venerdì 19 giugno 2015

Corriere 19.6.15
Renzo Piano
«Sono un geometra e amo le periferie. Non mi farò trasformare in un’icona»
intervista di Beppe Severgnini


GENOVA Il Geometra guarda il mare e diventa serio. «Non è un vezzo. Mi firmo così, ogni tanto, perché questo sono. Un geometra. Misuro le cose e lo spazio. Guardi cosa tengo in tasca: un metro. Misuro tutto. Anche a occhio». Quant’è lunga quella borsa? «Trentacinque centimetri». Controllo. Esatto.
Vorrei chiedere a Renzo Piano di Expo (dove non c’è) e di Milano (dove c’è poco), ma l’uomo è impossibile da intervistare: bisogna lasciarlo scendere, come un slalomista, e mettergli un paletto ogni tanto. L’età, il successo, perfino questo posto sulle scogliere di Ponente — il più bel luogo di lavoro che io abbia mia visto — lo portano a guardare le cose dall’alto. E dall’alto, diciamolo, tutto sembra un po’ più chiaro.
Si capisce, per esempio, che l’Italia va rammendata, a cominciare dalle periferie. È l’impegno che Renzo Piano s’è preso dopo che l’hanno nominato senatore a vita, arruolando giovani architetti di talento e mettendoli al lavoro su alcune aree urbane. «Bisogna andare a caccia dei buchi neri della città», spiega. «Anche i centri storici hanno i loro problemi, ma ci abitano le persone psicologicamente appagate. Le periferie sono fabbriche di desideri. Bisogna trasformarle. Una trasformazione lenta e omeopatica, utilizzando le energie che contengono».
Le città sono mescolanze, ripete. Miscele di etnie, di età, di aspirazioni, di reddito. Non bisogna concentrarsi su alcune parti e ignorarne altre. «La bellezza focalizzata è un po’ snob, la bellezza diffusa è un’idea colta. Bisogna andare a caccia delle aree dismesse e fecondarle». Quindi Expo non la entusiasma: è stato costruito sopra terreni agricoli. «Chissà, forse è un’idea milanese costruirlo su terreno nuovo. A Genova siamo dell’idea di non buttare niente».
Da quarant’anni lei riempie il mondo del suo lavoro, e le città di simboli: il Beaubourg a Parigi, lo Shard a Londra, Potsdamer Platz a Berlino, l’edificio del New York Times e il nuovo Whitney Museum, appena inaugurato a Manhattan. In Italia la riqualificazione del porto antico di Genova, il lavoro sul Lingotto a Torino, l’auditorium Parco della Musica a Roma. Ma a Milano di lei c’è poco. «Nessun rancore, nessuna amarezza. È andata così, non si può fare tutto. A una certa età ciò che ti tiene in vita non è quello che hai già fatto, ma quello che non hai ancora fatto. Anzi, non hai nemmeno pensato». Ma a Milano, spiega, vuole bene. «Ci sono arrivato da ragazzo. Firenze era troppo bella, ti lasciava annichilito. Milano era imperfetta, quindi interessante. Negli anni Sessanta era la città del desiderio e quella era l’età dei sogni. Stavo a Lambrate. Vede? Periferia».
C’è chi evita le polemiche perché le teme. E chi le evita perché non gli interessano. Il Geometra appartiene a questa categoria. Ogni tanto un lampo di impazienza gli passa negli occhi. «Bisogna essere concilianti, d’accordo. Ma alla fine uno si deve anche un po’ incazzare...». «Bisogna fidarsi del terreno e della luce», ripete Renzo Piano ai suoi ragazzi di bottega. Delle pubbliche autorità, pare di capire, bisogna fidarsi un po’ meno. Non è chiaro, per esempio, se il progetto sul Giambellino (vedi sotto), preparato dai quattro giovani professionisti guidati da due tutor (architetti Ermentini e Di Blasi), verrà adottato e porterà a qualcosa. Forse resterà solo un’ispirazione e una segnalazione: meglio di niente.
RPBW (Renzo Piano Building Workshop) scende verso il mare tra il verde, come un ricordo d’infanzia. Dove gli altri avrebbero messo un ascensore, qui c’è una cremagliera con la cabina trasparente.
Cosa desidera, alla sua età? «I miei desideri mi provocano disordine, diceva un attore francese. Ma è un disordine che significa vitalità». Perché lavora circondato da giovani, e ha deciso di usare l’appannaggio di senatore a vita per metterli al lavoro sulle periferie? «Forse è senso di colpa. Non ho mai insegnato». La generosità è una forma di potere? «È tanto vero che non la chiamo generosità. Si dà e si prende». E lei cosa prende? «I ragazzi ti guardano con aria interrogativa: ti vergogni come un cane a raccontargli balle. Portano con sé questa forza: sono esigenti». Il personaggio di un film dice: c’è una grande gioia nell’incoraggiare il talento. «È così! Se uno di questi ragazzi ha un’idea interessante gioisco più che se l’avessi avuta io». Il pericolo del successo? «La sindrome del Wonderful!». Scusi? «Qualunque cosa fai, ti dicono “Wonderful!”, fantastico! E tu perdi l’occasione di ricevere una critica. A una certa età ti mettono in una teca: la gente arriva, si inginocchia e prosegue».
La cosa che le piace di più? «Pensare. È un godimento fisico. Un orgasmo. Come il cibo e la vittoria». Cosa avrebbe voluto diventare, il Geometra, se non fosse l’architetto italiano più amato nel mondo? «Il trombettista. Forse per questo ho riempito i continenti di luoghi per la musica: Roma, Boston, Berlino. Sono un geometra-liutaio: misuro il suono». La sua aspirazione? «Sempre la stessa. Creare spazi dove la gente sta bene insieme».