lunedì 18 maggio 2015

Repubblica 18.5.15
La favola dei diritti acquisiti
di Alessandro Penati


DA PIÙ di vent’anni gli interessi dei giovani, di chi lavora, degli imprenditori, sono sacrificati sull’altare dei Diritti Acquisiti. E ogni volta che un governo cerca di contenere la spesa pensionistica, basta invocare i Diritti Acquisiti.
ESI blocca tutto. Così ha fatto la recente sentenza della Corte Costituzionale, dichiarando illegittimo il blocco temporaneo dell’indicizzazione. «È un discorso di Diritti Acquisiti che vengono violentati » ha dichiarato il signor Cardinale, il cui ricorso è alla base della sentenza della Corte. La pensione è diventata un diritto economico garantito per sempre dalla Costituzione: neppure lo Stato, una volta che l’abbia concesso, lo può più toccare. Sembra ineccepibile. Invece è incoerente.
Lo Stato concede a chi sottoscrive il suo debito pubblico il diritto a incassare gli interessi e ricevere il rimborso del capitale alla scadenza. Se lo Stato rischia l’insolvenza perché non ha risorse sufficienti per onorare il proprio debito, i Diritti Acquisiti, costituzionalmente garantiti o meno, devono essere subordinati a quelli dei creditori. Non è una questione giuridica, ma di buon senso: se per onorare i Diritti Acquisiti dei pensionati, rispettando la volontà della Corte Costituzionale, agli occhi degli investitori rischia l’insolvenza, lo Stato dovrà prima pagare più interessi, aumentare le tasse e ridurre le spese, scaricando il costo dei Diritti Acquisiti sul resto del Paese. Se poi si arrivasse al default, non ci sarebbero più i soldi neanche per le pensioni. La norma dichiarata illegittima dalla sentenza era proprio tesa a scongiurare il rischio (allora reale) di default.
In che cosa consista, in pratica, la violazione dei Diritti Acquisiti, l’ho capito ascoltando casualmente alla radio il signor Cardinale: a fronte dei contributi versati, lo Stato gli aveva promesso un certo tenore di vita in età pensionistica; se avesse saputo che la promessa non sarebbe stata mantenuta, avrebbe fatto altre scelte in età lavorativa, per esempio risparmiare di più per costituire una pensione integrativa.
Ma se questi sono i Diritti Acquisiti costituzionalmente garantiti, allora lo Stato ne viola altri in continuazione. Viola i Diritti Acquisiti dei risparmiatori che investono in Btp, se c’è poi un aumento imprevisto dell’inflazione che riduce il potere di acquisto del risparmio. Li viola anche quando aumenta le tasse sulla casa acquistata con i risparmi di una vita, riducendo il tenore di vita del proprietario. Oppure quando aumenta le imposte su un’attività, rendendo l’investimento non più economico rispetto al momento in cui l’attività era stata intrapresa. O quando impone contributi a chi aveva scelto liberamente di lavorare come autonomo, preferendo i rischi e le incertezze di questa attività all’onere della contribuzione previdenziale. In tutte queste circostanze, gli individui coinvolti si sarebbero potuti comportare diversamente se avessero saputo che lo Stato avrebbe violato diritti che, erroneamente, ritenevano acquisiti.
Su quali basi, allora, la Corte Costituzionale ritiene che solo i Diritti Acquisiti dei pensionati meritino tutela? Per cercare di capirlo ho letto la sentenza 70/2015 della Corte (www.cortecostituzionale.it). Purtroppo le 41 pagine della sentenza sono scritte in un idioma a me incomprensibile. Sarà la mia carenza di nozioni giuridiche, ma forse i nostri giudici dovrebbero ricordarsi che la Costituzione è dei cittadini e per i cittadini. Li incoraggio a visitare il sito della Corte Suprema (www.supremecourt.gov): i giuristi americani saranno forse meno sofisticati di loro, ma almeno scrivono sentenze comprensibili perfino a uno straniero.
Leggendo la sentenza mi è sembrato di capire — condizionale obbligatorio — che l’intangibilità dei Diritti Acquisiti sia sancita da due articoli della Costituzione. Articolo 36: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e […] sufficiente ad assicurare […] un’esistenza libera e dignitosa», ovvero niente sfruttamento o abuso della necessità di lavorare per vivere; e articolo 38: «I lavoratori hanno diritto che siano […] assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di […] vecchiaia», ovvero lo Stato deve prevedere una pensione, che non sia da fame, per chi lavora (anche se molti autonomi e partite Iva, lavoratori anche loro, non avranno una pensione; e la gestione separata Inps per le collaborazioni coordinate e continuative garantirà pensioni da fame).
Cosa c’entrano l’articolo 36 e 38 con i Diritti Acquisiti del signor Cardinale? Per trovare un legame ci vuole un triplo salto mortale logico e una valutazione su come lo Stato debba ridistribuire il reddito: decisione che appartiene alla politica, non al diritto.
Il salto mortale: le pensioni sarebbero una forma di “salario differito”, e quindi, quando concesse, (art. 36) sono proporzionate alla quantità e qualità del lavoro svolto in età lavorativa; se lo Stato successivamente ne riduce il valore, viola il principio di proporzionalità.
L’articolo 38 è utilizzato dalla Corte per stabilire, di fatto, che per evitare il rischio di default e garantire la propria solvibilità di debitore, lo Stato può ridurre il reddito di tutti gli altri cittadini, a propria totale discrezione e con qualsiasi strumento (maggiori imposte, meno copertura dall’inflazione, minore spesa), ma non dei pensionati, che altrimenti non avrebbero più «mezzi adeguati al loro tenore di vita». Così si crea una categoria privilegiata di cittadini, dai Diritti Acquisiti intangibili. Ma non è in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione?
L’incoerenza, la disparità del criterio di valutazione di rapporti Stato-cittadini economicamente analoghi, e l’interpretazione della Costituzione così sbilanciata a favore dei pensionati, che incidentalmente rappresentano la maggioranza degli iscritti al sindacato, fanno apparire la sentenza della Corte come una decisione squisitamente politica che entra nel merito della distribuzione del reddito, prerogativa di governo e Parlamento. Poco importa quali fossero le vere motivazioni dei giudici costituzionali: l’impressione di una Suprema Corte che scende nell’agone politico non fa bene né alla sua immagine presso i cittadini, né alla politica. E neppure all’economia del Paese.