato del lavoro. Non mi interessa la polemica del post. Siamo la sinistra dentro il Pd e la sfida del cambiamento è la nostra. Ma voglio discutere su come vincere le prossime elezioni che decideranno il destino del Paese».
Il malaffare, gli scandali del Mose, Mafia capitale, la difficoltà a governare l’emergenza immigrazione hanno deluso e allontanato gli elettori?
«Solo i titoli dell’inchiesta romana farebbero smarrire la fede a un santo. Sull’immigrazione il premier ha la mia solidarietà e sostegno quando si fa carico dell’emergenza umanitaria e quando alza la voce con Bruxelles spiegando che in discussione sono la civiltà, la coscienza e la dignità dell’Europa».
A questo punto l’Italicum non rischia di essere un boomerang per il Pd?
«Quella legge non l’ho condivisa e la cambierei. Ci si può illudere che i moderati non sceglieranno mai Salvini. Io preferisco impegnarmi in un nuovo centrosinistra che allarghi il campo, recuperi i delusi e dia un’anima a uguaglianza e dignità. Al Pd serve uno spirito di coalizione con pezzi di società, movimenti e un mondo cattolico che la destra provoca nei valori».
C’è un problema di debolezza e appiattimento del partito sul governo?
Il Pd va ricostruito, non solo a Roma. Un po’ di autonomia in più aiuta anche il governo. Serve correggere una politica perché non siamo autosufficienti e fuori dal Pd non ci sono solo colonie di gufi anziani. Come SinistraDem a luglio racconteremo cosa dev’essere una sinistra ripensata. Non nei valori che sono ben scolpiti, ma nelle priorità, e anche nel linguaggio perché sulla comunicazione da Renzi abbiamo imparato qualcosa. Lo faremo chiedendo a chi sta fuori di scommettere con il Pd su una sinistra che vince contro le vecchie ricette, sapendo che mai come ora non è tempo di steccati ma di ponti».

Repubblica 16.6.15
La ricchezza giusta per la sinistra
di Mariana Mazzuccato

UNA TEORIA sulle ragioni della sconfitta del Partito laburista alle elezioni britanniche comincia a prendere piede. Ma è una teoria sbagliata. Per quelli che basano le loro previsioni sui sondaggi, il risultato è stato una sorpresa. Meno per quelli che hanno seguito il Labour negli ultimi anni. Per molti aspetti il partito laburista proponeva una versione light del Partito conservatore: «Anche noi vogliamo ridurre il disavanzo, ma meno».
ANCHE noi pensiamo che l’immigrazione sia un problema e vogliamo far entrare meno immigrati, ma più dei Tories». In altre parole, i laburisti non hanno fatto nessuno sforzo serio per elaborare una visione che spiegasse perché lasciar crescere il disavanzo ora può essere la chiave per la crescita futura: si guardi agli Stati Uniti, che nel 2009 hanno avuto un disavanzo del 10 per cento e oggi crescono più di qualsiasi Paese europeo che ha tenuto i conti pubblici in attivo. E nessun tentativo serio di spiegare perché l’immigrazione è uno dei maggiori punti di forza dell’economia britannica: attira capitale umano e rende meno insulare e provinciale la nostra mentalità.
Ma forse la parte più tragica della storia è quello che è successo dopo le elezioni. Il Labour si sta giustamente interrogando ma le risposte che sta trovando sono a loro volta versioni light della visione conservatrice. Sentiamo dire da Tony Blair, da Chuka Umunna (ministro ombra dell’Industria, spesso chiamato l’Obama inglese, che si è ritirato dalla corsa per prendere il posto di Miliband) e da Liz Kendall (che a quella corsa partecipa ed è una delle favorite) che il Labour ha perso perché non ha abbracciato il mondo delle imprese: cioè non è stato, come si usa dire, abbastanza business friendly . E questo mondo come lo hanno chiamato? Il mondo dei «creatori di ricchezza».
Le imprese “creatrici di ricchezza”? Quali imprese? Va detto che nel 2011 Miliband cercò di distinguere fra le imprese che creano effettivamente valore per l’economia e quelle che si limitano solo a estrarre valore: il capitalismo produttivo contro il capitalismo predatorio, secondo la sua definizione. Ma Miliband fu immediatamente messo a tacere dal suo stesso partito: le sue affermazioni suonavano «anti-impresa». È un peccato, perché se avesse continuato su quella strada forse oggi il Labour non si troverebbe in questa situazione. Il
Guardian/Observer nel 2014 mi ha etichettata come una dei guru del Partito laburista — ma posso immodestamente dire che se davvero fossi stata un punto di riferimento il Labour non avrebbe fatto questo errore. Nei miei libri faccio molta attenzione a non parlare di “imprese” — settore privato o settore pubblico — ma di un particolare tipo di settore privato di cui abbiamo bisogno, di un particolare tipo di settore pubblico, e di un particolare tipo di rapporto, in termini di “ecosistema”, fra di essi. Limitarsi a parlare delle imprese come creatrici di ricchezza non c’entra nulla con il punto in questione: anzi, lo contraddice.
Perché è importante questa distinzione? Perché il capitalismo produttivo è un capitalismo in cui le imprese, lo Stato e i lavoratori operano insieme per creare ricchezza. Sono cioè tutti potenziali creatori di ricchezza. Gli emblemi di ricchezza nella moderna economia della conoscenza, dall’iPhone alla Tesla S, hanno tutti fatto leva su un settore pubblico strategico, disposto a farsi carico dei rischi e delle incertezze maggiori lavorando fianco a fianco con un settore privato disposto a reinvestire i suoi profitti nelle aree «a valle», come ricerca e sviluppo o la formazione del capitale umano. Oggi sono a rischio entrambi. Da una parte un settore pubblico timoroso, che cede agli appelli a introdurre ancora più austerity, che discute delle dimensioni del disavanzo invece che della composizione del disavanzo, che parla solo di limiti allo spending e non di investimento strategico. E dall’altra un settore privato ultra-finanziarizzato, che spende più per riacquistare le proprie azioni che in ricerca e sviluppo e formazione del capitale umano.
I lavoratori, naturalmente, sono anche loro creatori di ricchezza, non solo per il contributo che offrono, con il loro capitale umano, alla produzione di nuovi prodotti e servizi, ma anche perché, nel capitalismo moderno, si assumono a loro volta dei rischi, avendo scarse garanzie di un lavoro permanente e potendo trovarsi a fare molti sacrifici.
La ricchezza è insomma frutto di un lavoro collettivo, decentralizzato, con diversi attori pubblici, privati, individui e organizzazioni. È l’assenza di questo punto di vista ad aver creato una relazione disfunzionale tra imprese e Stato. Le imprese, presentandosi come le (sole) creatrici di ricchezza, hanno convinto sia i tories che i laburisti a introdurre misure come la patent box (le agevolazioni fiscali sui guadagni legati ai brevetti, che si stanno diffondendo in quasi tutti i Paesi europei incluso l’Italia) che non accrescono in alcun modo l’innovazione (i brevetti sono già un monopolio garantito per 20 anni) ma servono solo a far diminuire il tax revenue pubblico ed aumentare la disuguaglianza. Ed è stato proprio il Labour a ridurre da dieci a due anni la durata degli investimenti di private equity necessaria per ottenere una cospicua riduzione delle tasse. È possibile immaginare politiche più filo-impresa di queste?
Simili politiche disfunzionali sono spesso state motivate dal desiderio di rendere l’economia più innovativa e competitiva. Ma in pratica sia il Labour che i Tories si sono limitati ai soliti discorsi sul dare più risorse alle piccole imprese cosa che ha poco senso quando la maggior parte delle piccole imprese sono poco innovative, poco produttive e creano anche poco lavoro. Le poche piccole imprese di valore hanno bisogno di un enorme appoggio pubblico, come quello che ricevono negli Usa, ed anche di una relazione più simbiotica con le grandi imprese. La cosa migliore che qualsiasi governo potrebbe fare per le piccole imprese è insistere perché le grandi imprese comincino a investire di più, rendendo maggiormente dinamico e mutualistico il rapporto con le imprese più piccole loro fornitrici. Ma questo vuole dire appunto mettere pressione sane sulle imprese: non essere solo timidamente friendly.
Fino a quando il Partito laburista — e qualsiasi partito progressista — non imparerà a discutere in modo serio di questi argomenti continuerà a perdere. Oggi un nuovo leader laburista ha l’opportunità concreta per elaborare una visione più ambiziosa di come si fa a creare ricchezza — invece di proporre una versione più contrita della visione conservatrice. E questa visione più coraggiosa — della ricchezza di una nazione creata da tutti, e non solo dalle imprese — può servire anche a costruire fondamenta più solide per lo Stato sociale (che storicamente ha aumentato le opportunità per tutti), finanziato non più solo dal contribuente volenteroso, ma anche attraverso i profitti condivisi delle fatiche di tutti i creatori di ricchezza.
Traduzione di Fabio Galimberti

La Stampa 16.6.15
Quell’alleanza impossibile tra i democratici e i Cinque Stelle
di Marcello Sorgi

Le sconfitte a Venezia e in Veneto - le sole che Renzi abbia riconosciuto subito, chiamandole con il proprio nome -, e quelle ad Arezzo o Enna o Gela, dicono molte cose al centrosinistra, e non solo.
Renzi perde quasi ovunque - e qualche volta vince - con candidati non suoi: una battuta d’arresto nella cavalcata allegra e arrembante che lo aveva portato alla guida del Pd e del governo.
La resa generale, in via di principio, a primarie usurate, il compromesso a ogni costo con i ras locali forse non erano inevitabili. Ma per evitarli, ci voleva un partito, in cui discutere e fare le scelte migliori da proporre ai propri elettori; e per far funzionare un partito ci voleva chi se ne occupasse, Renzi stesso o qualcuno un po’ più forte di quelli che ci hanno provato e non ci sono riusciti.
Quanto alla minoranza Pd, perde, o fa perdere, con personaggi notabilari, diversi tra loro, certo (perché Casson battuto a Venezia non c’entra nulla con Crisafulli a Enna), ma incapaci di reggere il confronto con il ritorno di fiamma del centrodestra, sbadatamente dato per morto.
Invece la destra vince, dove vince, con i voti prevalentemente leghisti anti-euro e anti-immigrati di Salvini, e con candidati nuovi e normali che ricordano il personale politico della prima storica vittoria berlusconiana del ’94: come il Brugnaro di Mirano, imprenditore tipico prodotto del Nord-Est, uno che appena eletto ha detto e ripetuto che gli piace Renzi, e forse, viene da chiedersi, avrebbe potuto essere anche suo candidato, o almeno confrontarsi con un avversario più simile a lui, non con una vecchia gloria del «partito dei magistrati» che ha tentato inutilmente e fallito l’aggancio con il Movimento 5 stelle, come ha fatto anche Crocetta in Sicilia, giocandosi Gela che era stato il suo trampolino di lancio.
Almeno questo, gli strateghi dell’alleanza con i grillini dovrebbero averlo capito: l’intesa con M5s è impossibile, anche se non esclude, di tanto in tanto, incontri occasionali come quello sul Csm o sugli ecoreati, perché mai come in questo momento Grillo e i suoi, grazie al ballottaggio introdotto dall’Italicum anche per il governo del Paese, si sentono vicini alla grande partita per Palazzo Chigi.
Che arriverà, prima o poi, perfino più presto di quel che si pensi: Renzi, infatti, piuttosto che continuare a farsi rosolare, ha un’unica leva da muovere: le elezioni anticipate che la nuova legge elettorale ha messo nelle sue mani.

il Fatto 16.6.15
Affluenza ferma al 47%

È andato a votare meno di un italiano su due. A fine maggio fu del 52,2% colpo più duro: l’ex senatore Vladimiro Crisafulli, che a ogni elezione si vantava di vincere “anche col sorteggio”, perde, a Enna. Si conferma inoltre la tendenza negativa per quanto riguarda l’affluenza. Al netto della Sicilia, dove si è attestata al 49,9%, il dato generale parla di un poco incoraggiante 47,1%. La città dove ha pesato di più (per quanto riguarda il Pd) la disaffezione alle urne è stata proprio Venezia: nella roccaforte del centrosinistra (che dopo vent’anni passa al centrodestra) l’affluenza si è fermata al 49%, rispetto al 59,8 del primo turno. Per quanto riguarda la Lega, dicevamo, si conferma il successo in Veneto, come già visto nelle regionali di due settimane fa, stravinte dal governatore Luca Zaia: a Rovigo, il candidato del Carroccio prende il 60 per cento dei voti. Vince il partito di Matteo Salvini anche in altri importanti comuni veneti come Castelfranco Veneto (Treviso), Lonigo (Vicenza), e Portogruaro (Venezia).

Repubblica 16.6.15
“Solo un Piano Marshall per l’immigrazione potrà salvare l’Europa”
Marc Augé. “Le nostre paure derivano dalle troppe lacerazioni del Vecchio continente. E se la politica non sarà in grado di affrontare l’emergenza, bisognerà rivolgersi all’Onu”
intervista di Fabio Gambaro

PARIGI «L’EMERGENZA immigrazione rivela tutte le nostre debolezze e paure». Per l’antropologo Marc Augé, quello che accade in questi giorni tra il Mediterraneo e l’Europa è il sintomo di una società in difficoltà, senza più progetti e convinzioni forti. «Le tensioni provocate dall’arrivo dei migranti rivelano soprattutto il malessere acuto dei nostri paesi», spiega lo studioso francese autore di diversi saggi, tra cui Le nuove paure (Bollati Boringhieri) e
L’antropologo e il mondo globale
(Raffaello Cortina). «Di conseguenza, la politica interna interferisce con un problema d’ordine planetario che bisognerebbe affrontare globalmente con la cooperazione di tutti. Naturalmente sarebbe meglio risolvere la questione alla fonte, nei paesi da cui partono i migranti, solo che non ne siamo capaci. Anche perché per troppo tempo abbiamo lasciato deteriorare una situazione le cui conseguenze esplodono oggi, producendo problemi che non possono essere affrontati con misure improvvisate ».
Cosa bisognerebbe fare?
«Ci vorrebbe una politica europea forte e coraggiosa, ma l’assenza e l’immobilità dell’Europa è evidente. Da qualche tempo, le divisioni e le paure lacerano il continente, tanto che alcuni vorrebbero perfino reintrodurre le frontiere interne. Invece, se si rinunciasse alle reazioni emotive, si potrebbe cercare di valutare i problemi razionalmente e ipotizzare innanzitutto alcune soluzioni immediate d’ordine umanitario per garantire l’accoglienza e la protezione dei migranti. Queste soluzioni a breve avrebbero però senso solo se contemporaneamente si cercassero anche soluzioni di lungo periodo. Ad esempio immaginando una grande iniziativa collettiva, una sorta di piano Marshall dell’immigrazione. A un problema d’ordine planetario occorre rispondere con una politica globale di cui i paesi più ricchi d’Europa dovrebbero farsi promotori».
Per far questo ci vorrebbe un’Europa più sicura di sé...
«Invece l’Europa si scopre debole, divisa e incerta di fronte a un problema che in termini numerici non è certo insormontabile, se solo ci fosse la volontà politica. Ma un’Europa senza solidarietà è un’Europa che non ha più senso. Certo, tutto ciò ha un costo, che deve essere stimato. L’Europa unita è ancora essere sufficientemente forte per provarci. Se però non è in grado, allora accetti la propria sconfitta e lasci intervenire l’Onu».
Oggi compassione e solidarietà sono spesso considerate un sintomo di ingenuità e debolezza...
«Sì, ed è disdicevole. Per paesi che si richiamano ai diritti dell’uomo, la solidarietà dovrebbe essere normale, senza dimenticare che è anche vantaggiosa, visto che una parte non indifferente del nostro Pil è prodotto dagli immigrati».
Perché i migranti suscitano ancora tanta paura nell’opinione pubblica?
«Prima di tutto perché sono l’esempio vivente dello sradicamento. Hanno lasciato il loro luogo d’origine e ciò, per noi che viviamo nel culto delle radici, è una sorta di sacrilegio. Come tutti i nomadi, ci costringono a rimettere in discussione l’idea che un uomo sia legato per sempre alle proprie radici, ricordandoci che un giorno anche noi potremmo trovarci sradicati. Questa paura dello sradicamento è particolarmente sentita nel mondo globalizzato di oggi. Da qui le reazione identitarie di coloro che s’identificano ossessivamente a un luogo, tanto da volerlo preservare a tutti i costi dall’arrivo degli altri».
I migranti sono l’immagine di una vulnerabilità che un giorno potrebbe essere la nostra?
«Certamente. E la presenza pubblica della loro miseria ci terrorizza, perché la crisi la rende una possibilità concreta anche per noi. Nella loro immagine si rispecchiano le nostre paure, rivelando tutto il paradosso di una mondializzazione che lascia circolare le merci, il denaro e le informazione, ma non le persone».
Cosa pensa delle eventuali missioni militari contro i trafficanti?
«Le reti di trafficanti devono essere combattute vigorosamente, ma la risposta non può essere solo militare. Occorre creare condizioni per viaggi più sicuri, mettendo a disposizione delle navi e magari organizzando dall’altra parte del Mediterraneo l’accoglienza dei migranti e la raccolta delle domande d’asilo politico. Occorre trovare soluzioni nuove all’altezza della fase di transizione in cui ci troviamo, tra la fine del vecchio mondo e la nascita di un mondo nuovo, quello dell’umanità planetaria. Di fronte a questa vasta e dolorosa transizione, gli individui si sentono soli, senza strumenti e senza protezione. Cercano quindi un capro espiatorio cui attribuire le colpe di tali situazione, aiutati da demagoghi, populisti e xenofobi di ogni tipo che provano a sfruttano le loro paure. Di fronte a questa situazione, i politici dovrebbe assumersi le loro responsabilità, invece di correre dietro l’opinione pubblica».

Il Sole 16.6.15
L’inaccettabile schiaffo francese
di Paolo Pombeni

La situazione è estremamente pesante e l’Unione europea rischia di finire in un vicolo cieco. La presa di posizione francese espressa dal ministro dell’Interno Cazeneuve suona come inutilmente arrogante.
Il fariseismo di chi dice che bisogna rispettare le regole europee, cioè quel che si era definito anni fa in una situazione totalmente differente, anche a palese discapito dello spirito che ha creato l’Unione dimostra una mancanza di cultura politica impressionante.
Se questi politici avessero un po' di retroterra culturale si potrebbe ricordargli che la sapienza del Vangelo ricorda che «il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato», cioè le leggi servono per governare dei fenomeni non per farli esplodere ricorrendo ad interpretazioni letterali che fanno a pugni con la realtà.
Mai come in questi giorni è apparsa agli occhi della gente la crisi della Ue, che non riesce ad imporsi come una risorsa per fare fronte a fenomeni che non sono gestibili a livello dei singoli stati. La chiusura delle frontiere dell’Italia con la Francia, l’Austria e la Svizzera (quest’ultima stato extra-comunitario) suona come un “arrangiatevi” nei confronti di un esodo che l’Italia è costretta a sopportare non per sua colpa, ma per la sua posizione geografica.
Ci viene spiegato che i governi rispondono ancora al cosiddetto “sacro egoismo” di presunti interessi nazionali. In questo caso è l’interesse di classi politiche che temono di perdere il consenso elettorale a favore di un montante populismo generato dalla paura diffusa che in tempi di difficoltà economica si debbano destinare risorse a fronteggiare un’ondata inedita di pressione migratoria.
A chi giova un’Europa in cui ci si appresta ad aprire il vaso di Pandora degli egoismi nazionali? E soprattutto: chi è così sciocco da illudersi che con queste strategie si possano raggiungere dei risultati?
Intanto l'Italia è sola alle prese con un problema enorme che non ha oggettivamente possibilità di governare. Innanzitutto perché secondo la prospettiva miope dei vari Cazeneuve dovrebbe trattenere sul proprio territorio persone che non ci vogliono stare. Di conseguenza trattenere queste persone in Italia significa dover mettere in piedi un grande apparato repressivo a cui essi cercheranno di sottrarsi moltiplicando clandestinità, instabilità ed inevitabile degrado di qualità della loro vita.
È per queste ragioni che il governo italiano ha tutti i diritti di pretendere che quella Unione Europea che il nostro paese ha contribuito in maniera determinante a fondare ed a cui destina una quota significativa di risorse (significativa soprattutto di questi tempi) non faccia il classico struzzo che mette la testa sotto la sabbia. Naturalmente non si tratta di battere i pugni sul tavolo con sceneggiate che lascerebbero il tempo che trovano. Bisogna mostrare con chiarezza che siamo in grado di far pesare le nostre ragioni proprio perché sono anni che ci facciamo carico della nostra condizione geografica di frontiera europea.
I vari governi che in Europa pensano che l'Italia non possa permetterselo dovranno ricredersi: la “sedia vuota” non è una strategia disponibile solo per De Gaulle e con una crisi come quella greca alle porte i nostri partner farebbero bene a non sottovalutare cosa significherebbe una Italia che non rema nella direzione della coesione europea.
Renzi è un premier che oggi fa fatica ad imporsi a livello internazionale perché è continuamente indebolito da fibrillazioni interne alla sua maggioranza e da opposizioni esterne che per un po' di populismo dimenticano qualsiasi solidarietà nazionale. Adesso però deve mettere tutti davanti alle loro responsabilità e far capire chiaramente che ci sono limiti oltre i quali non si può andare: in Italia, ma soprattutto in Europa.

Repubblica 16.6.15
Il Paese è a crescita zero
Italia senza figli, è il record del secolo
L’Istat: più morti che nati, mai così dalla Grande Guerra
Per la prima volta le culle vuote aumentano anche nelle famiglie degli immigrati
di Michele Smargiassi

SOLO la Grande Guerra svuotò le culle più di adesso. Fa sapere l’Istat che nel 2014 in Italia la differenza fra nati e morti, leggi saldo demografico naturale, ha sfiorato quota meno centomila: un record, la forbice più alta dal 1918 (meno 636 mila), quando però era la falce delle trincee a squilibrare il bilancio.
Oggi non è che si muore di più, anzi la mortalità è in leggera diminuzione. È il disinvestimento sui figli che allarga la forbice, perché la voglia di prole frana ormai costantemente dal 2008. Il Bilancio demografico nazionale rilasciato ieri dall’Istat ha la forza delle cifre nette: 502.596 neonati l’anno scorso, meno 11.712, ossia meno 2,3%, sul 2013. Altro che crescita zero, è decrescita sottozero, quasi ovunque: solo a Trento e Bolzano più nascite che funerali.
Crisi economica, mutamento dei costumi e dei progetti familiari. C’entra pure il contraccolpo del baby-sboom : sono in età fertile oggi i figli dei primi cali demografici degli anni Ottanta: meno bambini allora, meno potenziali genitori oggi.
Che cosa conta di più, nella retromarcia demografica italiana? Non è facile distinguere. Ma c’è un indizio che comincia a farsi significativo: calano anche le nascite nelle famiglie degli immigrati. Nel primo decennio del millennio i bimbi multicolori riempivano le sale parto, compensando in parte la minor natalità delle famiglie italiane: un boom, da 30 mila nel 200 a 80 mila nel 2012. Bene, l’aria è cambiata anche qui. L’inversione di tendenza timida di due anni fa, nel 2014 è stata netta: 2638 nati in meno. La crisi colpisce anche famiglie che, per cultura e tradizione, sarebbero propense a fare più figli della media italiana.
Dunque, nonostante le paure di invasione, in questo paese non stiamo più stretti di prima. Sommando tutto, arrivi e partenze, nati e morti, siamo appena 12 mila in più del 2013, ma se scremiamo la burocrazia (correzioni di errori e revisioni anagrafiche) siamo aumentati solo di duemila persone e rotti, un’inezia. Per chi ama la precisione, in Italia ora siamo 60.795.612 residenti ufficiali. Di cui poco più di 5 milioni sono cittadini stranieri immigrati (fa l’8,2 per cento, ma attenzione: quasi la metà vengono da paesi europei). Ci sono ormai nella penisola persone di duecento nazionalità diverse (primi i romeni, 22,6% del totale), ma le iscrizioni anagrafiche dall’estero (277 mila l’anno scorso) sono addirittura in calo. Hanno invece ottenuto la cittadinanza italiana 130 mila persone nate altrove.
Insomma, anche l’immigrazione, almeno quella che risulta all’anagrafe, riesce a malapena a colmare i vuoti di un paese che perde abitanti. Ne perde statisticamente ( per lo sbilancio fra nati e morti, già detto), ma anche realmente: siamo ancora un paese di emigranti, 90 mila partenze, anche a contare i rimpatri il saldo è negativo di quasi 60 mila unità. Partono i più giovani, e anche questo aggiunge un grano di sabbia all’inesorabile clessidra dell’invecchiamento: adesso la nostra età media è di 44,4 anni. Apparentemente non sembra drammatica, ma è l’incubo della piramide rovesciata a turbare i sonni dei programmatori sociali: quella massa di anziani inattivi che preme su una minoranza di giovani produttivi, che può schiantare qualsiasi welfare, non solo in tempi di crisi.

Il Sole 16.6.15
Solo gli immigrati ci salvano dal «gap demografico»
Istat. Italia sempre più vecchia, con un saldo tra nascite e decessi (a favore dei secondi) che non si vedeva dalla Grande Guerra
di Davide Colombo

Roma In un Paese che inesorabilmente invecchia e nel quale continuano a diminuire le nascite solo i nuovi migranti in arrivo garantiscono la crescita zero (o quasi) della popolazione residente. Lo conferma l’ultimo bilancio demografico dell’Istat relativo al 2014. Alla fine dell’anno scorso secondo l’Istituto di statistica eravamo poco meno di 61 milioni, per la precisione 60.795.612, in aumento rispetto al 2013 di appena 12.944 unità mentre il saldo è risultato addirittura negativo per la popolazione femminile (-4.082). In questo contesto la variazione reale, dovuta cioè alla dinamica naturale (nascite e morti) e migratoria, registra - al netto delle rettifiche dovute alle regolarizzazioni anagrafiche - un aumento di appena 2.075 unità, pari a +0,003%. In pratica gli arrivi dall’estero hanno compensato appena il calo di popolazione dovuto al saldo naturale. Quello che i demografi definiscono “il movimento naturale della popolazione”, cioè il saldo tra le nascite e i decessi, ha fatto registrare nel 2014 un saldo negativo di quasi 100mila unità, che segna un picco mai raggiunto nel nostro Paese dal biennio 1917-1918, gli anni della Grande Guerra. Se infatti la mortalità resta stabile, con una lieve diminuzione in valori assoluti (-2.380 decessi), continua la tendenza - in atto ormai da anni - del calo delle nascite: sono stati infatti registrati quasi 12mila nati in meno rispetto all’anno precedente. Anche i nati stranieri continuano a diminuire (-2.638 rispetto al 2013), pur rappresentando il 14,9% del totale dei nati. In questo quadro non meraviglia che l’età media della popolazione continui a salire: al 31 dicembre 2014 è pari a 44,4 anni, in costante aumento dal 2011 (quando era di 43,8 anni). Con tutte le conseguenze del caso sui rapporti intergenerazionali i cui squilibri continuano a crescere. A fine 2014 l’indice di dipendenza strutturale, ossia il rapporto tra la popolazione in età inattiva su quella attiva, è stato pari al 55,1% contro il 53,5% del 2011. Nello stesso periodo l’indice di vecchiaia, vale a dire il rapporto tra la popolazione over 65 anni e quella con meno di 15 anni, ha registrato un netto incremento, passando dal 148,6% del 2011 al 157,7% del 2014.
Tornando agli stranieri, essi sono aumentati nel 2014 di 92.352 unità (+1,9%), portando il totale dei cittadini stranieri residenti a 5.014.437, pari all’8,2% dei residenti totali. Provengono da circa 200 Paesi diversi, ma per oltre il 50% si tratta di cittadini di un Paese europeo. La cittadinanza più rappresentata è quella rumena (22,6%) seguita da quella albanese (9,8%). La popolazione straniera risiede prevalentemente al Nord e al Centro, anche se nel 2014 il Sud ha visto aumentare di quasi il 30% la sua quota di stranieri. Rispetto agli anni precedenti diminuisce il numero degli immigrati e aumenta il numero degli emigrati: il saldo tra i due flussi in entrata e in uscita è pari a 140mila unità circa.

La Stampa 16.6.15
In Vaticano il primo processo a un vescovo per pedofilia
A giudizio il polacco Wesolowski: il Tribunale sarà composto da laici
di Andrea Tornielli

Per la prima volta un arcivescovo viene rinviato a giudizio nello Stato della Città del Vaticano e sottoposto ad un processo penale per pedofilia e detenzione di materiale pedo-pornografico: sarò giudicato da un tribunale composto da laici. È l’ex nunzio apostolico nella Repubblica Dominicana, il polacco Jozef Wesolowski.
L’ex presule, già dimesso dallo stato clericale con una sentenza canonica della congregazione per la Dottrina della fede (contro la quale ha presentato appello), che si trova «agli arresti domiciliari» in Vaticano per decisione di Papa Francesco. Al suo caso è stata applicata la nuova normativa varata da Bergoglio. La prima udienza del processo è prevista l’11 luglio prossimo e non è esclusa la possibilità di fare rogatorie a Santo Domingo.
Il presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Giuseppe Dalla Torre, con decreto del 6 giugno scorso, si legge nel comunicato diffuso ieri, «ha disposto, in accoglimento della richiesta avanzata dall’Ufficio del Promotore di Giustizia, il rinvio a giudizio dell’ex nunzio apostolico nella Repubblica Dominicana, Jozef Wesołowski». All’arcivescovo vengono contestati «taluni reati commessi sia durante il suo soggiorno a Roma dall’agosto 2013 sino al momento del suo arresto (avvenuto il 22 settembre 2014), sia nel periodo trascorso nella Repubblica Dominicana, nei cinque anni in cui ha ricoperto l’ufficio di Nunzio Apostolico».
Monsignor Wesołowski era stato coinvolto dalla magistratura dominicana in un’inchiesta su abusi sessuali su minori, commessi nella spiaggia di Santo Domingo. Inoltre al prelato i gendarmi vaticani avevano sequestrato un computer contenente materiale pedopornografico, un reato introdotto dalla legge n. VIII del 2013 firmata da Papa Francesco.
«L’insieme delle gravi accuse - si legge ancora nella nota - dovrà passare al vaglio dell’organo giudicante, che potrà disporre, per il definitivo accertamento dei fatti, sia di perizie tecniche sugli apparati informatici utilizzati dall’imputato, sia eventualmente di forme di cooperazione giudiziale internazionale per la valutazione delle prove testimoniali provenienti dalle competenti autorità di Santo Domingo». Possibile, dunque, come ha spiegato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, che il Vaticano chieda rogatorie alla Repubblica dominicana.
È probabile che la prima udienza sia pubblica, ma che le successive avvengano a porte chiuse, ha precisato padre Lombardi. Il processo si svolgerà ad ogni modo nella stessa aula del tribunale dov’è stato processo il maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, protagonista di Vatileaks. Dopo le sue dimissioni, Wesołowski non ha più l’immunità diplomatica.

Repubblica 16.6.15
Da San Francesco a Francesco
di Vito Mancuso

DA SAN FRANCESCO a Francesco. Già l’accoppiata di titolo e sottotitolo della nuova enciclica di Bergoglio è molto significativa: Laudato si’. Sulla cura della casa comune .
Vi compaiono tre concetti decisivi della complessiva interpretazione bergogliana del cristianesimo come servizio e difesa dell’uomo: 1) la lode, ovvero la dimensione contemplativa, assolutamente essenziale per la spiritualità gesuita; 2) la cura, la prassi volta al bene e alla giustizia, tratto peculiare della teologia della liberazione sudamericana; 3) la casa comune, ovvero il bene comune e la dimensione comunitaria della vita umana, che è sempre vita di un singolo all’interno di un popolo. Precisamente per questa terza dimensione il papa scrive che con il suo scritto egli non si rivolge solo agli uomini di Chiesa e ai cattolici, com’è tradizione per il genere letterario dell’enciclica, ma a tutti gli esseri umani: «Mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune».
Francesco tiene a ricordare che la sua particolare attenzione all’ecologia non è una novità per il papato, in quanto tutti i suoi immediati predecessori l’avevano coltivata prima di lui. E in effetti leggendo il suo scritto è impossibile non riscontrare forti debiti intellettuali verso Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI, entrambi citatissimi (23 volte il primo, 21 il secondo). Si ha però anche una sensazione di autentica novità per almeno tre motivi: 1) per lo stile semplice e immediato che ricorda da vicino quell’acqua di cui il papa scrive che «ci vivifica e ci ristora»; 2) per l’attenzione prestata a contributi che solitamente non costituiscono le fonti del magistero papale, come per esempio le opere di altri leader religiosi tra cui il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, e le analisi di scienziati, di sociologi, di economisti; 3) per la forza sorprendentemente “laica” degli argomenti e dell’argomentazione. Nell’enciclica infatti ricorrono termini quali inquinamento, cambiamenti climatici, rifiuti, cultura dello scarto, questione dell’acqua (qui il papa spende parole fortissime contro ogni progetto di privatizzazione delle risorse idriche), perdita di biodiversità, deterioramento della qualità della vita, degradazione sociale, iniquità planetaria, ogm, per un dettato complessivo che soprattutto nella prima parte non ha proprio nulla di ciò che tradizionalmente si intende per religioso.
L’enciclica è molto lunga, quasi 200 pagine per 246 paragrafi, e una sua analisi adeguata richiede tempo e riflessione. Da quanto emerge però a una prima veloce lettura credo che il concetto decisivo sia quello di “ecologia integrale”, espressione che ricorre otto volte nel documento e costituisce il titolo del quarto capitolo. Integrale significa in grado di abbracciare tutte le componenti della vita umana, la quale va riscattata dalla progressiva sottomissione alla tecnologia che nel suo legame con la finanza «pretende di essere l’unica soluzione dei problemi», ma, scrive il papa, «di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri ».
Un grande insegnamento al proposito è l’interconnessione di tutte le cose su cui il papa ritorna più volte (“tutto è intimamente relazionato”), al fine di comprendere, per fare solo un esempio, che il surriscaldamento del pianeta provoca la migrazione di animali e di vegetali e quindi l’impoverimento di determinati territori e di coloro che li abitano, i quali a loro volta si trovano costretti a emigrare. Così l’ecologia, da mera preoccupazione per l’ambiente naturale, mostra di essere al contempo cura dell’umanità nel segno ancora una volta dell’ecologia integrale.
Rimangono però tre domande. 1) È sostenibile affermare che “la crescita demografica è veramente compatibile con uno sviluppo integrale e sociale”, come scrive il Papa citando un documento ecclesiastico precedente? Oggi siamo oltre 7 miliardi e già ora i nostri rifiuti sono superiori alle possibilità di smaltimento, senza contare che lo smaltimento diviene a sua volta causa di inquinamento. Che cosa avverrà quando nel 2050 la popolazione sarà di 9,6 miliardi?
2) Nel capitolo biblico-teologico il Papa scrive che “il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura… non le ha più attribuito un carattere divino”. Non sarebbe opportuno chiedersi se questo processo di demitizzazione e desacralizzazione, è all’origine di quello sfruttamento progressivo del pianeta denunciato dal papa?
3) Stupisce l’assenza totale di ogni riferimento alle grandi religioni orientali (induismo, buddhismo, jainismo, taoismo, shintoismo) da sempre molto attente alla questione ecologica e alla spiritualità della natura, molto prima del risveglio al riguardo del cristianesimo. Francesco scrive più volte che “tutto nel mondo è intimamente connesso” e sicuramente sa che si tratta di un insegnamento originario della sapienza orientale, in particolare del buddhismo e del taoismo: perché non dirlo e richiamarli? Non sarebbe stato in linea con il desiderio di “unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale”, come egli scrive?

il Fatto 16.6.15
Pedofilia
L’ex nunzio Wesolowski a processo

L’ex nunzio apostolico in RepubblicaDominicana, Jozef Wesolowski, sarà processato in Vaticano per le accuse di aver pagato minori in cambio di prestazioni sessuali e di possesso di materiale pedopornografico. Il polacco, tornato laico per sospensione a divinis, lo scorso anno fu la prima persona arrestata in Vaticano per accuse di pedofilia. Padre Federico Lombardi ha informato che l’ex nunzio ha subito due interrogatori e che il rinvio a giudizio è stato chiesto “dall’ufficio del Promotore di giustizia”. I giudici vaticani hanno dunque ritenuto che ci siano motivi sufficienti per rinviare a giudizio l’ex nunzio. Per l’inchiesta e “il definitivo accertamento dei fatti”, i giudici non escludono “eventuali forme di cooperazione giudiziaria internazionale”. Il portavoce ha ricordato che nel 2014 il Procuratore generale di Santo Domingo era venuto in Vaticano per incontrare i giudici, aveva fatto una dichiarazione sul caso Wesolowski, e che in quella occasione si era parlato della eventualità di una rogatoria internazionale per acquisire ulteriori elementi”.

Corriere 16.5.15
Appalti alle coop e trasparenza violata Quello che la politica sapeva (e ignorò)
di Giovanni Bianconi

ROMA Non c’erano solo gli appalti assegnati alle cooperative di Buzzi per l’emergenza alloggi in violazione delle regole imposte dalla legge, nell’allarme lanciato a inizio 2014 dagli ispettori del ministero dell’Economia sui conti del Campidoglio. Anche nel settore dell’assistenza ai minori stranieri non accompagnati — una delle greppie che foraggiava la mucca di Buzzi munta dai politici, per usare la sua metafora — emergono anomalie legate al meccanismo dei debiti fuori bilancio nel biennio 2012-2014, puntualmente stigmatizzate dalla relazione ministeriale.
Uno strumento riservato a spese improvvise e non programmabili, che potrebbe diventare truffaldino se utilizzato per acquisire «beni e servizi al di fuori delle ordinarie regole contabili; in tal caso — denunciarono gli ispettori — si è sempre in presenza di una scorretta quantificazione delle somme effettivamente necessarie a finanziarie le spese dell’ente». Sistema che forse permetteva di rispettare l’equilibrio di bilancio, ma sintomo di un’ulteriore illegalità: «Trovare copertura negli esercizi successivi a spese non certamente qualificabili come imprevedibili, è configurabile quale fenomeno elusivo delle disposizioni del Patto di stabilità».
La relazione ministeriale è citata nel nuovo ordine d’arresto per Mafia Capitale, ed è stata utilizzata dalla commissione prefettizia per trarre le proprie conclusioni sull’ipotetico condizionamento mafioso dell’amministrazione capitolina. Censure e comportamenti scorretti si riferiscono al periodo della Giunta Alemanno (lo stesso ex sindaco è inquisito per associazione mafiosa), ma anche della Giunta Marino, a causa del coinvolgimento di diversi consiglieri della nuova maggioranza nelle trame di Buzzi e Carminati. È vero che fu proprio Ignazio Marino, all’indomani dell’insediamento, a chiedere e ottenere l’intervento degli ispettori vincendo le resistenze dell’ex ministro Saccomanni; ma è pure vero che alla luce delle «criticità» rilevate quasi un anno prima degli arresti che hanno scompaginato il «mondo di mezzo», poco o nulla era cambiato nell’assegnazione degli appalti alle coop. Di ispirazione rossa o bianca che fossero, visto che «gli affidamenti diretti, in assenza di qualsivoglia procedura concorrenziale» riguardavano anche il gruppo de La Cascina, vicino a Comunione e Liberazione.
Non si può sostenere, insomma, che prima dell’intervento della magistratura la politica (anche quella «nuova» approdata in Campidoglio nel 2013) non avesse gli strumenti per capire ciò che di sospetto si nascondeva dietro le manovre di Buzzi e i suoi modi d’agire. Certo, si poteva non sapere dei legami con Carminati e i suoi metodi ipoteticamente mafiosi, tuttavia le regole violate della trasparenza erano sotto gli occhi dell’amministrazione da tempo. Prima che fossero svelate dall’indagine. Senza che l’amministrazione prendesse adeguate contromisure.
Questa inerzia diventa ora un elemento a carico di Giunta e Consiglio comunale, nella ricostruzione della commissione prefettizia incaricata di verificare gli estremi per un eventuale scioglimento per mafia. Ed è richiamata dalla Cassazione nella sentenza con cui ha certificato l’ipotesi dell’associazione mafiosa a carico di Carminati e coindagati (altro passaggio che potrebbe spingere nella direzione dello scioglimento, in virtù della «imposizione di un controllo dell’associazione su buona parte dell’amministrazione capitolina»). Secondo i giudici, infatti, s’è creata «una situazione di assoggettamento talmente radicata e pervasiva di fronte alla quale nessuno, in sede politica o giudiziaria, sia essa penale ovvero amministrativa, ha mai osato innalzare una voce di dissenso».
L’incapacità di reagire da parte della politica s’è dunque trasformata in un indizio a sostegno del metodo mafioso che l’avrebbe condizionata, e oggi rischia di contribuire al suo affondamento.

Repubblica 16.6.15
Marino si difese: io i mafiosi volevo cacciarli
A maggio il faccia a faccia con gli ispettori Oggi la relazione della prefettura
di Giovanna Vitale

ROMA . A palazzo Senatorio, giovedì 21 maggio, è una giornata stranamente tranquilla. L’agenda è sgombra, nessun impegno istituzionale previsto per il pomeriggio. Ma è solo apparenza. Il sindaco Ignazio Marino sa bene cosa sta per accadere. Che (anche) da quell’appuntamento dipenderà la sua permanenza alla guida di Roma: convocato in audizione dai tre commissari prefettizi che da dicembre stanno indagando sulle infiltrazioni mafiose in Campidoglio.
Mezz’ora di “interrogatorio” che fornisce la chiave per leggere le quasi mille pagine di relazione, planata ieri sera sulla scrivania del prefetto Franco Gabrielli. Trenta minuti o poco più per cercare di fare chiarezza su tutta una serie di atti varati dalla giunta attuale - dai debiti fuori bilancio alle proroghe contra legem di appalti nel sociale e nel verde - già finiti sotto la lente degli 007 del Tesoro che nell’aprile 2014 rilevarono come, «a seguito del cambio di amministrazione, la situazione non sembra aver fatto registrare particolari miglioramenti».
La premessa per chiedere conto al sindaco in carica - cui pure si riconosce il tentativo di fare pulizia e agire in discontinuità con il passato- il perché delle tante, troppe «incertezze» e «timidezze » mostrate in alcuni settori dell’amministrazione. A cominciare dall’Ambiente, dove l’ex direttore del Dipartimento Gaetano Altamura, nominato proprio da Marino e a dicembre finito indagato (ora ai domiciliari), è stato lasciato libero di manovrare a favore di Carminati e soci. Per non parlare di Giovanni Fiscon, il dg di Ama che pilotava appalti in cambio di soldi. «Ma io volevo cacciarlo», cerca di difendersi Marino, «solo che quella mattina mi arrivarono diverse telefonate da alti esponenti del Pd, in giunta l’ex assessore Ozzimo espresse la sua ferma contrarietà, e io lasciai perdere». Spiegazioni che tuttavia non scoraggiano la Commissione, decisa ad approfondire. A capire soprattutto perché fosse stata mandata via l’assessore al Sociale Rita Cutini, «vissuta dall’organizzazione criminale come un ostacolo», osserva il capo degli ispettori. È lì che Marino sbianca, poi contrattacca: «È stata una valutazione di merito, legata alla sua operatività. Ogni volta che c’era da gestire un’emergenza, lei non c’era mai».
Un botta e risposta sintomatico di ciò che gli ispettori prefettizi cercavano. E hanno messo nero su bianco al termine dei sei mesi trascorsi a spulciare bandi di gara e capitolati d’appalto, proroghe e concessioni, delibere di giunta, di consiglio e determine dirigenziali. Un’immensa mole di carte, prodotte dal 2008 a oggi, che il prefetto Marilisa Magno, la vice Enza Caporale e il dirigente del Mef Massimiliano Bardani hanno analizzato facendosi guidare dalla legge sulle infiltrazioni mafiose negli enti locali e dalla famosa sentenza 103/93 della Consulta - entrambe citate nel corposo report - a caccia di ogni indizio utile a provare le mani dei clan sul Campidoglio. Ovvero la presenza di quei «collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata» o anche di «forme di condizionamento » tali da compromettere «la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento» dell’amministrazione. Elementi che tuttavia il “pacchetto sicurezza” varato nel 2009 dal governo Berlusconi - precisano i tre ispettori - vuole «concreti, univoci e rilevanti»: una riforma che, criticò al tempo il giudice Cantone, ha indebolito l’istituto dello scioglimento per mafia.
Paradossalmente è proprio da lì, da quella norma voluta dal centrodestra, che potrebbe arrivare la salvezza di Marino. Partendo da una considerazione: tra la vecchia e la nuova amministrazione ci sono notevoli differenze. E non solo perché gli assessori, i consiglieri e i dirigenti comunali dell’era Alemanno sono tutti accusati di associazione di tipo mafioso, mentre ai cinque del centrosinistra coinvolti nell’inchiesta (pur se in manette perché a libro paga di Carminati & soci) tale aggravante non è contestata.
Ora il prefetto Gabrielli avrà 45 giorni per esaminare la relazione e scrivere il suo parere, che a fine luglio verrà consegnato al ministro dell’Interno. Il quale entro tre mesi potrà proporre al consiglio dei ministri lo scioglimento del Campidoglio. A quel punto la decisione sarà del governo, dunque politica. Sempre che non prevalga la terza via, ovvero il commissariamento parziale di Roma, cioè di quei settori dell’amministrazione che risultano tuttora inquinati da Mafia Capitale.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Contestata al primo cittadino la timidezza nel cambiare i vertici di alcuni settori L’audizione prima della seconda retata di Mafia capitale “Ostacolato dal Pd”
IN TRINCEA Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, a sinistra Salvatore Buzzi

Il Sole 16.6.15
Dalle opposizioni a Sel, assedio a Marino
Campidoglio. I consiglieri della lista Marchini si autosospendono
La Pd Tiburzi attacca sul gay pride
di Mariolina Sesto

Roma Un pezzo di opposizione, quella di Alfio Marchini, lascia il colle del Campidoglio per l’Aventino, per poi contestarlo ai piedi del Marc’Aurelio insieme al Movimento Cinque Stelle. Intanto, una delle “gambe” della maggioranza, Sel, gli morde i garretti e si chiede se si possa andare avanti. Non c’è pace per il sindaco di Roma Ignazio Marino, da settimane sotto un pressing costante che ne chiede le dimissioni dopo il terremoto dell’inchiesta Mafia Capitale. L’ex chirurgo, certo, gode della piena copertura politica dei vertici del suo partito, in testa il commissario romano e presidente Matteo Orfini. Per questo ha quasi un sapore di beffa che venga proprio da casa Pd l’ultima tegola, quella della consigliera Daniela Tiburzi e le sue dichiarazioni contro il Gay Pride. Dove Marino aveva sfilato da eroe solo lo scorso sabato. Ma ieri il primo attacco è arrivato da Alfio Marchini: «Non siamo stati eletti per scaldare poltrone - ha detto l’imprenditore che lo sfidò alle comunali - per cui noi della lista Marchini (lui e il capogruppo Alessandro Onorato, ndr) ci autosospendiamo fin quando il sindaco, con un sussulto di dignità, annuncerà le sue dimissioni. Manca l’agibilità politica per continuare a fare il nostro lavoro in un Consiglio comunale fantasma». E poi ci sono i mugugni, nella migliore delle ipotesi, della sua maggioranza: ieri Sel doveva riunirsi «per decidere come andare avanti» dopo la seconda ondata di arresti di Mafia Capitale. Si vedranno invece mercoledì pomeriggio, e sarà «una riflessione aperta per l’avvio di un percorso di ascolto della città e del popolo di sinistra». Sel, che esprime il vicesindaco Luigi Nieri, si è detta già nei giorni scorsi «insoddisfatta» della situazione in Campidoglio, e la consigliera Imma Battaglia non ha affatto escluso di uscire di maggioranza. Le opposizioni, da parte loro, continuano con lo stillicidio quotidiano: al grido di “dimissioni, dimissioni” decine di militanti del M5S hanno contestato Ignaro Marino sulla piazza del Campidoglio. «Sono inadeguati - ha affermato il capogruppo capitolino Marcello De Vito -. Serve una amministrazione onesta che sappia quello che deve fare: noi siamo pronti». Magari candidando il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio? «Decideranno gli iscritti», ha tagliato corto il diretto interessato, arrivato in Campidoglio. I M5S hanno esposto un grande striscione “Onestà”, mentre “Dignità” chiede il cartello dei marchiniani: «Chiediamo le dimissioni del sindaco - ha spiegato il capogruppo Onorato - un nuovo inizio che possa restituire speranza ai romani». Marino intanto cerca il contatto diretto con i cittadini e ieri è andato a un incontro a via Bravetta: «In questo momento - ha riconosciuto - vedervi è un elemento che dà grande forza alla nostra amministrazione. Il fatto che il mio predecessore abbia un avviso di garanzia per associazione mafiosa non mi fa piacere». Dimettersi non è in predicato. Ieri mattina lo sguardo al futuro con lo Stadio della Roma, nel pomeriggio si parla di bilanci: «Quello che abbiamo trovato è peggio di quanto io pensassi».
Intanto oggi gli ispettori nominati a dicembre dal predecessore di Gabrielli, Giuseppe Pecoraro, consegneranno al prefetto il rapporto sulle infiltrazioni di Mafia Capitale negli uffici del Campidoglio. Una relazione corposa, circa mille pagine, focalizzata in particolare su appalti, bandi di gara, legami tra consiglieri e funzionari ed esponenti dell’organizzazione criminale smascherata dalla Procura di Roma. Gabrielli avrà 45 giorni per decidere se chiedere il clamoroso commissariamento del Comune.

Il Sole 16.6.15
Lotta alla corruzione
Renzi alla prova più difficile
di Montesquieu

Quella in atto, che mette insieme le difficoltà economiche e sociali del paese e l’autocorrosione delle sue strutture politico istituzionali è la prova più dura per il nostro sistema dal biennio di tangentopoli. La corrosione divora e distrugge i tessuti, li rende inservibili, irriformabili, ed è un processo spontaneo figlio della corruzione. Focolai di piccoli, grandi o grandissimi scandali si alzano qua e là di continuo, quasi un fenomeno di autocombustione, con il risultato di rendere indistinguibili le strutture sane da quelle ormai preda del contagio.
Un quadro tetro, che sarebbe stolto minimizzare, in un paese in cui le organizzazioni criminali conquistano negli anni spazi ben oltre le regioni di originario insediamento, in alcune delle quali si potrebbe, facendo della macabra ironia, parlare di infiltrazioni dello stato, anziché del contrario.
La visione non migliora se si vanno a guardare le capacità di reazione del sistema politico istituzionale, mentre il contagio aggredisce impietosamente “la” forza di governo, al momento unica ed insostituibile, il Partito democratico. Un sistema al momento incapace di prospettare alternative ad un governo che ormai si regge su apporti fortunosi e di giornata, in una geografia politica priva dei riferimenti abituali e necessari in ogni sistema: grosso modo, i conservatori, i progressisti, le forze di mezzo, mediocre fenomeno italiano ormai in via di esportazione. Un sistema che non si fa mancare la tendenza “europea” alla novità, che da noi si chiama Movimento Cinque stelle, ed è, per fortuna o per disgrazia, animata da uno spirito meramente osservativo alla gestione del paese e delle sue articolazioni, a differenza di quanto accade in Grecia o in Spagna.
Finisce per vacillare inevitabilmente, e in buona parte incolpevolmente per chi ha il compito di governare il paese, l’immagine di rinnovamento con cui si pensava di riconquistare rispetto e ruolo nelle comunità internazionali, a partire da quella europea. Il processo di sostituzione generazionale delle cellule esauste sembra spento prima della rigenerazione, dopo aver bruciato, per via di una “rottamazione” episodica e casuale, energie forse logorate ma decorose sotto il profilo della tenuta morale e politica, e aver portato sulla scena delle responsabilità di governo personalità che nulla aggiungono alle capacità dello stesso Matteo Renzi, e quindi scarsamente utili al suo sforzo.
L’assenza di alternative di governo è, nei manuali e nella realtà, la malattia delle democrazie, e in paesi sfortunati e periodi storici di minore vigilanza internazionale ha portato spesso a regimi autoritari. Rischio, almeno questo, che sembra risparmiare il nostro paese, ad onta di chi, non contento dei guai che vi sono, paventa la fine della democrazia: che non vi sarà, se non sotto la forma di una sua trasformazione. Meglio non dimenticare, comunque, la lezione recentissima di un periodo in cui si è dissolta, nel breve giro di un paio d’anni, l’unica proposta di governo dei cinquant’anni precedenti, nei quali il vizio italiano dell’assenza di alternative era addirittura siglato a livello planetario, reggendosi però nel paese su soggetti politici saldi e riconoscibili per gli elettori.
Oggi, renziani, antirenziani e “arenziani” (comunità assai folta, visti i tempi di astensionismo), e le rispettive rappresentanze politiche, sono davvero sulla stessa barca: sulla quale possono decidere, per un tratto, di remare uno accanto all’altro, fino all’auspicabile uscita dai marosi. Ma sarebbe troppo chiedere di farsi carico del momento alla nostra scombinata comunità politica - prodotto di una irresponsabile legge elettorale -, che confonde il nemico Renzi con lo Stato, e non vuole aiutare il secondo per paura di dare una mano al primo?.
La partita sulla “questione morale” è la più difficile per Renzi, perché pretende un’intransigenza che rischia di far cadere il governo ad ogni passo, e una logorante duttilità compromissoria per tenerlo in piedi. La soluzione maestra, il ritorno alle urne, sembra azzardata non per le sorti di questo o quel partito, ma per la tenuta del sistema.
Un vicolo cieco, in cui i responsabili (persone e soggetti politici) potrebbero mettere da parte, per estrarli al momento giusto, conflitti interni ai partiti, e accuse strumentali tra i partiti. Una sorta di commissariamento della competizione politica? In un certo senso una tregua, limitatamente alla competizione fatta di pretesti. Ovvero, che tenga la competizione su un livello definito non solo dalla ricerca del consenso. Come accadde, ad esempio, negli anni bui del terrorismo, quando un nemico comune minacciava la convivenza civile.
Un dubbio: questa classe politica ha ancora il senso dell’unità nazionale nell’interesse di tutti i cittadini, o preferisce l’unità dei propri, rispettivi elettori contro gli altri, quasi gli uni avessero problemi diversi dagli altri?

Repubblica 16.6.15
L’Europa non può far fallire la Grecia
Lunedì nero in Borsa Grexit, i timori di Draghi: “Acque inesplorate”
di Timothy Garton Ash

L’EUROPA deve salvare la Grecia. Mantenerla nell’Eurozona avrà conseguenze negative ma peggio sarà se ne esce, questo non solo sotto il profilo economico, ma umano, geopolitico e storico. L’Europa non sarebbe mai più la stessa. Ero in Grecia due settimane fa e ne ho avuto l’impressione ogni piè sospinto, sostando sull’antico colle della Pnice, che ha dato i natali alla democrazia, parlando con i vertici dell’imprenditoria, con giornalisti e accademici.
ACCADEMICI molti dei quali ferocemente critici nei confronti dell’attuale governo di Syriza. Ma da quando sono rientrato nel Nord Europa, prima in Inghilterra, in Belgio e, ora, in Polonia, incontro non solo una relativa indifferenza rispetto a questa problematica, ma anche due pericolose illusioni.
La prima è che questo “gioco del coniglio” tra Grecia e Germania si concluderà in qualche modo all’ultimo momento con un classico, incomprensibile compromesso nello stile di Bruxelles. La seconda, nutrita talvolta in alternativa alla precedente, è che il Grexit avrà comunque poco peso: la Grecia rappresenta meno del 2 per cento della produzione economica dell’eurozona e quest’ultima dispone oggi di paratie stagne che impediscono all’incendio di propagarsi agli altri paesi del Sud Europa. Perché mai, dall’Irlanda alla Lettonia, gente che lavora sodo, che si è votata con sacrificio alle riforme strutturali e all’austerità, dovrebbe continuare a pagare per chi non lo ha fatto? Forse in fin dei conti l’uscita della Grecia sarebbe un bene per tutte le parti in causa. Partiamo dalla prima illusione. Intanto non si tratta di un’eventualità remota, potrebbe succedere domani. I depositi bancari in Grecia calano come il livello dell’acqua in un serbatoio con una falla. I ricchi hanno già portato la maggior parte del loro denaro fuori dal Paese e i poveri mettono i soldi sotto il materasso. Un’altra ondata di panico, una corsa alle banche e saranno introdotti controlli sui movimenti di capitale. Zeus solo sa cosa succederebbe. Forse sarebbe ancora possibile un salvataggio tramite una sorta di default negoziato in seno all’eurozona, ma solo il più irresponsabile dei teorici dei giochi potrebbe contarci. E perché il Grexit avrebbe peso contro la seconda illusione? Tanto per cominciare, i mercati capirebbero che l’adesione all’eurozona non è irreversibile. Il contagio ai titoli di Stato della nazione debitrice dell’Eurozona seconda in ordine di debolezza non sarebbe probabilmente immediato, ma ogni nuova crisi in un’economia debole è potenzialmente in grado di innescare una speculazione aggressiva.
Poi viene il costo economico e quindi umano sostenuto in Grecia. Inutile dire che la Grecia non avrebbe mai dovuto entrare nell’Eurozona e che quest’ultima non avrebbe mai dovuto essere posta di fronte a un negoziato così inquinato. Inutile dire che nei primi anni dell’euro i governi greci clientelari che ebbero accesso ai prestiti al tasso tedesco non fecero che peggiorare la situazione, in combutta con i loro oligarchi; che la medicina post crisi prescritta dalla Germania e dal Fmi era pressoché destinata a peggiorare le condizioni di un paziente così malato; che il paziente faceva solo finta di prendere la medicina; e così via.
Sia di chi sia la colpa, resta fatto che molti greci hanno sofferto in maniera tremenda. Stando ai dati freddi, quelli delle statistiche ufficiali, la spesa reale nell’economia greca è diminuita di circa un terzo nell’arco di sette anni e la disoccupazione colpisce un giovane su due. Un dato ancor più ‘freddo’: dal 2010 il numero dei suicidi è aumentato di oltre il 35 per cento. Tutti i greci si chiederanno a che scopo patire così. Dato che il sistema politico del Paese è ancora e sempre quello inventato nell’antica Atene e esercitato sulla Pnice, questo misto di rabbia e disperazione troverà espressione nelle urne. A meno di un qualche miracolo sfocerà in un governo ancor più radicale, populista e nazionalista, di destra o di sinistra che sia.
Le conseguenze sarebbero gravi per tutta l’Unione europea e per la posizione che occupa nel mondo. Il governo greco radicale post—Grexit potrebbe, ad esempio, tanto per cominciare, porre il veto all’ulteriore estensione delle sanzioni alla Russia per l’Ucraina. Anche se Mosca in realtà non offrirà molto in termini economici, sarà più che lieta di giocare la carta politica della solidarietà tra due grandi nazioni di fede ortodossa. Quanto alle migliaia di rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa che già arrivano dall’altra sponda del Mediterraneo, Atene non avrebbe alcun incentivo a non passarli immediatamente a quei ricchi europei che (agli occhi della maggior parte dei greci) l’hanno piantata in asso.
Quindi anche se in cuore non avete neppure un briciolo di solidarietà per i greci, se in testa avete un cervello e vi interessa il futuro dell’Europa, capirete perché dobbiamo necessariamente salvare la Grecia
Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 16.6.15
Israele
Netanyahu contro il boicottaggio “Ricorda le campagne naziste”
Tel Aviv . La campagna Bds (Boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni)chiesta dai palestinesi contro Israele cresce: e la risposta israeliana si fa dura. Ieri il premier Benjamin Netanyahu è arrivato addiruttura ad equipararla all’atteggiamento della Germania nazista contro gli ebrei. «Gli attacchi agli ebrei sono sempre stati preceduti da diffamazioni: ora quel che è stato fatto al popolo ebraico, lo si fa anche allo Stato ebraico».
Sul modello delle pressioni che nei primi anni ‘90 portarono alla fine dell’Apartheid in Sudafrica, la campagna mira a spingere Israele a fare un passo indietro sui Territori occupati, dove la pressione è invece sempre più estrema.

il manifesto 16.6.15
Crimini a Gaza, assoluzione «preventiva» di Tel Aviv
di Michele Giorgio

Può essere considerata una mossa preventiva, in anticipo sulla pubblicazione del rapporto del Cons- iglio dell’Onu per i Diritti Umani e delle eventuali azioni della Corte penale internazionale, la deci- sione presa dal governo Netanyahu di presentare due giorni fa oltre 200 pagine dettagliate per spie- gare che la scorsa estate Israele si è mosso sempre all’interno del diritto internazionale durante l’offensiva “Margine Protettivo” contro Gaza.
Gli oltre 2.200 morti e migliaia di feriti palestinesi e le decine di migliaia di abitazioni distrutte e danneggiate, per Tel Aviv sono esclusiva responsabilità del movimento islamico Hamas.
Israele non ha alcuna, anche la più piccola, colpa per la morte di tanti civili palestinesi. Anzi si afferma nel rapporto che gran parte di quei civili erano in realtà miliziani armati.
Una descrizione dell’accaduto che contrasta fortemente con le testimonianze offerte da soldati e uffi- ciali israeliani all’ong “Breaking di Silence” che riferivano dell’intenzione, espressa in numerose occasioni, di colpire anche obiettivi civili.

Repubblica 16.6.15
Zhou Yongkang,ex capo della sicurezza,è stato condannato all’ergastolo per corruzione:ma la vera pena è stata apparire in pubblico senza la chioma tinta di nero
Cina,la gogna del capello bianco
di Giampaolo Visetti

PECHINO NELLA civiltà che antepone l’apparenza all’esistenza, la pena estrema arriva dalla super-potenza che già ha equiparato l’oblio ad un decesso. La Cina lancia la condanna ad apparire come realmente si è e mobilita la propaganda per avvertire i traditori del partito che non potranno più fingere pubblicamente di essere come non sono.
Il simbolo della nuova purga globale dell’immagine è Zhou Yongkang, fino a un anno e mezzo fa capo della sicurezza nazionale, tra i nove «intoccabili » del partito comunista. Giovedì scorso le autorità hanno ufficializzato che il braccio destro dell’ex presidente Hu Jintao è stato condannato all’ergastolo per corruzione, abuso di potere e rivelazione di segreti di Stato.
Zhou Yongkang ha 73 anni, ma fino al giorno dell’arresto dimostrava vent’anni di meno: fisico tonico, lifting accurato, ma soprattutto folti capelli neri impeccabilmente laccati all’indietro. Il processo si è tenuto a porte chiuse, ma la tivù di Stato hanno diffuso le immagini del capo della polizia degradato, impegnato a leggere la propria confessione.
Per i cinesi è stato uno shock. Zhou Yongkang, rispetto all’uomo arrestato e scomparso nell’ottobre 2013, è apparso irriconoscibile. Spalle curve, una divisa cadente e capelli completamente bianchi, capaci di trasformare il maturo playboy, sicuro dell’arroganza conferita da un potere assoluto, in un povero vecchio, incerto nella propria condizione di suddito sconfitto. La gente ha esultato per la condanna del funzionario rosso, presentato come l’icona della corruzione.
L’ebbrezza per l’esibizione dell’odiato trofeo ha però ceduto presto il passo al turbamento collettivo per l’umiliazione ideata dal presidente Xi Jinping. La pena più crudele fatta scontare a Zhou Yongkang, accreditato di focosi flirts con giovani e famose attrici, non era il carcere a vita e neppure la confisca di un tesoro da 14,5 miliardi di dollari. La spietatezza della leadership era esporlo in pubblico con capelli bianchi e la carne del volto flaccida, simile ad un anziano qualsiasi, sprovvisto dei mezzi per assicurarsi l’immagine di un’eterna giovinezza.
Messaggio chiaro: in Cina un aspetto curato è oggi un privilegio concesso solo a chi è nelle grazie del «nuovo Mao». I vincenti possono tingersi i capelli di nero e provare a dimostrare vent’anni di meno, gli sconfitti devono accettare la propria chioma bianca e il profilo che rispecchia gli urti dell’età. Il colore dei capelli è assurto a certificato di fedeltà, o di appartenenza, all’autoritarismo della Città Proibita: già una sfumatura di grigio può essere ora interpretata come l’anticamera dell’epurazione. Con la rivoluzione di Mao i cinesi hanno scoperto la cosmesi, eleggendo la tintura a riscatto dalla povertà della campagna. Confucio è stato sepolto assieme alla lunga barba color neve, al culto della saggezza è seguito quello per la ricchezza e per un’idea occidentale di bellezza, presupposto e prova del successo. Questo look accomuna oggi tutta l’Asia: donne e uomini esibiscono capelli color pece dalla culla alla tomba, a meno di insostenibili tracolli economici, o politici. Anche Xi Jinping, come tutti i vecchi dirigenti comunisti, non esibisce un solo capello lasciato al riflesso naturale e dove non arriva la tintura arriva la parrucca. Come una divisa, o un inequivocabile segno di riconoscimento.
Fino a due anni fa, caduta del «neo-maoista» Bo Xilai, il vezzo obbligatorio era concesso per l’eternità. Con la gogna pubblica del capello bianco, ordinata per Zhou Yongkang, Pechino inaugura il sogno della giovinezza come premio a termine, proporzionale all’obbedienza, o all’onestà. Lo sceriffo- bandito che ha osato discutere l’ascesa dell’ultimo imperatore, ha perso come tutti libertà e bottino, ma come nessun altro prima anche la pubblica bellezza. Dalla bandiera rossa al colletto bianco, fino al capello nero.
La pena di morte, per la Cina che si appresta a dominare il mondo, era ormai impresentabile: adesso basta la condanna ad uno shampoo.

Corriere 16.6.15
A ottocento anni dalla concessione dell’habeas corpus in Inghilterra ci si chiede se davvero la democrazia iniziò in quel momento
Magna Charta Il primo diritto o l’ultimo dei privilegi?
di Raffaella De Santis

Tra celebrazioni e discussioni, ieri si sono festeggiati gli ottocento anni della Magna Charta. Il documento che il re inglese Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere ai nobili, fu firmato a Runnymede, lungo il Tamigi, il 15 giugno del 1215. Era la prima volta che il sovrano limitava il proprio potere assoluto e per questo quell’atto viene considerato come il momento in cui nasce il costituzionalismo inglese. Il fatto che quel patto venga modificato molte volte nei tempi successivi non fa che attestare la sua importanza.
Da qualche giorno la stampa anglosassone non parla d’altro. Sul Tamigi sono state organizzate parate e sono arrivate decine di telecamere a riprendere la regina Elisabetta e il premier David Cameron. La British Library ha inaugurato una grande esposizione, e perfino Google ieri celebrava sulla homepage l’evento con un doodle animato. Ma tra gli storici le opinioni divergono. Tutto ruota intorno a una domanda: la Magna Charta è davvero il documento fondativo delle nostre libertà democratiche e costituzionali? A tanti secoli di distanza la questione è aperta. Con quel documento il re assicurava ai baroni che non potevano essere catturati, torturati, sbattuti in prigione indiscriminatamente. In poche parole non potevano essere spossessati dei loro diritti, né violati nella loro integrità fisica. Stefano Rodotà che da anni si occupa dei diritti della persona spiega: «È chiaro che la Magna Charta non è una concessione di diritti a tutti i cittadini ma solo ad alcune categorie, come ecclesiastici e nobili. Ma ha una simbolicità innegabile, soprattutto per quanto riguarda l’articolo trentanove, in cui è introdotto l’Habeas corpus, a garanzia del corpo e dei diritti della persona ». Quell’articolo dice: «Non metteremo le mani su di te. Per questo fu uno strumento importante della limitazione del potere».
Nel corso degli anni, la Magna Charta è chiamata in causa ogni volta che ci sono lotte per la libertà degli individui. C’è una Magna Charta dietro Oliver Cromwell, una che attraversa l’oceano e arriva ad animare la rivoluzione americana, una Magna Charta dietro le lotte per l’indipendenza di Gandhi e di quelle di Nelson Mandela. Claire Breary, a capo dei manoscritti medievali della British Library ha detto: «È diventata un simbolo di libertà e di diritti, è nota in tutto il mondo come il testo che difende da qualunque tirannia». Dunque, sebbene vada inscritta nel quadro di una giurisprudenza feudale, la Magna Charta Libertatum è stata interpretata come il documento che pone le basi per il riconoscimento universale dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Non tutti però sono d’accordo. Tra gli studiosi c’è chi considera certi toni esageratamente celebrativi. «In realtà si tratta solo del risultato di una lotta interna alle élite per i loro privilegi », ha scritto sul New York Times Tom Ginsburg, professore di diritto internazionale a Chicago. E Carlo Galli, filosofo politico, chiarisce: «La Magna Charta non è altro che una delle tante forme di pattuizione che nel Medioevo intercorrono tra monarchi e nobili, i quali ottengono che il re non possa chiedere loro aiuti economici senza prima averli consultati. Tutte le altre valutazioni sono costruzioni ideologiche posteriori, narrazioni, invenzioni ideate nel XVI e XVII secolo e portate avanti nell’Ottocento. Dire che si fonda sui diritti umani uguali per tutti è come dire che Giulio Cesare andava in bicicletta. Ma così l’Inghilterra ha costruito il suo mito politico». Quindi, non dobbiamo considerare la democrazia occidentale come figlia della Magna Charta? «La nostra democrazia si fonda sulla rivoluzione francese e sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui il potere appartiene a tutto il popolo». In un articolo sul
New Yorker , Jill Lepore, docente di storia ad Harvard, ha scrit- to che «l’importanza della Magna Charta è stata sopravvalutata e il suo significato distorto ». Per uno storico del diritto penale antico attento a questi temi come Adriano Prosperi è invece proprio da questo documento che prende vita il parlamentarismo, attraverso la nascita delle prime assemblee dei baroni ed è lì che si pone la «questione decisiva della protezione dei diritti della persona». Il problema è semmai un altro: il modo in cui noi occidentali siamo riusciti a dimenticare i sacri principi di quella Charta. Dice Prosperi: «In nome del terrorismo come nemico assoluto ha prevalso il principio dell’efficacia. Viviamo ormai in uno stato d’eccezione permanente che erode ogni diritto». Il tema è infinito e nell’era di Internet si complica. «Oggi avremo bisogno di proteggere il nostro corpo elettronico», dice Rodotà, che sta coordinando la commissione parlamentare per la “Dichiarazione dei diritti di Internet”. Il prossimo passaggio sarà la nascita dell’Habeas Data.