Il Sole Domenica 7.6.15
Italo Calvino (1923-1985)
Non basta essere nel giusto
Una lezione morale che non riguarda la leggerezza, ma l’impegno di affrontare il male che ci circonda
di Carlo Ossola
Più il tempo ci allontana dagli anni della sua vita, più la figura di Italo Calvino cresce – nel bilancio critico del Novecento - come uno dei nostri più alti autori di contes philosophiques; senza attendere Palomar, la meditazione di Calvino si dichiara sin da una lettera a Valentino Gerratana, del 15 ottobre 1950: «Credi sempre che la guarigione sia nel ragionamento, nell’aver chiarito teoricamente il problema, mentre invece la coscienza della via di soluzione d’un problema morale non si può avere che contemporaneamente alla sua soluzione pratica effettiva».
Calvino ha saputo dar forma a una lingua capace dell’universo, precisa, esatta e tuttavia senza confini, classica nel conferire il primato alle idee, il posto giusto agli oggetti, alle forme, ai tempi, allo sguardo che li mette in prospettiva. Come la sua lingua, egli è il nostro classico del Novecento, nella sua capacità di cancellare tutto l’inessenziale, tutto il transeunte, per ottenere il supremo dono dell’arte, la «trasparenza», quale egli vede sorgere dallo sguardo di Félicité, la più umile delle figure dei Trois contes di Flaubert: «la trasparenza delle frasi del racconto è il solo mezzo possibile per rappresentare la purezza e la nobiltà naturale nell’accettare il male e il bene della vita».
La levità combinatoria di Calvino è stata spesso accostata a quella dell’Ariosto (sul quale del resto egli ha scritto pagine mirabili): e tuttavia quando si mediti il suo ultimo lascito, Perché leggere i classici (apparso postumo nel 1991), non all’Ariosto ma a Flaubert va ricondotta la sua arte e il suo dono, a noi più prezioso, quello di aver ricreato, per il XXI secolo, lo sguardo di Félicité: così «possiamo riconoscere l’arduo punto d’arrivo cui tende l’ascesi di Flaubert come programma di vita e di rapporto col mondo. Forse i Trois contes [come la trilogia di Calvino: Le città invisibili, Palomar, Six memos] sono la testimonianza d’uno dei più straordinari itinerari spirituali che mai siano stati compiuti al di fuori di tutte le religioni».
Occorre oggi piuttosto varcare quella «levità» per accedere a una zona più profonda, e leopardiana, dell’invenzione di Calvino : quella sua visione cosmica ardita e disincantata che manifesta la statura di un grande stoico, di un ultimo Marc’Aurelio senza impero, ma con troppa coscienza storica, quale Calvino stesso figurava –in parte come autoritratto- nella disperata perfezione di Kublai Khan, in una lettera a Suso Cecchi D’Amico del 1960: «Altro personaggio che va messo in rilievo è Kublai Khan, questo sovrano perfetto, dalla assoluta saggezza e gusto per i piaceri della vita, ma – e qui interveniamo noi - malinconico […]. Ne voglio fare un tipo di nobiltà e malinconia shakespeariana, un principe ancor giovane, bello raffinato, con tristezza metafisica, tipo il Duca (se non sbaglio) della Dodicesima notte e anche un po’ Marco Aurelio».
Una «vanità del tutto» che matura e culmina nella Giornata di uno scrutatore, 1963, ove l’analisi serrata dell’ideologia : «vorrà dire che il comunismo ridarà le gambe agli zoppi, la vista ai ciechi? Cioè lo zoppo avrà a disposizione tante e tante gambe per correre che non s’accorgerà se gliene manca una delle sue? Cioè il cieco avrà tante e tante antenne per conoscere il mondo che si dimenticherà di non avere gli occhi?» verrà a sancire che vana è tale “giustizia ausiliaria”, supplettiva, poiché: «La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile. […] “Chi agisce bene nella storia, - provò a concludere-, anche se il mondo è il ’Cottolengo’, è nel giusto”. E aggiunse in fretta: “Certo, essere nel giusto è troppo poco”».
Questa la sfida utopica, l’assillo etico di Calvino: «essere nel giusto è troppo poco». Un altro ordine di valori si affaccia allora, contemplando il reciproco aiuto che si danno due idioti: «Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo». E quella sarà la conclusione, nell’ultimo sguardo sulla città della sofferenza, sul Cottolengo: «Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. [...] Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo in cui in ogni città c’è la Città».
Dentro le nostre città imperfette, sfrangiate, violente, altre città Calvino disegna, «invisibili», che ’riparino’, almeno progettualmente l’aporia del vivente ; così, nelle tante prospettive che costellano Le città e il cielo, da «Eudossia, che si estende in alto e in basso» a Bersabea, vagheggiata come una Gerusalemme celeste («Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesa in cielo esista un’altra Bersabea, dove si librano le virtù e i sentimenti più elevati della città, e che se la Bersabea terrena prenderà a modello quella celeste diventerà una cosa sola con essa»), si delinea una tensione utopica: occorrerebbe insomma arrivare a quella così alta perfezione che ogni mutamento terreno comportasse un riordino conseguente dei cieli: « - Così perfetta è la corrispondenza tra la nostra città e il cielo, - risposero, - che ogni cambiamento d’Andria comporta qualche novità tra le stelle-» (Le città e il cielo).
Tale meditazione sarà sviluppata e radicalizzata in Palomar: «Ogni processo di disgregazione dell’ordine del mondo è irreversibile, ma gli effetti vengono nascosti e ritardati dal pulviscolo dei grandi numeri che contiene possibilità praticamente illimitate di nuove simmetrie, combinazioni, appaiamenti». Così noi siamo di fronte, ogni giorno, a un dilemma che si fa oggi più stringente - e conferma il valore profetico per il XXI secolo dell’opera di Calvino - : o ci si avvolge nel « pulviscolo dei grandi numeri » (finanza, teoria delle masse, sofisticazione statistica, etc.) oppure si sceglie radicalmente la conclusione di Marco Polo: «E Polo: - L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». (Le città invisibili, clausola finale). Un lungo, strenuo, esercizio di discernimento.