Il Sole 21.6.15
Non è il caso di girarci troppo intorno: il governo Renzi non ha più la maggioranza nel Paese
Renzi e i problemi del Paese
Se l’opinione pubblica è più impaziente del premier
di Luca Ricolfi
Non è il caso di girarci troppo intorno: il governo Renzi non ha più la maggioranza nel Paese.
Secondo l'ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti, il consenso al governo è al 39% (era al 69% un anno fa), mentre quello al Pd sarebbe precipitato al 32%, quasi 10 punti sotto il 41% delle Europee, e circa 1 punto sotto quota-Veltroni (il 33% conseguito dal Pd alle politiche del 2008).
Che cosa è successo?
A me pare che le forze che, in questo momento, stanno mettendo alle corde il renzismo siano due, una di matrice esterna, l'altra di matrice interna. La forza esterna è il cambiamento del clima politico in Europa, con il rafforzamento dei partiti anti-Buxelles, anti-euro e anti-immigrati. È un fenomeno che riguarda quasi tutti i Paesi europei, senza distinzioni fra Nord e Sud, fra Est e Ovest, fra Paesi ricchi e poveri, grandi e piccoli. In Francia Marine le Pen. Nel Regno Unito Nigel Farage. In Ungheria Viktor Orbán. In Spagna Pablo Iglesias, leader di Podemos. In Grecia Tsipras, a capo di Syriza. In Italia Grillo e Salvini. Movimenti ostili agli stranieri sono presenti da anni nelle civilissime Olanda, Svezia, Norvegia, Finlandia. Pochi giorni fa, in Danimarca, il Partito del Popolo Danese (formazione anti-immigrati) è diventata la seconda formazione politica del Paese.
La seconda forza che sta mettendo in crisi il renzismo, quella di origine interna, è il ritorno in grande stile del movimento anti-casta, alimentato dalla deprimente catena di scandali e inchieste che, per l’ennesima volta, ha colpito la politica italiana, coinvolgendo in pieno il partito del premier.
Rispetto a queste due grandi forze, Renzi e i suoi sono apparsi impreparati. Sugli immigrati, Renzi non pare aver capito che i problemi sollevati dalla destra “xenofoba e razzista”, che sono essenzialmente problemi di sicurezza, rispetto delle regole, decoro, sono problemi reali, chiaramente avvertiti dalla maggior parte degli italiani. E che è ingenuo pensare di affrontarli snobbando chi li prende sul serio («sbaglia chi vive su paure e abbaia alla luna»), o dando la colpa ai governi del passato («le regole le ha fatte Maroni quando era ministro dell’Interno»), o promettendo di battere i pugni in Europa, senza peraltro avere la forza necessaria per imporsi. In questo, Renzi si è rivelato molto simile ai suoi predecessori progressisti, che sui temi della sicurezza hanno sempre balbettato, prigionieri dell’etica dei principi, del tutto insensibili alle paure della gente, aristocraticamente tacciata di ingiustificato allarmismo. Detto per inciso, il tasso di criminalità degli stranieri è circa 5 volte quello degli italiani, segno che l’allarme delle persone comuni è più in linea con la realtà della beata benevolenza dei politici di buoni sentimenti.
Sulla corruzione, le cose sono ancora più complesse. Non ho mai capito perché, una volta conquistato il Pd, Renzi non abbia imbracciato risolutamente la ramazza. Ovviamente sapeva e sa perfettamente quanto militanti, quadri e dirigenti di questo partito si siano allontanati dagli stili di comportamento dell’era Berlinguer.
Ovviamente sapeva e sa perfettamente quanto politica ed affari siano intrecciate, e quanto qualsiasi partito di governo (Lega inclusa) sia ostaggio e complice di comitati di affari. Ovviamente sapeva e sa quanto il procacciamento di voti inquini l’azione della Pubblica Amministrazione, e quanto poco il Pd possa chiamarsi fuori. Non occorreva certo aspettare il meritorio studio di Fabrizio Barca per scoprire che cosa sia diventato il maggiore partito della sinistra. Quei comportamenti si vedevano ad occhio nudo, ed erano stati denunciati più volte, anche da membri del Pd. Perché ha aspettato così tanto a muovere un dito?
L’unica risposta che mi so dare è che Renzi abbia sbagliato priorità. Fra la battaglia per moralizzare il Pd e la battaglia per normalizzare (o “mettere a posto”) la Magistratura, restituendo alla politica la sua autonomia, forse Renzi ha ritenuto di dover privilegiare la seconda. Sapendo che gli inquisiti possono essere innocenti, e che persino un condannato, talora, è vittima di un errore giudiziario, ha preferito sfidare i giudici piuttosto che far fare un passo indietro al Pd. Senza rendersi conto che un premier che sceglie sottosegretari inquisiti e candida politici condannati non sfida solo la magistratura, ma sfida l’opinione pubblica. Un’opinione pubblica cui certo si può rimproverare lo scarso garantismo, l’istinto giustizialista, il moralismo a senso unico, il deficit di cultura liberale, ma che non è saggio rieducare sfidando platealmente il senso comune. Se un personaggio pubblico è condannato o sotto processo le scelte sono solo due: o decidi di non candidarlo, oppure lo candidi e ti prendi la responsabilità di dire che i magistrati hanno preso un granchio, come ebbero il coraggio di fare i Radicali con il compianto Enzo Tortora nel 1984. Far finta di niente non è una scelta.
Guardando alla traiettoria politica di Renzi, quel che mi colpisce di più è il contrasto fra astuzia e lungimiranza, fra capacità di comunicare e capacità di governare. Mi sembra un po’ come quando devi accendere un fuoco. Certo, ci sono dei mezzi con cui puoi fare immediatamente un grande falò, spettacolare e sfavillante. Basta mettere molta carta, molta paglia, molti truccioli, o ricorrere a quel liquido accendifuoco che si usa per preparare un barbecue con la carbonella. Di mezzi simili la politica è piena: conferenze stampa, trasmissioni tv, tweet, gesti simbolici, inaugurazioni, provvedimenti più o meno demagogici, promesse solenni, bei discorsi e parole alate. Poi però, dopo un po’, il fuoco si smorza, e del tuo falò restano solo le ceneri.
C’è un’altra strada, tuttavia, per fare un bel fuoco. Sotto, carta, rametti e bastoncini, poi rami via via più spessi, e infine grandi ceppi ben stagionati. All’inizio il tuo fuoco non sembrerà un granché, ma dopo un po’ di tempo brucerà alla grande, e finirà per ardere tutta la sera.
Ecco, la mia impressione è che Renzi, come la maggior parte dei politici che l’hanno preceduto, sia più a suo agio con i truccioli che con i ceppi. È stato bravissimo a suscitare entusiasmo e speranze, ma si è trovato disarmato non appena la realtà gli ha presentato il conto. Sbarchi e corruzione non sono problemi che si possono maneggiare a forza di tweet e di slogan. E a maggior ragione non lo sono temi come l’occupazione, le tasse, la burocrazia, gli sprechi, forse ancora più importanti per il futuro dell’Italia. Per questo genere di cose, quel che serve non è l’astuzia, l’abilità nel mettere all’angolo gli avversari, o la capacità di incantare l’opinione pubblica. Quel che servirebbe, semmai, è uno sguardo un po’ più lungo: darsi, e pretendere, il tempo che è necessario, trasmettendo l’idea che è per il futuro di tutti che si sta lavorando.
Da questo punto di vista l’impazienza renziana potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Avendo dato a credere che i grandi problemi dell’Italia non siano mai stati risolti soprattutto per mancanza di volontà politica, Renzi ha alimentato la credenza che quei problemi si possano aggredire e risolvere rapidamente, solo che lo si voglia. Così l’impazienza renziana ha contribuito ad allevare un’opinione pubblica a sua volta impaziente, che ora comincia a passare all’incasso. E potrebbe, alla fine, rivelarsi ancora più impaziente di lui.