sabato 20 giugno 2015

Corriere 20.6.15
La mappa di una crisi
Che fine ha fatto la socialdemocrazia?
La sconfitta in Danimarca (e un anno disastroso): perché la sinistra non vince più
di Maria Serena Natale


«La sinistra non ha altro da proporci che una passeggiata di domenica al centro commerciale?». La domanda è di Martine Aubry, figlia di Jacques Delors ed ex segretario del Partito socialista francese, la donna delle 35 ore. Il destinatario Manuel Valls, l’uomo voluto dal presidente François Hollande alla guida del governo che sta tentando di rilanciare la crescita con manovre liberiste considerate dall’ala sinistra del partito un tradimento dei principi fondatori. Valls, 52 anni, si colloca nel solco della Terza Via, la sintesi di economia di mercato e giustizia sociale che tra i Novanta e i primi Duemila trovò i propri campioni in Tony Blair, Gerhard Schröder, Bill Clinton. La fiducia in se stessa che la sinistra riformista seppe esprimere in quell’epoca si è esaurita.
La sconfitta del governo guidato da Helle Thorning-Schmidt nelle elezioni di giovedì scorso in Danimarca è l’ultimo segnale della progressiva perdita di incisività della socialdemocrazia europea. L’altra faccia del balzo delle destre populiste, spesso legate da un tacito patto di non belligeranza alle destre di governo, è il logoramento delle forze che si richiamano al pensiero socialista sviluppato tra Otto e Novecento come alternativa al comunismo rivoluzionario, quel sistema di teoria e prassi inserito nella dialettica democratica e teso alla riforma del capitalismo dall’interno, non al suo ribaltamento. Un patrimonio che i partiti oggi non sanno aggiornare, indeboliti dalla perdita dei tradizionali sostegni esterni — ceto operaio compatto e organizzato, lotta di classe, la minaccia latente dell’Unione sovietica che costringeva i gruppi di potere a cercare il dialogo con la base sociale. In tempi di erosione della classe media, di esasperazione identitaria come risposta alla globalizzazione e di perenne allarme immigrazione, la strategia dello spostamento al centro si rivela inefficace. Lasciando scoperto il terreno guadagnato da populismi di sinistra che fanno ricorso allo stesso arsenale ideologico e retorico delle destre per intercettare l’urgenza di cambiamento.
A Copenaghen i due principali partiti hanno presentato piattaforme sostanzialmente identiche, con variazioni d’accento su tagli alle tasse, Europa unita (parafulmine prediletto dagli Stati nazionali in declino) e solidarietà. Lo stesso concetto di solidarietà, d’altronde, suona spesso fuori posto nella «società dei consumatori» descritta da Zygmunt Bauman, il sistema culturale improntato all’individualismo consumista che è poi quello delle «domeniche al centro commerciale» della Aubry. Il vero trionfatore delle elezioni danesi è la destra nazionalista ed euroscettica del Partito del popolo, diventato seconda forza con il 21,2% dei voti. «La socialdemocrazia ha scontato l’esperienza di governo all’apice della crisi — dice al Corriere il politologo Kasper Hansen —. Più che la debolezza strutturale delle formazioni tradizionali, è emersa la richiesta di un nuovo modello di società, che potrà essere più verde, protezionista o liberale, e ancora non si vede all’orizzonte».
Quel nuovo modello che continuano a inseguire tanto i tedeschi della Spd, i padri storici della socialdemocrazia europea oggi diluiti nelle coalizioni a guida Merkel, quanto i laburisti britannici che hanno regalato le politiche dello scorso maggio ai conservatori di David Cameron. L’ormai ex leader Ed Miliband è stato accusato di essersi arroccato troppo a sinistra, a dispetto della lezione del blairismo. Che optasse per una maggiore o minore fedeltà al nucleo ideologico delle origini, il partito ha pagato la mancata rifondazione. «Il primo passo per evitare l’estinzione della socialdemocrazia — ha notato l’opinionista Neal Lawson sullo storico settimanale di sinistra New Statesman — è ridefinire il significato di “buona società”. Sì, vogliamo più eguaglianza, ma questo non significa “tv al plasma per tutti”. I socialdemocratici devono parlare d’altro: gestione del tempo, spazio pubblico, ambiente, comunità» (la «buona vita» è stata invece la promessa elettorale dei conservatori). Un partito meno «regolativo», più simile a una piattaforma flessibile e capace di adattarsi alle esigenze in divenire della società.
Una società sempre più diasporica e frammentata che non sa produrre un «pensiero plurale», come diceva Simone Weil, in grado di disinnescare le conflittualità latenti — di natura etnica, religiosa, economica — assumendo la differenza come chiave di lettura della realtà, non come contraddizione da superare. Polarizzazione e aumento del livello dello scontro, anche lessicale, sono elementi che tornano nelle recenti consultazioni. In Polonia è stato eletto presidente Andrzej Duda, l’aggressivo nazionalista che ha spodestato il liberal-conservatore Bronislaw Komorowski. Nei prossimi anni il Centro-Est (che eredita dal passato sovietico dinamiche non confrontabili con quelle occidentali) sarà un laboratorio importante per la sinistra alle prese con disparità economiche sempre più profonde.
Un esperimento politico può considerarsi lo stesso irrompere in Europa di populismi di sinistra che fino a non molto tempo fa erano uno specifico latino-americano. La Spagna di Mariano Rajoy si avvia alle politiche 2015 con l’incognita Podemos, il partito che è l’evoluzione programmatica del movimento degli Indignados e che, insieme a Ciudadanos, alle ultime Regionali ha saputo reinventare una politica della cittadinanza. In Grecia la sinistra radicale di Syriza ha stravolto equilibri storici beneficiando del crollo dei socialisti di Pasok, vittime collaterali della crisi. «I populisti? Fragili come i troll — scrive l’analista norvegese Frank Aarebrot —. Una volta al governo, diventano di pietra».