Repubblica 14.5.15
Le regionali di Renzi: una prova di leadership
Ogni volta che le riforme toccano la vita dei cittadini è il premier a rischiare in prima persona
di Stefano Folli
DICE molto l’immagine di Renzi in piedi davanti a una lavagna tradizionale — non una “slide” — con in mano un gessetto per spiegare agli italiani la riforma della scuola. Un’iconografia pedagogica per parlare all’opinione pubblica in un momento in cui il termine “riforma” evoca resistenze e barricate. Il premier ha capito che la grana spetta a lui, non può essere delegata a nessun altro. E si capisce perché. La scuola é il terreno su cui si saldano gli avversari politici e sindacali della stagione “renziana”. Ma è anche il terreno in cui gli esperimenti innovatori e meritocratici sono più ardui, per la semplice ragione che gli insegnanti votano in prevalenza per il centrosinistra. E dunque tocca al presidente del Consiglio farsi avanti, mediare e mettere in gioco se stesso.
La storia si ripete, sotto diverse latitudini. Ogni volta che le riforme toccano sul serio la vita delle persone, è il capo del governo a dover rischiare in prima persona. E si parla di riforme economiche, sociali, professionali. Un altro genere di cambiamento, dalla legge elettorale agli aspetti istituzionali, coinvolge poco gli elettori e gli effetti si misurano nell’arco di anni. Quel che conta sono le riforme il cui impatto riguarda immediatamente i cittadini. Schroeder in Germania mise mano a un paese che allora era «il malato d’Europa», lo riformò, ma perse le elezioni a vantaggio di Angela Merkel. In Gran Bretagna invece la Thatcher prima e Blair poi trasformarono la nazione e restarono al potere svariati anni.
Il rischio c’è sempre, l’esito non è scontato. Renzi aveva cominciato promettendo con ottimismo una riforma al mese e ora si accorge di quanto sia faticoso il cammino, costellato di ostacoli e trabocchetti (ad esempio il sabotaggio dei test “invalsi”, per restare alla scuola). La riforma elettorale è contrastata da segmenti del ceto politico, ma suscita sostanziale indifferenza nel cosiddetto paese reale. Viceversa la scuola, le pensioni, il fisco sono temi che toccano interessi e scatenano passioni. Ed è tutto più difficile.
Vedremo presto quali saranno i riflessi sul piano elettorale delle polemiche sulla scuola e delle inquietudini suscitate in milioni di pensionati dalla sentenza della Corte Costituzionale. Ma è chiaro un punto. Così come Renzi ha preso il gesso per avviare la sua personale controffensiva sulla riforma scolastica, allo stesso modo egli dovrà gestire in prima persona la campagna elettorale nelle regioni in cui si vota. Almeno là dove egli ritiene che valga la pena vincere. L’immagine del premier che se ne resta a Palazzo Chigi perché in fondo si tratta di votazioni locali, non regge alla prova dei fatti. Non in Italia, dove le elezioni assumono sempre un significato politico generale. Ne sa qualcosa D’Alema che si dimise da premier dopo la sconfitta nelle regionali del 2000. E anche Veltroni concluse la sua esperienza alla guida del Pd dopo il voto della Sardegna nel 2009.
Oggi si vota solo in sette regioni, ma la sostanza non cambia: il risultato sarà caricato di significati politici generali. È quasi inevitabile che si tenti di leggerlo come un referendum su Renzi e la qualità del suo riformismo. Quindi al premier conviene raccogliere la sfida, prendersi i suoi rischi e andare a raccogliere personalmente i voti. Se circa il 34 per cento degli italiani si prepara a dare sostegno alle liste anti-sistema, da Grillo che irrompe nell’assemblea dell’Eni a Salvini che non disdegna Casa Pound, vuol dire che un serio turbamento ribolle nel fondo del paese. Un turbamento che nemmeno i primi dati indicanti una timida ripresa economica sembrano in grado di placare. Ne deriva che per Renzi è giunta l’ora di mettere in campo il proprio patrimonio di popolarità e credibilità: dalla Liguria al Veneto, dalla Toscana alle Marche, eccetera. Ovviamente fino alla Campania, se il premier ritiene davvero che sia conveniente spezzare una lancia per De Luca. Mai come oggi il partito del premier richiede una prova di leadership che offra agli italiani la prova evidente che qualcosa a Roma sta cambiando.