Repubblica 9.5.15
Arte e battaglie così nacque la prima Italia
Quasi cinquecento reperti raccontano una vita culturale vivace che formò anche poeti come Virgilio e Catullo
di Giuseppe M. Della Fina
LA MOSTRA Brixia. Roma e le genti del Po presenta un filo rosso costituito dalla documentazione archeologica: un mondo di oggetti, rinvenuti per caso o a seguito di scavi programmati (alcuni recentissimi), che riesce a fornire un’idea concreta sui tempi e i modi della romanizzazione dei Liguri, dei Celti e dei Veneti ovvero di alcuni dei popoli che costituirono il mosaico etnico e culturale della prima Italia.
Opere d’arte o semplici utensili che — seppure con una forza diversa — riescono a parlare di uomini e donne che si scontrarono e incontrarono riuscendo a trovare un equilibrio pienamente soddisfacente e destinato a durare per secoli.
Una storia che iniziò sul campo di battaglia di Sentino (presso Sassoferrato, nelle Marche attuali) dove un esercito costituito da Celti, Etruschi, Umbri e Sanniti affrontò quello di Roma e dei suoi alleati in uno degli scontri più sanguinosi dell’Italia antica: 100.000 sarebbero stati i morti per lo storico greco Duride, 25.000 per Tito Livio. Un’intera generazione venne segnata da quella battaglia: una parte consistente vi cadde, un’altra ne portò i segni, o il triste ricordo.
Una vicenda che proseguì su un altro campo di battaglia nei pressi di Talamone, in Toscana, dove un esercito composto da diverse tribù celtiche (Boi e Insubri alleati con Taurisci e Gesati) venne circondato e distrutto da quello romano settant’anni dopo Sentino. Una rivoluzione — la romanizzazione — i cui esiti finali furono, comunque, “campi arati da orefici” ricorrendo a una definizione di Pier Paolo Pasolini; città degne di nota come suggeriscono, tra l’altro, proprio i monumenti di epoca romana di Brescia (il Capitolium, il teatro, alcune domus ) valorizzati negli ultimi anni, o le collezioni stabili del Museo di Santa Giulia; una vita culturale vivace nel cui ambito si formarono poeti latini di primo piano: Catullo e Virgilio, su tutti.
Lungo il percorso espositivo, articolato in dodici sezioni, il racconto di questo incontro di culture è affidato a quasi 500 reperti. Tra essi spicca sicuramente il frontone di Talamone fatto realizzare dai vincitori per celebrare — ancora decenni dopo — lo scontro del 225 a. C. valutato come decisivo per l’espansione nella Valle Padana.
L’opera realizzata in terracotta rappresenta il mito dei Sette contro Tebe: ai lati sono i carri da guerra di Anfiarao, trascinato agli Inferi, e di Adrasto, in fuga dalla battaglia, entrambi accompagnati da demoni e furie; in posizione centrale, in basso, si trova Edipo tra i due figli morenti, Eteocle e Polinice: il primo è sorretto dalla madre Giocasta, l’altro da un compagno d’armi; il vertice del frontone è occupato da Capaneo raffigurato nel tentativo di scalare le mura della città con accanto altri due guerrieri e una portatrice di fiaccola. Sullo sfondo del frontone, in secondo piano, sono altri guerrieri. Il mito dei Sette contro Tebe , riproposto in chiave simbolica, alludeva al fallimento dell’attacco ad una città e alla sua forza sociale, militare e culturale. Tebe, quindi, come Roma e viceversa.
D’impatto minore, ma altrettanto significativa è la stele di Ostiala Gallenia proveniente dall’area veneta: l’epigrafe è in latino, le due figure maschili indossano tunica e toga, mentre la donna è raffigurata ancora nel suo costume venetico.
Un altro reperto attrae l’attenzione: si tratta di un grande ciottolo di fiume che reca un’iscrizione tracciata in maniera non curata e su una sola riga: vi si ricorda il consolato di Marco Tullio Cicerone nel 63 a. C., nell’anno della congiura di Catilina.