martedì 2 giugno 2015

Corriere 2.6.15
Quelle strane metropoli made in China
di Vittorio Gregotti


Uno dei vantaggi, anche se malamente utilizzato, della cultura del globalismo è quello di conoscere e misurare principi, caratteri e modi di essere del fatto urbano in civiltà radicalmente diverse dalla nostra, comprese le difficoltà che esse presentano ad utilizzare positivamente le possibilità offerte dalle tecnoscienze ma anche i limiti imposti dal capitalismo finanziario globale dei nostri anni, specie in paesi tanto particolari come la Cina con un’antichissima importante cultura, e con le vicende connesse al suo passaggio dalla rivoluzione maoista connessa ad un marxismo contadino, a potenza economica in una nuova forma di connessione tra centralismo dei poteri politici ed economici. Questo libro dal titolo La ville made in China di recente pubblicato in Francia, autore Jean-François Doulet urbanista (Editions B2, pp. 96, e 13), è prezioso proprio a causa della precisione e della freddezza con cui sono riportati i numeri, le quantità e la sequenza delle decisioni economiche ed amministrative che hanno caratterizzato, dopo Mao, la politica urbana e territoriale proposta da Deng Xiao Ping e, pur con diverse interpretazioni, le presidenze successive degli anni sino al 2013.
Il libro non spende neanche una parola sulle specificità dei principi insediativi urbani di una grande cultura come quella cinese, sulle sue profonde diversità rispetto a quella occidentale e sulle possibilità che questo offre alla cultura del disegno urbano. Il libro invece cerca di fare del «caso della città cinese» come uno dei casi in cui il problema è quello di adeguarsi agli standard di una civiltà finanziaria globalizzata i cui giudizi di storia si misurano solo sui passi compiuti rispetto alle arretrate condizioni della cultura urbana ai tempi di Mao. Meno di un secolo di storia sembra offrire, al testo di Doulet, sufficienti occasioni di riflessione.
Ma l’interesse del libro che descrive il fenomeno urbano cinese in dodici diversi capitoli e li confronta alla fine anche con i temi del dibattito urbano dell’intero globo sono i tradizionali, come quelli del traffico, delle periferie e delle loro densità e carattere sociale dei costi di costruzione ma anche delle questioni ecologiche e burocratiche, senza proporre particolari ideologie, se non quelle economico-finanziarie. E proprio la presa di distanza da ogni «incanto storico», che è sovente equivocato in senso folcloristico o in senso tecnologicamente coloniale che fa del libro un catalogo ragionato di dati di grande utilità. Anche gli assurdi interventi esibizionisti di alcuni degli architetti occidentali sono giustificati e collocati a confronto con lo sviluppo delle diverse forme di un grattacielismo dirompente come soluzione delle sette prime città cinesi (Pechino, Canton, Shanghai, Xian, Suzhou, Schenzhen, Wuhan, Chengdu, Chongquing, oltre alle «città nuove») e di alcune città-territorio. È il fenomeno di «corsa alla città» come nuovo ideale (oltre che di possibilità di vita) contro il marxismo contadino che ha caratterizzato il maoismo, una corsa all’urbano che è giunta nel 2010 al 16% della popolazione cinese (di 1,34 miliardi di abitanti).
È la descrizione dell’«economia socialista di mercato» e della forte collusione tra attore economia e rappresentanti del potere politico con tutti i suoi vantaggi, limiti e numeri. Il nostro studio ha avuto l’occasione di progettare e parzialmente costruire una nuova città di 100.000 abitanti a 35 chilometri a sud di Shanghai, lungo il fiume Huangpu, con accanto un importante insieme di industrie. Tutto questo a partire da un concorso vinto nel 2004, con una popolazione attuale di circa 50.000 abitanti e non ancora terminato, soprattutto nei suoi servizi centrali. È proprio quest’esperienza e la mancanza all’inizio del terzo millennio di dati complessivi del fenomeno urbano cinese, che ci fa oggi considerare particolarmente prezioso il piccolo ma preciso (anche se falsamente agnostico) libro di Jean-François Doulet.