mercoledì 10 giugno 2015

Casson, sinistra Pd, proprio come i leghisti...
Corriere 10.6.15
Scoppia il malessere nel Pd
Casson: ne abbiamo accolti abbastanza E anche in Toscana i sindaci si sfilano
di Marco Imarisio


MILANO I ballottaggi sono una brutta bestia. «Questa città ha già dato tanto, ma ora si rischiano tensioni sociali». A chiudere le porte non è un esponente leghista, ma Felice Casson, senatore del Pd, fiero esponente della minoranza di sinistra dei democratici, candidato sindaco di Venezia. Domenica si vota, l’esito è incerto, situazione da uno contro tutti, e ci sono pur sempre gli elettori moderati a fare da classico ago della bilancia.
Achille Variati non ha di questi problemi. Vicenza è «sua» da ormai otto anni, con un secondo mandato ottenuto nel luglio del 2013 quasi per acclamazione, sfiorando il 55 per cento delle preferenze al primo turno. L’ex dirigente della Banca Cattolica del Veneto è un democristiano a 18 carati, che appena maggiorenne si iscrisse allo Scudo crociato arrivando poi al Pd tramite Margherite e affini. Un moderato, di buon cuore, che si definisce renziano non servile. Ancora un mese fa, ai tempi delle contestata manifestazione del «barbaro» padovano Massimo Bitonci contro l’immigrazione clandestina, si dissociava dall’iniziativa citando la lunga tradizione di accoglienza del Veneto, senza peraltro lesinare critiche a una gestione dell’emergenza immigrati che definiva «demenziale», lamentando l’assenza di qualunque progetto che non sia quello implicito di prendere i migranti e disperderli. Ieri ha sentito il bisogno di metterci un carico da undici, rivelando anche di non collaborare più sul tema con la prefettura, da almeno due anni. «Arriva chi lavora, via i delinquenti, vanno distinte le mele buone dalle mele marce, lo Stato non può mandare gente che un mese dopo l’arrivo si mette a rubare, spacciare, rapinare le anziane delle collanine d’oro».
La ribellione sembra ancora lontana, perché entrambi i sindaci o aspiranti tali fanno netti distinguo. Ma sono quei toni, e quelle parole così simili all’immaginario di Matteo Salvini, a dire che la questione dell’accoglienza agli immigrati sta entrando sottopelle al Pd. Non è solo il Veneto, i segni arrivano anche da altri luoghi insospettabili. Nel 2011, ai tempi di un altro esodo di massa dalle coste libiche, la rossa Toscana salì agli onori delle cronache, indicata come esempio reale di «accoglienza diffusa». I sindaci avevano aperto le braccia, come per convenzione ci si aspetta che accada da quelle parti. Qualcosa sta cambiando. La scorsa settimana, davanti alla notizia dei nuovi sbarchi, il prefetto di Pisa si è rassegnato a lanciare un bando rivolto a «soggetti diversi dalle istituzioni» per trovare altri trecento posti letto. Quella precisazione si traduce come la presa d’atto che non tutti i sindaci della provincia hanno dato la loro disponibilità a fornire palestre e altri edifici da destinare al soccorso umanitario. Ieri è arrivato un atto simile dalla prefettura di Firenze, con una «manifestazione di interesse» per maxistrutture private, una misura che sembra annunciare la fine dell’esperimento che così bene aveva funzionato quattro anni fa, l’accoglienza diffusa di trenta persone al massimo nei piccoli Comuni. Questa volta la divisione delle quote su sette diverse fette di territorio non sta dando risultati esatti e sperati. I primi a sfilarsi sono stati i municipi costieri della Versilia, invocando la forza maggiore del turismo. Quasi sempre il diniego viene giustificato evocando alla Casson crisi e tensioni sociali, come hanno fatto tra gli altri i sindaci pd di Camaiore e Grosseto. Anche Forte dei Marmi, luogo vacanziero per eccellenza guidato dal democratico Umberto Buratti, che divenne celebre a causa delle grate antiambulanti messe davanti alle spiagge, risulta non pervenuto. Ma secondo l’Ufficio immigrazione della Regione il dato complessivo è di 180 sindaci su un totale di 270 che vengono definiti con pudore «riluttanti». Nuovi migranti arrivano, antiche certezze si sgretolano.