La Stampa 13.6.15
Riforme, un tagliando per il governo
di Marcello Sorgi
Nel giro di pochi giorni l’orizzonte del governo, e quello personale di Renzi, si sono improvvisamente annuvolati. Sebbene il premier e la cerchia ristretta dei suoi collaboratori cerchino di dissimulare, la sensazione è che la grande avanzata, che durava da oltre un anno e mezzo, abbia subito un rallentamento, se non proprio una battuta d’arresto.
La sbandierata vittoria 5 a 2 nelle regioni non è bastata a fugare del tutto le riserve sul risultato elettorale del 31 maggio, che ha visto un arretramento del Pd soprattutto al Nord, dove più forte era stata l’affermazione del partito del 40,8 per cento alle europee dell’anno scorso. E le due settimane di campagna elettorale per i ballottaggi, trascorse nell’intreccio tra l’emergenza immigrazione e le evidenze dell’inchiesta romana su Mafia Capitale, non fanno ben sperare per il risultato di Venezia, luogo simbolo del voto di domani. Se a vincere dovesse essere l’ex magistrato Felice Casson, che in Senato è stato tra i più fieri oppositori del premier e delle sue riforme, Renzi, a denti stretti, come ha già fatto in Campania per l’«impresentabile» De Luca, potrebbe vantarsi di aver invertito la tendenza favorevole a Salvini e alla Lega. Se invece Casson fosse battuto dall’imprenditore Luigi Brugnaro, candidato del centrodestra, la sconfitta peserebbe assai di più del semplice voto in un pur importante capoluogo di regione. E andrebbe ad accrescere la pressione, che da giorni, ormai, si sta addensando sul presidente del Consiglio e leader del centrosinistra.
Avendo abituato tutto e tutti a un piglio decisionista, Renzi è atteso a delle scelte che non possono tardare. Le più urgenti riguardano Roma e il sindaco Marino, da difendere o da mollare, il Pd della Capitale infestato da comitati d’affari che trescavano con le cooperative corrotte, la riforma della scuola impantanata a Palazzo Madama, e in prospettiva anche quella del Senato.
Tra tutte, la questione più complicata è quella della Capitale. Se molla Marino - come pare preannunciare la decisione di non nominarlo commissario per il Giubileo, e designare al suo posto il prefetto Gabrielli -, Renzi sa che se lo ritroverà avversario alle prossime elezioni per il Campidoglio, dopo scioglimento anticipato del Comune. Marino infatti, tra i pochi a non essere coinvolto nell’inchiesta, è convinto di essere il miglior candidato a una ripulitura etica dell’amministrazione; e non si rende conto che il premier potrebbe giudicare più conveniente l’azzeramento politico della giunta, prima di quello giudiziario della magistratura.
Ma anche il terreno delle riforme è diventato scivoloso per Renzi. E non a causa del fuoco di sbarramento della minoranza interna Pd dei Tocci, dei Mineo, dei Gotor, che sulla scuola come sulla riforma del Senato stanno dando battaglia, com’era già accaduto in passato sul Jobs Act, e sono in grado al Senato di far mancare i voti necessari per approvare le riforme. Il vero timore è per il contenuto della legge, che ha fatto emergere una sacca di resistenza nell’elettorato degli insegnanti, tradizionalmente vicino al centrosinistra. Tra professori e personale della scuola, e non soltanto tra Cobas e sindacati, s’è creato un fronte trasversale che è andato a ingrossare le file dell’astensione o quelle del Movimento 5 stelle. Così che nella mente di Renzi, l’ipotesi di un rinvio della riforma, piuttosto che di uno stravolgimento, nasce più da queste considerazioni, che non dal rifiuto di darla vinta ai suoi oppositori.
Un analogo ragionamento, il premier, da alcune delle persone a lui vicine, è spinto a fare sulla riforma del Senato. Le elezioni nelle aree metropolitane, che hanno in parte sostituito le provincie, si sono rivelate un lasciapassare per una schiera di piccoli professionisti della politica cresciuti all’ombra della classe dirigente periferica del Pd. L’esplosione dello scandalo romano ha fatto il resto, mettendo in luce le incognite della selezione locale del personale politico, anche al livello più alto, colpito e affondato dall’inchiesta. Di modo che l’ipotesi di un Senato composto da consiglieri regionali, eletti in una votazione di secondo grado all’interno delle regioni, secondo quanto previsto dalla riforma, alla luce di quanto sta accadendo solleva nuovi e non trascurabili dubbi.
Naturalmente, in questo come negli altri casi, Renzi potrebbe decidere di tirare diritto. L’ha fatto altre volte, è nella sua indole e nel suo carattere, e c’è perfino chi dice che Renzi non sarebbe più Renzi se non facesse così. Oppure, sorprendendo tutti, potrebbe fermarsi a riflettere se a un anno e mezzo dalla cavalcata che lo ha portato in vetta al partito e al governo, anche per lui non sia venuto il momento di fare un tagliando a se stesso e al renzismo.