lunedì 18 maggio 2015

Repubblica 18.5.15
Il rebus del nuovo Senato
di Alessandro Pace


NELL’INTERVISTA a Claudio Tito rilasciata pochi giorni fa, il presidente del Consiglio, alla domanda se ritenesse possibile «modificare alcuni punti della riforma costituzionale, soprattutto per quanto riguarda il ruolo del Senato», ha risposto in questi termini: «Siamo disponibili a discuterne nel merito ».
Poiché in altre occasioni, dopo un’affermazione del genere, Renzi ha aggiunto che comunque non avrebbe cambiato opinione, è da sperare che questa volta, non avendo aggiunto nulla, sia disposto a mantenere l’impegno. Il che è nell’interesse della sua riforma. Se infatti è pacifico che anche le leggi di revisione costituzionale devono rispettare i “principi costituzionali supremi”, e che l’esercizio del voto costituisce «il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare» (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014), ne segue che l’esclusione del suffragio universale nell’elezione del Senato viola la proclamazione della sovranità popolare (articolo 1 della Costituzione) che notoriamente costituisce uno dei “principi costituzionali supremi”.
È bensì vero che la Consulta ha di recente riconosciuto la legittimità delle elezioni indirette — o di secondo grado — con riferimento ai consigli metropolitani e ai consigli provinciali, previsti dalla legge Delrio. Ma qui non si tratta delle elezioni di un ente territoriale minore, ma del Senato della Repubblica al quale compete l’esercizio sia della funzione legislativa sia della funzione di revisione costituzionale (che si pone all’apice dell’esercizio della sovranità). Deve inoltre essere avvertito che la futura elezione dei 95 senatori da parte dei consigli regionali ecc. non identificherebbe un’ipotesi di elezione indiretta (o di secondo grado) come accade in Francia, dove i cittadini votano i “grandi elettori” e questi, a loro volta, eleggono i senatori. I cittadini italiani sarebbero quindi del tutto esclusi dall’elezione del Senato. Parlare di elezione indiretta o di esercizio indiretto della sovranità popolare sarebbe una presa per i fondelli.
Stando così le cose, insistere nell’elezione dei 95 senatori da parte dei consigli regionali e delle province speciali — e non da parte dei cittadini — non costituirebbe una dimostrazione di intelligenza politica. Sarebbe quindi saggio, da parte del premier e del ministro per le Riforme, non insistere sull’art. 2 del ddl Renzi-Boschi, secondo il quale «La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti», ma di preferire il testo approvato dal Senato che invece allude agli «organi delle istituzioni territoriali nei quali sono stati eletti». Il che prefigura il male minore tra le due opzioni tuttora sulla carta.
Alla luce del testo del Senato, spetterebbe quindi alla legge che dovrebbe disciplinare le modalità di attribuzioni dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica «tra i consiglieri e i sindaci», di indicare a quali, tra i candidati al consiglio regionale, provinciale e alle elezioni municipali, i cittadini vorrebbero che venissero demandate le funzioni di senatore e quali tra i candidati sarebbero i sostituti degli eletti al Senato. La necessità del sostituto dell’eletto al Senato si impone. È infatti unanimamente avvertito che eleggere un consigliere regionale, provinciale o un sindaco che nel contempo dovrebbe fare il senatore, urta contro il più elementare buon senso, in quanto svolgerebbe malamente sia le incombenze di senatore che quelle di consigliere regionale, provinciale o sindaco.