domenica 14 giugno 2015

La Stampa 14.6.15
Come l’Isis ha cambiato la guerra
Dalla Mesopotamia alle pendici dell’Indu Kush, (non si potevano scegliere posti più incantevoli per un disastro), la guerra di quarta generazione è dunque cominciata. 
di Domenico Quirico


L’artigianato dell’insurrezione globale islamista, auto segregata nell’odio come se fosse vittima di una malattia infettiva, capovolge i nostri luoghi comuni strategici, ne mette a nudo le scuciture: ora sono loro a imporre lo scontro nei termini tradizionali, l’avanzata, l’invasione, l’occupazione di città, presidiarle e difenderle. Tenere un territorio e occuparsi della popolazione che ci vive. 
La guerra non si ramifica con un andamento di epidemia, di alluvione senza logica. Hanno creato fronti come linee continue, le brigate babeliche per temperamento, costumi, incoerenti persino per azione e idealità della prima rivoluzione islamic a sono diventate un esercito. Alla guerra delle cantine e delle finestre, delle fogne e dei ruderi che ho visto ad Aleppo nel 2012, una battaglia diluita tormentosamente, sanguinosamente nel tempo, il Debole ha sostituito il linguaggio delle offensive, degli attacchi frontali. 
Non più il sanguinoso bricolage esplosivo fatto di camion bomba e vecchie armi anticarro, gli spettri della rivolta irachena contro i soldati di Bush, ma colonne mobili ben armate che squassano e annientano le armate sciite e l’esercito di Bashar. 
E dall’altra parte? Che strategia opponiamo noi, Occidente, il Forte? L’inesorabile nemico ci preclude i nostri accomodamenti da comari. Ci è rimasta la guerra asimmetrica, sì, quella delle guerriglie, indietreggiare, colpi di spillo, aggirare la potenza dell’avversario per logorarlo con i raid di piccole unità che poi fuggono; e i bombardamenti aerei e i droni: il terrorismo dei ricchi. Il Forte e il Debole si sono scambiati i ruoli. Il Califfato ha già cambiato il mondo. Davanti al fallimento delle armate napoleoniche in Spagna Hegel fece già la constatazione dell’«impotenza della vittoria» che gli americani provarono poi sulla propria pelle. Ma questo è il passato.
L’invasione del mondo 
I jihadisti di Abu Bakr non praticano più la guerriglia globale, sono diventati soldati, invadono il mondo. Ci hanno rubato la guerra. E la paura in noi si traveste da prudenza, è l’applicazione militare della constatazione iniziale islamista, l’alfa e l’omega del loro progetto: l’Occidente non sa più combattere se non le «piccole guerre», è debole e vile, preda di sibili di dubbio, ondate segrete di sfiducia, malinconiche stanchezze. La terra tra i due fiumi, la Silicon Valley della guerriglia islamista, svolge lo stesso ruolo che la guerra di Spagna ha avuto rispetto alla seconda guerra mondiale, un laboratorio dello scontro totale di domani. Il Pentagono aveva cercato contromisure alla guerriglia irachena del dopo Saddam, sanguinario aggiornamento della guerra terzomondista: non aveva centro di gravità né spesso leader carismatici, una specie di logica darwiniana faceva sì che i gruppi ribelli più forti e più feroci sopravvivessero e si imponessero, le città selvagge, le «feral cities», fatte di miseria cemento e acciaio, diventavano il nuovo campo di battaglia, un nuovo terribile urbanesimo militare fatto di check point, zone forse messe in sicurezza, attentati, infiltrazione. I generali americani ancora una volta non hanno capito nulla. Quella era la guerra precedente, non quella nuova. 
Uno scontro frontale nel Califfato, esercito contro esercito, sarebbe troppo oneroso. L’equipaggiamento di un uomo delle forze speciali costa 30, 40 mila dollari, per ogni soldato che va sul campo di battaglia ne occorrono altri cinquanta che devono provvedere a spampanare le necessità di guerrieri ricchi: Internet, pasti, bevande, energia, trasporti, logistica... La «produttività» in termini di creazione di nocività delle truppe del califfo è mille volte più redditizia.
Il prezzo da pagare 
Ma è soprattutto sul prezzo del sangue che bisogna pagare che siamo diventati insolventi. Chi politicamente può resistere alle immagini di soldati uccisi che scorrono nei telegiornali della sera, all’interminabile gemere delle vedove? Un esercito di combattenti che vogliono morire, i jihadisti, è molto più forte di una armata di professionisti ben addestrati, ma che vogliono vivere e tornare a casa. Sulla parete bianca di una mia prigione in Siria i miliziani di Al Nosra avevano scritto come su una lavagna due massime di al Muttaki che dall’India si trasferì nel Cinquecento a La Mecca dove divenne celebre per la sapienza: «Una spada è un testimone sufficiente» e «l’infedele e colui che lo uccide non si incontreranno mai negli inferi…».
Viviamo in un tempo nuovo. Il mondo è irriconoscibile, con Stati ormai sventrati e distrutti, Siria Iraq Libia Nigeria…, confini ridisegnati, scomparsa di antiche fedi e civiltà. L’apocalisse dunque è cominciata? La guerra, soprattutto la guerra, non è sfuggita alla distruzione di certezze e rituali che il califfato ci ha imposto. Alla guerra che inquadrava, regolava, bene o male, la violenza, è succeduta l’alba di un’altra violenza, un apparente mancanza di senso, che sfugge a tutti i nostri codici, di una stridente e nuova radicalità. 
Il califfato assai più che le guerriglie del Che Guevara e di Giap sta dimostrando che la potenza occidentale può girare a vuoto. In tempo reale, ogni giorno, milioni di musulmani, dall’Atlantico all’estrema Asia possono assistere allo spettacolo. Possono gioire di una rottura strategica essenziale, il capovolgimento della Forza. I più dotti tra loro ricorderanno l’avvento della loro Storia, gli eserciti dei califfi che umiliarono le invincibili superpotenze dell’epoca, Bisanzio e la Persia. Davanti all’avanzare brutale di un mondo di cui non comprendono quasi nulla gli occidentali si rivelano stranamente disarmati. Si barricano in una ritirata fatalista, cercano respiro dietro sempre maggiori misure di sicurezza, l’importante è che Loro non arrivino qui, alzano inutili muri nel mare. 
La tecnologia della morte 
La guerra al tempo del califfato, dunque. Vedrete spettacoli terribili da straziare l’anima, vedrete la guerra non nell’aspetto convenzionalmente bello e splendente, giovani guerrieri che sembrano robot, assistiti dall’infallibile tecnologia della morte, la guerra letta sui libri o vista al cinema che non si ha più da colorire e immaginare, ma si ode, si vede, si tocca, la guerra riportata alla sua espressione reale: sangue, sofferenze, morte. A Taftanaz ne ebbi un saggio sanguinoso, con gli uomini dei reggimenti jihadisti che andavano all’assalto di una base dell’esercito siriano. Al di là dell’ultima barricata le case ai due lati della strada erano vuote, non insegne di negozi, le porte sbarrate da tavole, le finestre sfasciate, qua è staccato uno spigolo di muro, là c’è un tetto sfondato. Gli edifici sembravano degli anziani veterani provati da ogni sorta di dolori e di stenti, che vi guardassero con una aria altera e un tantino sprezzante. Non lontano il tonfo dei proiettili di mortaio, e pareva di sentire da tutte le parti suoni diversi di pallottole: ronzanti come api, sibilanti rapide o stridenti come corde di violino. 
Il nuovo terreno di guerra 
Gli uomini vestiti nero spuntarono da ogni angolo. Iniziarono ad avanzare verso i reticolati della base e le ridotte dove i carri armati tacevano ancora sonnecchiando nei nascondigli sotto le reti coperte di foglie e aspettavano un cenno convenuto per uccidere. Eppure i miliziani non correvano, non strisciavano da riparo a riparo: camminavano. Come nelle antiche stampe delle guerre dell’Ottocento. Cominciate a interessarvi più di voi stessi che di ciò che vi accade intorno, prestate meno attenzione a ciò che vi circonda e uno spiacevole senso di incertezza si impadronisce di voi. Ma loro no: camminano. Ora tutto trema e romba continuamente, trema il cielo e trema l’aria. La corteccia della terra stessa spronata da un folle terrore si raggrinza, rabbrividisce come pelle viva. E’ allora che l’anima se ne va goccia a goccia insieme con lo sporco sudore, ti sembra che il cervello, scuotendo la testa, guizzi nel cranio e esca. Loro no: camminano, ogni tanto una raffica di mitra e il grido: Dio è grande. Dalle trincee nemiche di colpo volano elmetti, mitra e fucili, soldati escono, le braccia ben levate come in preghiera, si inginocchiano, chiedono pietà. 
Domenico Quirico