Repubblica 28.5.15
I gringos sbarcano a L’Avana
Sigari, rum e auto anni ’50 Gli americani non vedevano l’ora di tornare sul Malecón. Turisti, per adesso. Ma c’è una partita più ricca: gli investimenti in porti, edilizia, energia Che il regime vuole giocare con calma
di Omero Ciai
L’AVANA ALLE sette di sera, la grande hall del Melià Cohiba, uno dei pochi alberghi cinque stelle dell’Avana, è in ebollizione. Frusciano gli abiti di lino e seta indossati per sopportare il calore umido e afoso dei Caraibi. Via vai di ricchi mercanti d’arte, esperti, professori, artisti. Moltissimi americani, qualche tedesco, alcuni francesi che, dopo aver visitato le sale della Biennale d’arte sul Morro della Cabaña, ora sciamano verso i Paladar (i ristoranti gestiti dai privati) della città. Da “Santi”, sempre pieno, il miglior pesce fresco dell’Avana, o da “Starbien”, oppure all’”Idillio”. Gazpacho e aragostine. Se qualcosa per ora ha ottenuto l’avvio della pace con Obama è il boom del turismo statunitense. Sono tornati i “gringos” che fremono per salire sulle “oldsmobile” scappottate, surgelate dagli anni Cinquanta, ora riverniciate e splendenti, e scivolare sudaticci lungo il Malecón, il leggendario lungomare della capitale cubana, con un mojito tra le mani ascoltando il rituale “chan chan” di Compay Segundo. Un selfie e via nel rosa caldo del tramonto, tutti pazzi per l’Avana: sigari, mulatte e rum.
Alla vigilia della riapertura delle ambasciate, nei primi quattro mesi dell’anno più di 50mila americani sono arrivati a Cuba grazie alle nuove regole di Washington sui permessi per visitare l’isola, il 36% in più del 2014. Ma è raddoppiato anche il numero di quelli che vengono senza chiederlo il permesso, evitando i voli diretti con uno scalo, in Messico o a Panama, prima di raggiungere il miraggio proibito. Come Marianna che ha “triangolato” su Cancun per arrivare qui a fare le linguacce davanti a una parete colma di foto del líder máximo e comprare quadri di artisti cubani che spera di rivendere nelle gallerie di New York. Così l’Avana all’improvviso parla inglese negli ascensori, sui taxi, ai tavoli dei ristoranti e lungo le viuzze sconnesse del centro coloniale. Ad annusare il cambiamento arrivano deputati del Congresso Usa, società d’import export, organizzazioni caritatevoli, e perfino due nipoti di Hemingway, John e Patrick, che hanno ottenuto il via libera per partecipare con le loro barche a una gara di pesca e che, per la prima volta, hanno potuto fare lo stesso viaggio del nonno Ernest: via mare da Key West, ultimo lembo degli States, fino a un porticciolo dell’Avana che si chiama, appunto, Marina Hemingway. Le 90 miglia dello Stretto finora proibite da decenni d’embargo.
Gli alberghi sono pieni così come le centinaia di stanze delle piccole locande a conduzione familiare aperte dai cosiddetti “cuentapropistas”, i lavoratori in proprio, embrione del nuovo modello economico post socialista. Così Cuba è work in progress anche se nessuno può dire dove andrà. Alessandro, un imprenditore italiano che lavora qui da vent’anni, conferma che il mercato s’è messo in moto. «Dall’estero le banche mi offrono credito per investire qui, cosa mai successa prima ». Una società canadese vuole iniettare milioni di dollari nella produzione di biogas e per la zona franca del porto di Mariel ci sono progetti da 300 imprese straniere. Agroalimentare, elettronica, chimica e industria leggera. Fino a oggi il governo ne ha ap- provati soltanto cinque, il più consistente con Hotelsa, una azienda alimentare spagnola. I bocconi pregiati però stanno nell’immobiliare: terreni per costruire intorno alla capitale o i palazzetti sudici del lungomare da ristrutturare e che oggi si possono ancora comprare con cifre irrisorie — meno di 100 mila dollari — anche se per gli stranieri la procedura resta complessa. E poi i nuovi alberghi e le infrastrutture per far fronte, se finalmente cade “el bloqueo” americano, al turismo stelle e strisce che oggi è poco più di un gocciolio ma presto potrebbe diventare un’invasione.
Denaro da investire sul futuro dell’isola sembra essercene anche troppo. Una società inglese ha appena chiuso un accordo in joint-venture per costruire due centri residenziali, villette turistiche e campi da golf. Mentre si parla di demolire e rifare l’antico hotel Riviera, gioiellino d’architettura, famoso per aver ospitato i casinò di Lucky Luciano e della mafia americana prima del ‘59. Matteo però brontola e teme che tutto questo fervore sia soltanto «una bolla» politica. Esperto del business a Cuba rappresenta grandi ditte multinazionali che vogliono entrare nell’affare della ristrutturazione dei porti dell’isola e preparare il terreno all’arrivo degli yacht dalla Florida. Per ora fa soltanto molta anticamera: «Qui pianificano per il quinquennio dal 2030 — sbuffa — c’è una burocrazia di formazione sovietica che rappresenta una casta spaventata dalle novità, un muro di gomma contro il quale rimbalza chiunque viene a investire».
In teoria le nuove regole sarebbero chiare. L’assemblea del Poder popular, il Parlamento che si riunisce due volte l’anno, ha stabilito per esempio che tutti i ristoranti di Stato, quelli di solito schivati dai turisti esperti perché si mangia malissimo, debbano essere dati in gestione a cooperative per migliorare il servizio e stimolare l’iniziativa privata. «Ma intanto — aggiunge Matteo — da sei mesi stanno facendo un censimento perché in realtà nessuno conosceva il numero dei ristoranti di Stato». Con la corruzione il governo è inflessibile. Tempo fa hanno decapitato tutta la struttura dirigenziale di Habaguanex, la piccola holding turistica inventata da Eusebio Leal, uno storico urbanista amico di Fidel, che ha rinnovato a partire dagli anni Novanta molti edifici del centro. Sono finiti in galera una cinquantina di manager locali, sostituiti da funzionari delle Forze armate, i tecnocrati di Raúl. Ora l’appuntamento politico a cui tutti guardano è l’anno prossimo con il Congresso del Partito comunista. Evento dal quale dovrebbero emergere segnali decisivi. A cominciare dalla successione a Raúl Castro, 84 anni, che ha promesso di lasciare il potere entro il 2018.
Sul fronte dei diritti non è cambiato quasi niente. E qualche situazione è paradossale. Sono ancora vietatissime, per esempio, le parabole per la tv satellitare che qualcuno nasconde nei cassoni dell’acqua sui tetti dei condomini. Però c’è il “paquete”, una pen drive, che costa meno di due dollari e arriva nelle case illegalmente tutte le settimane, dove ci sono registrate centinaia di ore dai network americani: film, serie tv, telegiornali, baseball. C’è persino Kevin Spacey, altro che l’ingessatissima tv di Stato. Gli oppositori però sono mosche bianche. L’altro giorno, all’apertura della Biennale, un cantante rock iconoclasta, Gorky Aguila, è finito in carcere per qualche ora dopo aver cercato di esporre all’ingresso del Museo delle Belle Arti un drappo con sopra scritto: «Libertad». Mentre un noto vignettista, El Sexto, che ha appena ricevuto il premio Vaclav Havel alla libertà d’espressione, è in galera da Natale. Il cambiamento è destinato ad andare piano, anzi pianissimo, perché l’ultima cosa che desidera l’élite del partito comunista è rischiare di perderne il controllo.