sabato 23 maggio 2015

Repubblica 23.5.15
Le voci disperate di Palmira: “Noi, prigionieri siamo finiti”
La città siriana è ormai isolata ma soldati e civili lanciano richieste di aiuto con gli sms: “Moriremo, ma fino all’ultimo difenderemo il nostro patrimonio culturale”
di Anne Bernard, Hwaida Saad


La gente è terrorizzata L’unico panificio è controllato dallo Stato islamico
Sono contento che siamo liberi dal regime, ma non che siamo sotto il controllo del Daesh
Ho visto la foto del corpo decapitato di un’amica, la figlia diciannovenne di un generale

BEIRUT Il soldato dell’esercito siriano era stato in servizio a lungo a Palmira, ma era in congedo quando ha sentito che i miliziani dello Stato Islamico avevano attaccato un villaggio a nord-est della città nel deserto, uccidendo decine di suoi compagni. Ha spedito messaggi disperati cercando di raggiungerli. Nessuno gli ha risposto. La settimana scorsa ha condiviso la sua angoscia in una serie di sms, raccolti dal New York Times , mentre lentamente metteva insieme pezzi della storia con i sopravvissuti al massacro. I soldati gli hanno detto che avevano finito le munizioni. Un ufficiale ha chiamato il quartier generale via radio: «Per noi è finita ». La cosa peggiore, dice il soldato, è stata la fotografia che gli hanno mostrato del corpo decapitato di un’amica, la figlia diciannovenne di un generale siriano.
Palmira è un luogo in cui le tensioni covavano da tempo, una città tribale a maggioranza sunnita, dove una ribellione locale fu soffocata all’inizio della guerra e in cui i rapporti tra gli abitanti e le forze di sicurezza erano complessi. Un giovane ufficiale in servizio in quella città, proveniente dalla regione alawita, aveva confessato un anno fa di non sentire nessun collegamento con la popolazione e di temere che i residenti lo avrebbero ucciso alla prima occasione. Gli abitanti – sostenitori e oppositori del presidente Bashar Al Assad – hanno parlato di ufficiali in fuga, che hanno lasciato i civili e i militari di leva in balìa di se stessi. Un commerciante ha detto di aver visto dei militari filogovernativi correre disordinatamente nei frutteti, incerti su dove fuggire. «Tradimento », lo ha definito.
Giovedì, dopo che i miliziani hanno conquistato la città e iniziato ad mettere in atto le esecuzioni delle persone ritenute vicine al governo, molti abitanti si sono chiusi nelle loro case e nelle loro cantine terrorizzati dai miliziani per le strade, dai bombardamenti del governo e dagli attacchi aerei dal cielo. «Prevedo che il regime bombarderà la città in maniera massiccia, specialmente dopo le enormi perdite tra i suoi soldati», dice al telefono Khaled Al Homsi, membro del comitato che organizzò le proteste antigovernative a Palmira nel 2011, prima che qualcuno immaginasse lo scoppio di una vera e propria guerra civile, per non parlare di un gruppo come lo Stato Islamico. «I civili sono terrorizzati», afferma. L’unico panificio è controllato dall’Is. L’esercito sta bombardando in modo casuale ».
Homsi ha 32 anni e lavorava in un albergo. Usa un nome di battaglia per motivi di sicurezza. Dice che ha paura che i miliziani si vendichino contro di lui e contro altri attivisti che si oppongono tanto a loro che al governo. «Sono contento che Palmira sia stata liberata dal regime, ma non sono contento che sia caduta sotto il controllo del Daesh», dice, usando l’acronimo arabo per lo Stato Islamico. «Dal mio punto di vista, come attivista, non è una liberazione».
Khalil Al Hariri, un archeologo che si tinge i capelli di nero con il lucido da scarpe, è fuggito dalla sua casa al margine settentrionale della città, diventata la linea del fronte, mentre i suoi colleghi si affrettavano a portare via dal museo gli antichi reperti. Nelle poche strade commerciali di Palmira sono calate le serrande, chiudendo attività come quella dello Zenobia Café, che prendeva il nome da una leggendaria regina dell’antica Palmira. Omar, un compagno attivista di Homsi, ha cominciato a cancellare dal suo computer tutti i file che i miliziani potrebbero usare per incriminarlo. Homsi dice di non aver nulla da nascondere. Scherzando sul divieto di fumare dello Stato Islamico, dice: «Nasconderò le mie sigarette».
In attesa di recarsi a Palmira con i rinforzi, un soldato siriano di 27 anni ha spedito alla famiglia una fotografia: «Forse l’ultima », ha avvertito. Ma le strade erano bloccate. Un cugino gli ha risposto: «Resta dove sei, Dio ti ama». Dopo che i miliziani han- no preso il controllo, Hariri, l’archeologo, nuovamente raggiunto per telefono, ha detto di essere andato via con altre quattro persone. Tuttavia, ha detto: «La maggior parte dei civili è ancora lì». Poi, ha fatto una pausa. «Che cosa posso dire, la situazione è veramente brutta».
Un altro commerciante sbotta con rabbia: «È colpa dell’esercito ». Quando è arrivato l’assalto lui era fuori città, ma non è stato in grado di portare via i suoi genitori. Dice che suo padre gli ha riferito che i militanti hanno fatto un appello dai minareti perché la gente consegni tutti i soldati e gli impiegati pubblici. Tuttavia, allo stesso tempo, i miliziani si sono sparsi per la città per offrire dei servizi: «Stanno anche distribuendo del pane, Dio ce ne scampi».
Da giovedì notte, gli abitanti dicono che sono state messe a morte in pubblico diverse decine di persone. Gli eventi della giornata hanno presentato a Homsi un nuovo potere contro cui ribellarsi. «Ci opporremo alla distruzione della storia e del patrimonio culturale della città. La rivoluzione è stata e rimane la mia vita. Non accetteremo di farci opprimere da nessuno ». @The New York Times La Repubblica traduzione di Luis E. Moriones