Repubblica 18.5.15
Dal Medio Oriente a Cuba così Francesco rivoluziona la diplomazia del Vaticano
Due sante palestinesi dopo il riconoscimento dello Stato Restano ancora aperti i dossier asiatici, Cina in testa
di Paolo Rodari
CITTÀ DEL VATICANO La mediazione a tutti i costi. A rinverdire i fasti della migliore diplomazia vaticana ci sta pensando papa Francesco che, aiutato dagli esponenti di quella scuola del dialogo di casaroliana memoria, è anzitutto sul medio Oriente che dall’inizio del suo pontificato concentra ogni sforzo. Ieri la canonizzazione di quattro suore vissute tra il 1800 e l’inizio del ‘900, fra cui le prime due palestinesi, e con Abu Mazen seduto in prima, questo dice: l’alternativa alle divisioni è soltanto il negoziato. Certo, da Israele si è levata qualche critica per l’accoglienza al presidente palestinese — «Abbiamo bisogno tutti di angeli di pace, ma devono essere angeli veri e pace vera», ha commentato fra gli altri il rabbino di Roma Riccardo Di Segni — ma, come ha spiegato padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, l’obiettivo non è far proprie le ragioni di una parte quanto «incoraggiare l’impegno per la pace». «Guardare con speranza al futuro » è, non a caso, la richiesta fatta dal Papa durante l’Angelus salutando le delegazioni presenti in piazza San Pietro, anche Israele.
«La Chiesa del silenzio non è più tale, parlerà attraverso la mia voce», disse Giovanni Paolo ad Assisi II il 5 novembre 1978, pochi giorni dopo l’elezione al soglio di Pietro. E oggi è Francesco a fare propria, attualizzandola, l’Ost- politik che fu di Wojtyla, intesa non più come dialogo con l’Oriente comunista bensì come dialogo globale, con tutti i protagonisti di quella “terza guerra mondiale” che oggi, come ha detto lo stesso Bergoglio sul volo di ritorno la scorsa estate dalla Corea, «si combatte a pezzi, a capitoli». Fra questi, il dossier più spinoso è il Medio Oriente, per il quale si conferma un attivismo vaticano del tutto simile a quello messo in campo anni fa per la Guerra Fredda. Le notizie parlano di intere popolazioni innocenti, e non soltanto cristiane, costrette alla diaspora. Il dialogo è a tutto campo, ma soprattutto con quelle parti in grado di intraprendere un’azione più incisiva per contribuire al raggiungimento di una pace duratura. La strada l’ha tracciata a Tv2000 il cardinale Parolin, quando ha ricordato che la firma di un accordo con lo stato di Palestina avvenuta due giorni fa «si colloca esattamente nell’ottica di contribuire in maniera concreta alla realizzazione di un disegno che permetterebbe a due popoli di avere un proprio Stato».
Accanto all’azione diplomatica c’è l’urgenza del dialogo interreligioso, «una priorità del ministero di Francesco », ha detto il suo “luogotenente” in terra “infidelium”, il cardinale francese Jean-Louis Tauran. Un dialogo che non cede, tuttavia, di fronte alla necessità di dire la verità. Di qui il coraggio di chiamare «genocidio» la deportazione armena nella Turchia d’inizio Novecento, ed anche il lavoro sfiancante ma efficace svolto a Cuba. Il Papa callejero sorvola sulle critiche che gli provengono dal mondo economico statunitense e media per il disgelo definitivo tra Stati Uniti e Cuba. All’ordine del giorno restano aperti anche i dossier asiatici, Cina in testa. Anche qui Francesco non ha mire di conquista. Soltanto la volontà del dialogo e dell’amicizia con le autorità civili «per trovare — ha detto ancora Parolin — la soluzione ai problemi che limitano il pieno esercizio della fede dei cattolici e per garantire il clima di un’autentica libertà religiosa».