giovedì 21 maggio 2015

Repubblica 21.5.15
L’ira del premier: “La minoranza vuole solo farmi cadere”
di Francesco Bei, Goffredo De Marchis


ROMA La scuola ormai c’entra poco, la posta in gioco — per entrambi i fronti — è tutta politica: la riconquista del Pd per i nostalgici della Ditta, la definitiva renzianizzazione del partito per il capo del governo. Il luogo dello scontro sarà palazzo Madama, dove i 23 senatori della minoranza, se restassero compatti, potrebbero in teoria mandare agli archivi la Buona scuola. Renzi è furente per quanto accaduto ieri in aula. Certo, i 38 dissidenti dell’Italicum si sono ridotti a 28 (29 con la Bindi), ma la ferita brucia lo stesso: «Gli siamo venuti incontro, abbiamo accettato molte modifiche, abbiamo persino ritirato l’articolo sul 5 per mille. E non hanno votato lo stesso. È evidente che puntano ad altro».
Gli occhi sono fissi sul Senato, è lì che i ribelli vogliono consumare fino in fondo la loro rivincita. Tanto più se le regionali dovessero risolversi con la perdita della Liguria e con un arretramento del Pd in termini di voti assoluti per via dell’astensionismo record. Perché è lì che la maggioranza è in bilico. E il dissenso appare più solido che a Montecitorio. A guidare la pattuglia dei ribelli ci sono i tre civatiani — Mineo, Ricchiuti e Tocci — e bersaniani irriducibili come Miguel Gotor e Maurizio Migliavacca. Così la strategia di palazzo Chigi prevede anzitutto di assottigliare e dividere il blocco della minoranza. Separando chi punta realmente a migliorare il testo da chi, invece, «persegue solo l’obiettivo di far cadere il governo costruendo un partito dentro il partito». Il malumore dei renziani è a livelli di guardia. «Dopo il voto alle regionali - si sfoga Edoardo Fanucci, renziano della primissima ora - non è più prescindibile un chiarimento tra di noi. Non parliamo di Costituzione o di legge elettorale. Ogni provvedimento dell’esecutivo viene ostacolato da una corrente. Non può durare a lungo». Le contromisure al Senato sono già state studiate. Si punta anzitutto su quella parte di Area riformista interessata a consolidare un rapporto con il premier. «Claudio Martini è una persona autorevole - spiega Roberto Rampi, uno degli esponenti del- la corrente di mezzo tra sinistra e renziani - e può convincere molti a votare a favore se il testo sarà modificato. Alla fine scommetto che di quei 23 ne rimarranno al massimo 8». Per separare gli “irriducibili” dai “ragionevoli” Renzi ha già pronto un pacchetto di modifiche, discusse nei giorni scorsi da Matteo Orfini e Lorenzo Guerini con i sindacati. Compresa la Cgil. Un tris di emendamenti che il presidente del Consiglio si è tenuto nella manica per gettarli sul tavolo verde di palazzo Madama: saranno previsti criteri oggettivi per assegnare i premi - un tesoretto da 200 milioni - ai professori più meritevoli in modo da attenuare la discrezionalità dei presidi, e gli stessi presidi avranno meno libertà nella scelta degli insegnati; infine qualche ulteriore apertura ci sarà per una delle tante categorie di precari rimasti esclusi dall’infornata dei 160 mila.
E tuttavia, dopo tutte le mediazioni, esauriti tutti i tentativi di convincimento e se il dissenso dovesse restare consistente, molti renziani non escludono nemmeno di usare l’arma finale, quella fin qui smentita in maniera ufficiale: la fiducia. Il clima in effetti è già surriscaldato. Enza Bruno Bossio e Nico Stumpo, che ieri non hanno votato, avvertono: «In uno Stato democratico nessuna riforma può farsi senza il consenso». Anche da parte dei renziani la tensione si tocca con mano. E lo dimostra la sfuriata fatta ieri in aula dal solitamente diplomatico Lorenzo Guerini, vicesegretario Pd, a Gianni Cuperlo e agli altri della minoranza che chiedevano di intervenire, in sede di dichiarazione di voto, in dissenso dal gruppo. «Adesso basta, è inaccettabile che ogni passaggio qua dentro sia segnato da una dichiarazione di corrente!». Oltretutto gli esponenti della maggioranza accusano gli oppositori dem di essere venuti meno ai patti. «C’era un’intesa - rivela Anna Ascani -, un gentlemen’s agreement sottoscritto tra noi e loro. Se noi avessimo ritirato l’articolo sul 5X1000 loro avrebbero votato il provvedimento. Ma non l’hanno fatto: la verità è che or- mai non riescono a mantenere più nulla».
I renziani ritengono che la scelta di non votare la riforma sia stata presa proprio per coprire le divisioni interne alla minoranza fra dialoganti e duri. I primi favorevoli a sottolineare le modifiche ottenute nella discussione parlamentare, i secondi che puntavano a mettere in difficoltà il governo. Qualche strascico della discussione interna lo si è visto anche al momento del voto, quando un bersaniano come Enzo Lattuca, ad esempio, alla fine ha optato per il sì differenziandosi dagli altri 28. Pur firmando più tardi la lettera della minoranza ai senatori per spronarli alla pugna. Sono segnali di una sofferenza che lasciano intravedere sviluppi più grandi dopo le regionali. Lo stesso Lattuca, sospirando, ammette che esiste «un rischio di assimilazione progressiva della minoranza da parte di Renzi. Soprattutto se il premier continuerà a restare così sulla cresta dell’onda».