Corriere La Lettura 14.6.15
Tutti kantiani, anche a nostra insaputa
Il filosofo umiliò la ragione, ma solo per salvarla e liberarla: perché siamo noi a dar forma al mondo (senza crearlo)
di Donatella De Cesare
Si apre in Germania la «decade kantiana». Durerà fino al 22 aprile 2024, data in cui ricorre l’anniversario della nascita del grande filosofo di Königsberg (1724-1804). Numerosissime sono le iniziative previste in tutto il mondo. È andato infatti crescendo ovunque l’interesse per il suo pensiero, anche nelle università cinesi. Grazie all’Accademia delle Scienze di Berlino dovrebbe, fra l’altro, essere portata a termine l’edizione critica di tutta l’opera postuma. Per la prima volta si è mobilitato anche il mondo della politica, che promuoverà dibattiti e convegni.
Ma che cosa resta di Immanuel Kant a quasi trecento anni dalla nascita? Occorrerebbe congedarsi una volta per tutte dalle sue idee? Perché la sua «rivoluzione copernicana» divide ancora i filosofi? E che cosa ne è oggi della riflessione sulla «pace perpetua»?
Fu durante la consueta passeggiata per le vie di Königsberg che un giorno, distratto dalle speculazioni metafisiche, gli venne in mente il progetto del suo capolavoro: la Critica della ragion pura . Per anni si dedicò alla scrittura con quella costanza ossessiva e quella dedizione quasi maniacale così rispondenti ai ritmi ferrei della sua vita quotidiana. Quando l’opera uscì — nel 1781 — fu una rivoluzione per la filosofia.
Il nome di Kant non indica solo un’epoca, segna uno spartiacque nella storia del pensiero. C’è un prima e un dopo Kant. Pur senza saperlo, siamo tutti kantiani. Anzitutto perché leggiamo la filosofia, o meglio, la metafisica precedente, da Aristotele a Cartesio, già avvertiti e messi in guardia dalla critica implacabile di Kant. È possibile discettare sull’esistenza di Dio, sull’immortalità dell’anima, insomma su tutto quel che va al di là della nostra esperienza? O non si tratta di vacue visioni, castelli in aria, contrabbandati per filosofia?
Kant comprese quel che stava accadendo nel suo secolo. Mentre i suoi colleghi si arrovellavano intorno a illusorie costruzioni, e si compiacevano di sterili analisi, le scienze sperimentali, saldamente ancorate all’esperienza, avevano raggiunto risultati epocali. Al punto che, non solo si erano emancipate dalla filosofia, ma l’avevano lasciata in una posizione di retroguardia. Cominciò, anzi, a diffondersi scetticismo, se non ostilità: a che cosa avrebbe mai dovuto servire la filosofia? Se non voleva trasformarsi in scienza sperimentale, era destinata a restare nella ridondanza analitica. Da un canto, dunque, il torpido sonno dei dogmatici, dall’altro il borioso trionfo del sapere sperimentale. L’avvenire della filosofia sembrava ormai pregiudicato.
Non sarà un caso che Heinrich Heine, forse esagerando, abbia chiamato Kant il Robespierre della filosofia. Ma il tribunale istituito dal mite professore di Königsberg era quello dove aveva deciso di chiamare in causa la ragione. Si trattò, certo, di una circostanza tragica. Kant parlò di un «malinteso» della ragione con se stessa: quando abbandonava l’esperienza, avventurandosi nella metafisica, la ragione si ingannava, finiva per credere che fossero realtà le proprie chimere. Il tribunale di Kant dichiarò illegittime, una volta per tutte, le pretese della ragione umana incapace di accettare i propri limiti.
Il processo alla ragione non fu allora del tutto tragico, perché Kant riuscì, anzi, a rilanciare la filosofia. Ne ridisegnò, però, i confini; richiamò i filosofi alla modestia, li rinviò al senso comune. Solo su quel fondamento avrebbero potuto costruire un solido edificio.
Quell’ascesi del limite, a cui aveva improntato la sua esistenza, schiva e austera, diventò un modello filosofico. Se umiliò la ragione, fu solo per evitare che inseguisse ancora il sogno metafisico di un sapere totalizzante. La ragione umana doveva finalmente riconoscere di essere finita.
Questa grande lezione di Kant ebbe enormi ripercussioni. La più celebre è forse la rivoluzione copernicana nella conoscenza. Crediamo che sia il mondo a ruotare intorno a noi, che lo contempliamo immobili per scoprirne il segreto ordinamento; invece siamo noi, con il nostro moto ordinatore, a dar forma al mondo. Il che non vuol dire che il pensiero crei il mondo — come alcuni vogliono fraintendere. Kant non nega che il mondo abbia la sua realtà. Dice solo che noi non possiamo conoscerla in sé, nella sua interezza. Perché questa sarebbe di nuovo una presunzione metafisica. Conosciamo le cose solo attraverso i nostri schemi e solo nel modo in cui ci appaiono, in cui sono per noi.
Se la ragione deve ammettere i propri limiti, già nell’ambito della conoscenza, allora non è astratta, ma è situata nel tempo. Ecco che per la prima volta, nella sua storia, la ragione umana si accorge di avere una storia. È questa idea sovversiva di una ragione storica, cioè esposta all’errore, consegnata all’erranza, a inaugurare la modernità. Cartesio aveva preteso di dare inizio a una nuova epoca con il suo dubbio metodico; ma a ben guardare aspirava ancora a una filosofia perenne, definitiva, in grado di ergersi oltre il tempo e oltre la storia. Un abisso lo separa perciò da Kant che, con audacia senza precedenti, riconosce invece il carattere storico della propria riflessione. In tal senso Kant è il nome della nostra modernità.
« Sapere aude ! — abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!». In questo motto Kant sintetizza la sua epoca. Ma il suo saggio Che cos’è l’Illuminismo? non è solo il tentativo di delineare filosoficamente il proprio secolo. Come ha sottolineato Michel Foucault, è la prima riflessione critica sul proprio presente, è quella che, nella filosofia contemporanea, si chiama una «ontologia dell’attualità». Che cosa accade oggi? E che cos’è questo oggi, in cui siamo immersi, rispetto alle altre epoche, passate e future? Sta qui la preoccupazione della modernità.
Mentre la filosofia si immerge nel vortice della storia, e nei suoi avvincenti interrogativi, la ragione umana, rinviata al proprio limite, scopre la sua destinazione morale, guarda alla sua vocazione cosmopolitica. L’agire assume un rilievo che prima non aveva. Sarà allora la ragione pratica a guidare ogni essere libero, chiamato a rispondere di sé e delle proprie azioni. Con la rivoluzione di Kant l’etica diventa filosofia prima.
Non ci sembra oggi irrealizzabile il suo imperativo categorico? L’obbligo di agire in modo che la propria azione sia d’esempio, divenga anzi legge universale, è incondizionato, irriducibile, non può essere piegato a nessun calcolo. Perché ne va dell’umanità. Agire moralmente significa trattare l’umanità propria e quella altrui sempre come fine, mai come mezzo. Servirsi dell’altro come strumento vuol dire asservire anche se stessi, mancare quell’attimo in cui, con il rispetto dell’umano, irrompe la libertà. Non è un caso che Kant sia stato il pioniere dei diritti umani, che abbia delineato un ordinamento cosmopolitico, imperniato sull’ospitalità, e con il celebre saggio Per la pace perpetua abbia lanciato un monito volutamente ambiguo: se una «società delle nazioni» non avesse amministrato la pace tra gli Stati, a prevalere sarebbe stata una pace ben diversa, quella eterna della morte.
In un mondo segnato da due guerre mondiali e dai genocidi di massa, dominato dalle armi nucleari, attraversato da conflitti diffusi e imponderabili, il limpido universo di Kant, retto da una ferma fiducia nel progresso, appare incommensurabilmente lontano. Non si può rievocare, senza una inquieta nostalgia, il cielo stellato a cui il filosofo guardava con ammirazione. D’altronde la sua Königsberg non esiste più. Fu cancellata in pochi giorni, nella primavera del 1945; oggi si chiama Kaliningrad e non fa parte della Germania. Eppure Königsberg resta un luogo irrinunciabile della filosofia.
Le riflessioni di Kant sono pietre miliari, le sue idee sono insieme richiami e promesse all’umanità, da cui è impossibile retrocedere. Dopo Kant nulla è più stato come prima. Il congedo dalla metafisica resta il grande tema della filosofia contemporanea. E se c’è chi si fa tentare dall’illusione di conoscere la realtà in sé, c’è invece chi ha radicalizzato la sua critica, mostrando che la ragione è sempre già impura, perché non può fare a meno del linguaggio, anzi delle lingue, e perciò è estranea a se stessa, segnata dall’alterità, consegnata all’altro. Da Hannah Arendt a Emmanuel Lévinas: non si comprenderebbe, nella filosofia degli ultimi decenni, il primato dell’agire etico senza Kant. La sua rivoluzione non è ancora compiuta.