giovedì 4 giugno 2015

Corriere 4.6.15
Perché siamo alla ricerca dei segreti nascosti in quegli istanti iniziali
Il fascino di un nuovo passo che proietta verso l’ignoto
di Paolo Giordano


«A mouth-watering prospect», una prospettiva da far venire l’acquolina in bocca: così, in una mail al personale, il direttore generale del Cern, Rolf Heuer, ha definito l’esplorazione della regione di energie fino a 13 TeV, inaugurata ieri a Lhc.
Il Large Hadron Collider venne concepito trent’anni fa (l’idea risale al 1984) proprio con l’intenzione di raggiungere questa scala di energie, quindi si può ben intuire il senso di trionfo, di commozione e di lieve sgomento che pervade nelle ultime ore le migliaia di persone coinvolte. L’evento non è molto diverso dal lancio in orbita di un nuovo veicolo spaziale, meno scenografico forse, perché qui tutto avviene nelle profondità della terra e in uno spazio minuscolo, invisibile agli occhi — ma non molto diverso —. Se una sonda spaziale ci permette di visitare regioni inesplorate dello spazio, infatti, aumentare l’energia delle collisioni in un acceleratore come Lhc ci permette di visitare regioni inesplorate del tempo. L’analogia è ben chiara a tutti i fisici e discende da una formula alquanto semplice. In sostanza, più si aumenta l’energia delle collisioni, più indietro nel tempo ci si spinge, ricreando artificialmente gli istanti fatidici successivi al Big Bang, come se si guadagnasse ogni volta qualche fotogramma di una pellicola che ha filmato l’evoluzione dell’Universo dal principio.
Nel caso di Lhc, decenni di lavoro, una quantità abnorme di tempo, di energie intellettuali, fisiche ed economiche ci permettono di guadagnare qualche frazione infinitesimale di secondo. Sembra poco, sembra non valerne quasi la pena, ma non è così. Il tempo non ha tutto lo stesso valore nell’evoluzione dell’Universo: per i fisici, ci sono forse più misteri cruciali da risolvere nel primo centesimo di secondo preistorico di quanti ce ne siano nei miliardi di anni seguenti. La fatica che agli scienziati è richiesta per strappare un’altra piccola porzione di passato aumenta esponenzialmente mano a mano che si procede all’indietro, come se il mistero dell’Inizio ci prendesse in giro, o volesse a tutti i costi restare inconoscibile. Ora, il salto dall’energia della prima presa dati di Lhc — 8 TeV, quanto è bastato per rivelare il bosone di Higgs — all’energia attuale servirà, forse, a chiarire di che cosa sia fatto quel venticinque percento di materia del cosmo che non vediamo, non percepiamo, ma sappiamo essere lì (venticinque percento: non proprio un’inezia). E servirà, forse, a svelare per quale meccanismo, dopo una fase brevissima di sostanziale parità, la materia abbia prevalso sulla sua gemella eterozigote, l’antimateria.
L’aspetto inedito, affascinante, di questo nuovo passo è che stavolta non si va a caccia di qualcosa di troppo definito. Il bosone di Higgs, l’ultimo pezzo nel puzzle della fisica «standard» delle particelle, era lì dove lo si aspettava, adesso si tratta di misurarne meglio le caratteristiche, ma delle energie più alte si conosce poco o nulla, si hanno a disposizione soltanto ipotesi discretamente vaghe, al punto da riassumerle tutte nell’espressione anodina «Nuova Fisica». Perlopiù, si cercherà di scovare qualche anomalia nei processi. Dopodiché, ammesso di trovarne, si farà di tutto per interpretare quelle anomalie con i vari modelli predisposti dai fisici teorici. È iniziata quindi una specie di peregrinazione in un luogo estraneo e imprevedibile, proprio il genere di attività che agli scienziati fa veni re «l’acquolina in bocca».
Una precisazione importante: 13 TeV non è di per sé un’energia spaventosa. Diviene tale quando è condensata in un volume di spazio ridotto quanto quello delle collisioni a Lhc, tanto da farci ipotizzare che negli scontri si raggiunga la temperatura più alta presente nell’Universo attuale.
È possibile che in futuro mancheranno i mezzi e la fiducia per realizzare una macchina capace di superare le prestazioni di Lhc, che le collisioni a 13 TeV restino il massimo mai osato dall’ingegno umano, ma i dati a nostra disposizione smentiscono una supposizione del genere. Finora, l’uomo ha sempre trovato il modo di spingersi ancora un po’ oltre — un po’ più lontano nello spazio, un po’ più indietro nel tempo.