Republica 21.5.15
Toscana
Rossi sfida il fuoco amico della sinistra e la Lega sogna di portarlo al ballottaggio
Il governatore uscente subisce lo strappo degli alleati di Sel, nell’unica regione dove c’è il doppio turno se nessuno arriva al 40%.
“Fanno il test di antirenzismo. Non li seguo. E non capisco i dem contrari alle riforme”
di Sebastiano Messina
FIRENZE Nella terra del renzismo, l’uomo che stavolta si gioca tutto è un ex comunista, anzi uno che si definisce orgogliosamente «un comunista democratico di stampo berlingueriano», e alla domanda se sia un alleato o un avversario del premier risponde così: «Io non sono renziano, né filorenziano, né antirenziano. Sono un rossiano. Appartengo a una corrente di cui sono l’unico iscritto».
A 56 anni, Enrico Rossi si ritrova a combattere la sua campagna elettorale più difficile e più insidiosa della sua carriera politica: non contro i sei avversari che gli contendono la poltrona di governatore della Toscana — nessuno dei quali può sperare di sorpassare un Pd che l’anno scorso raccolse il 56,3 per cento — ma contro una percentuale da superare a tutti i costi: 40 per cento. Lo spettro del ballottaggio si aggira infatti per la Toscana, grazie a una legge elettorale (il “Toscanellum”) che prevede qui, unica regione in tutto il Paese, un secondo turno se nessuno supera al primo l’asticella del 40 per cento. Un secondo turno che potrebbe vedere coalizzati tutti gli antirenziani, di destra e di sinistra.
Intendiamoci: i sondaggi sono rassicuranti, per il Pd, e anche i precedenti non inducono al panico. Cinque anni fa Rossi fu eletto presidente con una percentuale quasi bulgara: 59,7 per cento. Però allora il Pd era alleato con Sel e con Rifondazione, che stavolta hanno deciso di sfidarlo. Schierando contro di lui Tommaso Fattori, quarantenne ex portavoce del Social Forum di Agnoletto, che spiega così questo divorzio dell’ultimo minuto: «Non potevamo allearci con un Pd che ha subìto una profonda mutazione genetica». Rossi se n’è fatto una ragione, ma un sassolino dalla scarpa se lo toglie: «La verità è che gli amici e compagni della sinistra estrema si sono fatti tentare dall’idea di provare qui la consistenza dell’area tsiprasiana di impronta antirenziana, come se non avessero governato con me fino all’ultimo giorno…».
Gli altri cinque sfidanti invece non erano in giunta, e dunque ora lo attaccano su due fronti. C’è chi accusa il governatore di aver fatto troppo, e chi gli rinfaccia di aver fatto troppo poco. Il berlusconiano Stefano Mugnai, 45 anni, gli rimprovera entrambe le cose: «Ha varato una legge sul paesaggio che ricorda i piani quinquennali dell’Unione sovietica. E intanto continua a promettere un’opera che non realizza mai, la “dorsale tirrenica”: l’autostrada finisce ancora a Civitavecchia e ricomincia a Rosignano». Per il grillino Giacomo Giannarelli, 36 anni, “energy manager” con occhiali e barbetta, Rossi invece ha fatto troppo, per esempio con il suo piano rifiuti: «Se vinciamo noi, chiuderemo i sette inceneritori previsti. Bloccheremo la nuova pista dell’aeroporto di Peretola. Ci opporremo al tunnel per la Tav. E impediremo la costruzione di nuove autostrade. Prima bisogna mettere in sicurezza l’esistente».
Il governatore sa perfettamente di essere al centro del mirino. Vogliono colpire lui per colpire Renzi. Claudio Borghi, il quarantenne milanese catapultato da Salvini nella campagna toscana, lo dice chiaro e tondo: «Vogliamo battere Renzi nella sua terra per provocare un terremoto che faccia cadere il governo. Ci riusciremo? Chissà. Io sono convinto di avere in tasca il secondo posto. Poi se andiamo al ballottaggio, non mettiamo limiti alla provvidenza…».
Così tocca a Rossi difendere, oltre alla sua, anche la bandiera di Palazzo Chigi. Singolare destino, per l’uomo che nel 2010 venne incaricato da Bersani di rispondere all’intervista a Repubblica con cui Renzi lanciò la «rottamazione». Lui che a 32 anni era diventato sindaco di Pontedera, a 41 assessore regionale alla Sanità e a 51 presidente della Regione, doveva controbattere al giovane sindaco di Firenze che aveva osato invocare il pensionamento di tutto il vecchio gruppo dirigente. Lui lo fece, ma a modo suo: «Ha posto questioni al 70 per cento sbagliate ma per il 30 per cento giuste» (e Bersani, raccontano, non ne fu affatto entusiasta).
Con l’ex sindaco — che lui definì «un blairiano moderato» — il governatore ha sempre avuto un rapporto complesso: progetti diversi ma collaborazione leale. Fu Renzi a fare il primo passo, cinque anni fa, quando Rossi si preparava alle primarie. Lo invitò a Palazzo Vecchio, fece apparecchiare la tavola nella sala di Clemente VII, e davanti al grande dipinto vasariano che raffigura la città assediata dai lanzichenecchi di Carlo V gli offrì un piatto di pasta col pomodoro e lo colse di sorpresa: «Io ti appoggerò». L’altro pensò che stesse per chiedergli due o tre assessori, ma si sbagliava: «L’unico assessore che può avere Firenze — gli disse Renzi — è il presidente. E io voglio avere un filo diretto con te». L’indomani, il renziano Federico Gelli rinunciò alle primarie, e tra la Regione e Palazzo Vecchio nacque una convergenza sui fatti che dura ancora («Con Rossi abbiamo un rapporto molto pragmatico di collaborazione piena» assicura il nuovo sindaco, Dario Nardella).
Anche stavolta, è stato il presidente del Consiglio a dichiarare il governatore uscente «il candidato giusto», facendogli saltare le primarie. Rossi non è diventato renziano, ma non si è nemmeno iscritto al partito dei suoi avversari. «Renzi — spiega — sta provando a cambiare l’Italia e io lo sostengo. Mi riconosco poco in questa sinistra che fa muro contro le riforme. Ci vogliono polmoni più ampi per ricostruire una cultura politica della sinistra. Nel Pd, non fuori. Extra ecclesiam, nulla salus ».