venerdì 22 maggio 2015

Repubblica 22.5.15
Il “soft power” di Putin l’attrazione fatale per la Russia che contagia i paesi dell’Est
Mosca sta vincendo la sua battaglia ideologica con l’Occidente grazie al potere di persuasione e di pressione psicologica nel quale era maestra l’America
Il trionfo viene sancito a Riga, dove si conferma il fallimento del Partenariato orientale con l’Ue
di Paolo Garimberti


È QUASI un paradosso che Vladimir Putin, dopo aver fatto due guerre armate (una dichiarata alla Georgia, e una mascherata per interposti mercenari all’Ucraina) ed essersi annesso porzioni di territori altrui, finisca per vincere la sua ostinata battaglia ideologica all’Occidente con il “soft power”: quel potere morbido di attrazione e di convincimento, ma anche di pressione psicologica, nel quale l’America era un tempo maestra.
Il vertice in corso da ieri a Riga, capitale di un’ex repubblica sovietica oggi indomita campione del fronte europeo anti-Putin, tra l’Unione europea e i sei Paesi dell’abortito “Partenariato orientale” (Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina) sancirà la vittoria, almeno ai punti se non per ko tecnico, del presidente russo. Silenzio totale sulla Crimea, argomento ormai tabù per non urtare la sua suscettibilità, e un pallido, impalpabile documento sul «diritto sovrano di ogni partner di scegliere liberamente il livello di ambizione (!) e gli obiettivi ai quali esso aspira nei rapporti con l’Unione europea». Un bruscolino negli occhi di ghiaccio dell’ex colonnello del Kgb.
Ma la capitolazione era stata annunciata dalla visita, il 12 maggio scorso e dopo ben due anni di assenza, del segretario di Stato americano John Kerry a Sochi, località molto amata da tutti gli uomini forti della storia russo-sovietica (e quindi sommamente simbolica per Putin). È stato il segnale che Obama aveva gettato la spugna: le sanzioni decretate per l’aggressione all’Ucraina non hanno funzionato, non hanno indebolito il leader russo, semmai lo hanno rafforzato in termini di consenso popolare solleticando l’orgoglio e la capacità di soffrire dei russi. E così il presidente americano, prima di vedersi rinnegato dagli alleati (sempre più riluttanti) europei, pronti a ridare a Putin la verginità economico-commerciale, ha giocato d’anticipo. Kerry a Sochi? Un segnale «molto positivo» hanno detto i portavoce gongolanti del Cremlino.
In realtà questo “Partenariato orientale”, di cui in queste ore si decide l’eutanasia, aveva avuto un parto molto travagliato ed era nato già monco a Vilnius nel 2013. Viktor Janukovich, l’allora presidente ucraino, di provato ossequio e «servile encomio » a Putin, aveva tradito sfilandosi. Senza il piatto forte dell’Ucraina erano rimasti i due Stati post-sovietici non a caso amputati di pezzi di territorio annessi dalla Russia: rispettivamente l’Abkhazia e l’Ossezia, e la Transnistria. Nel 2014, dopo Majdan, l’Ucraina è tornata a bussare alle porte dell’Europa e, guarda caso, Putin ha nuovamente usato l’affettatrice, tagliando via la Crimea e le province russofone. L’America ha tuonato, l’Europa ha mormorato, ma la montagna delle sanzioni ha partorito un topolino.
Ci sono almeno quattro ragioni per spiegare il fallimento del braccio di ferro che l’Occidente, con differenti gradi di muscolarità (e anche questa disunione ha favorito il disegno del Cremlino), ha ingaggiato con la Russia. Il primo è che Putin usa il “soft power” in maniera piuttosto hard. Ha strangolato le economia dei filo-europei fino ad asfissiarle. La Georgia, per fare un esempio, si è vista bloccare le esportazioni verso la Russia di tre delle maggiori risorse produttive: i vini (tra i pochi decenti in tutta l’ex Urss), le acque minerali, la frutta e la verdura, che da sempre sono le uniche di qualità reperibili sui mercati di Mosca (sui ricchi e invadenti mercanti dei kolkhoz georgiani a Mosca si possono scrivere pagine e pagine di storie). Perfino l’eccellente cognac armeno è finito vittima delle rappresaglie putiniane. Di fronte alla lentezze e all’eccesso di burocratismo della Ue l’attrazione dell’Unione euroasiatica offerta da Putin è apparsa ad alcuni di questi ex sudditi una via d’uscita dalla recessione.
Il secondo fattore è stata l’incompetenza e la superficialità dell’Occidente a partire dagli Stati Uniti. Con la caduta dell’Urss negli Stati Uniti e in Europa si è diffusa la convinzione che la Russia fosse finita in basso nel ranking delle potenze mon- diali. Il focus delle ricerche e delle previsioni strategiche si è orientato altrove. Molti leader occidentali hanno pensato con arrogante condiscendenza di conoscere e interpretare il personaggio Putin, di «sapergli leggere l’anima»: da Bush figlio fino a Obama, ci sono caduti tutti. Altri, come Berlusconi, ne hanno cercato il consenso e l’amicizia, invidiandone forse l’arroganza del potere (la sua “democrazia controllata”) e lo schiacciamento delle opposizioni.
La terza causa è certamente la nefasta influenza di una Chiesa ortodossa che ovunque si è sentita minacciata nel suo utilitaristico conservatorismo dai “valori occidentali” che le adesioni all’Unione europea avrebbero potuto comportare. Non solo in Russia. Dove Putin l’ha blandita e servita, con un opportunismo che gli ha fatto riscoprire valori religiosi che certo non facevano parte del catechismo delle scuole del Kgb. Ma anche nelle altre ex repubbliche sovietiche: la Chiesa georgiana sostiene senza pudore che un avvicinamento alla Ue significherebbe soprattutto la promozione dei diritti dei gay.
Ultimo, ma non meno importante, fattore di disincanto verso l’Europa è la corruzione e il malgoverno dilaganti nell’ex Urss, l’incapacità dei governi post-sovietici in repubbliche diventate Stati autonomi di avviare riforme politiche ed economiche, che le popolazioni si attendevano. A cominciare dall’Ucraina di Poroshenko. Ma non solo. Se il 31 percento dei georgiani, a 12 anni dalla dolce rivoluzione che ha portato al potere i tecnocrati filo-americani, dice di preferire l’Unione eurosiatica all’Unione europea qualche serio problema ci sarà. All’inverso di quello che disse Enrico Berlinguer ormai tanti anni fa, la gente preferisce «stare di là che di qua» (dell’ex cortina di ferro). Anche se di là comanda Putin.